Roberto Litta - Critico narratore dell’arte italiana
Roberto Litta
Critico narratore dell’arte italiana
di Giuseppina Irene Groccia |16| Agosto |2025|
Roberto Litta, classe 1966, scrittore, divulgatore e comunicatore, è oggi una delle voci più autorevoli e innovative della critica d’arte contemporanea italiana. Dal liceo scientifico agli studi di giurisprudenza, passando per il marketing, ha seguito un percorso che, lungi dall’essere lineare, gli ha permesso di sviluppare un approccio originale e appassionato. Un metodo critico che lega le opere al contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e dei loro tempi, rendendo l’arte accessibile, viva e dialogica.
Autore di romanzi, soggetti teatrali e saggi, Litta è anche volto della RAI dedicato alla cultura, portando nelle case degli italiani la bellezza dell’arte italiana con eleganza e freschezza narrativa. Il suo lavoro stimola un ascolto attento e sensibile, aprendo nuovi orizzonti di esperienza e offrendo una guida preziosa per le nuove generazioni di artisti e appassionati.
In questa intervista esploriamo la sua visione appassionata e ottimista dell’arte, la capacità di raccontare storie e contesti con rigore e leggerezza insieme, e l’impegno a trasformare ogni opera in un dialogo vivo tra artista e spettatore.
Il Suo percorso non è stato lineare, dal liceo scientifico
alla giurisprudenza, passando per il marketing, fino all’approdo nel mondo
dell’arte. In che modo queste tappe, all’apparenza distanti tra loro, hanno
contribuito a costruire il Suo approccio così originale alla critica d’arte?
La risposta a questa domanda potrebbe sembrare semplice e diretta: Nella vita spesso ci si trova a cambiare.
In realtà, io ho cercato di
seguire l’andamento della mia vita, lasciandomi guidare dalle passioni e dalle
domande che mi sono posto lungo il percorso.
Sono sempre stato affascinato dal concetto di diritto. Mi
chiedevo, sin dai tempi antichi, a partire dagli antichi romani, quali fossero
le regole che permettessero una pacifica convivenza tra le persone, in società
che nel tempo sono diventate sempre più complesse. Mi interessava molto capire
il ruolo che il diritto ha avuto — in particolare il rapporto tra diritto
morale e diritto positivo, quello scritto dai giuristi — nel creare le
condizioni per una convivenza civile. In fondo, si tratta di una delle grandi
conquiste dell’evoluzione umana: l’idea di vivere secondo regole condivise,
piuttosto che in balia di soprusi e prevaricazioni.
Poi è arrivato l’incontro con la letteratura. Già ai tempi
del liceo avevo una grande passione per la storia, la filosofia, e per le
dinamiche sociali ed economiche del nostro Paese. Ho iniziato a scrivere
moltissimo: soggetti teatrali, romanzi, e in seguito anche saggi, soprattutto
nell’ambito dell’arte.
Ed è proprio attraverso la passione per la letteratura che
mi sono avvicinato al mondo dell’arte. Da semplice appassionato ho cominciato a
cercare di interpretare i messaggi che gli artisti, fin dai tempi più antichi
ma anche oggi, ci comunicano attraverso le loro opere.
È spesso descritto come un narratore più che un critico. Che
cosa ritiene di guadagnare, e forse anche di rischiare, scegliendo il racconto
e il coinvolgimento emotivo al posto del rigore accademico?
Se per “narratore” intendiamo qualcuno che ha qualcosa da
raccontare, allora sì. Non bisogna pensare che il narratore sia solo colui che
racconta episodi e fatti legati alle arti. Ognuno di noi è portatore di un
pensiero, di una capacità intellettuale, della possibilità di leggere i nostri
tempi e di proporre analisi e soluzioni.
Il Suo metodo critico lega profondamente le opere al
contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e del loro tempo. Come
nasce questo approccio? E cosa l’ha spinta a prendere le distanze da letture
più fredde e convenzionali?
Il coinvolgimento emotivo è molto importante, perché una
lettura fredda, eccessivamente tecnica, a volte allontana il grande pubblico da
una reale possibilità di approfondire l’analisi e di cogliere i messaggi
trasmessi dalle opere d’arte. Questo è ancora più vero oggi, in un’epoca in
cui, a causa dei nuovi dispositivi, le persone sono abituate ad avere poca
concentrazione e a consumare contenuti in pochissimo tempo.
L’idea, invece, di raccontare le storie, gli eventi, le
condizioni socio-economiche, i comportamenti degli artisti e per chi quelle
opere sono state prodotte, diventa un elemento capace di accrescere l’interesse
e mantenere viva la concentrazione.
Per quanto riguarda la critica, ad esempio, l’anno scorso ho
scritto il catalogo ragionato delle opere di Nelvis Fornasin, uno degli ultimi
grandi rappresentanti della pittura paesaggistica napoletana. È stato
considerato, anche da colleghi del settore, uno dei più importanti saggi sulla
pittura napoletana.
C’è molto da raccontare, e chi fa il mestiere del critico
dovrebbe scrivere con frequenza saggi e curatele, per dimostrare — come cerco
di fare io — che la narrazione e la riflessione sono strumenti fondamentali.
Oggi è anche un volto della RAI nei programmi culturali.
Quanto cambia il Suo modo di comunicare l’arte in televisione rispetto a una
mostra, a un saggio o a una conferenza? Quali compromessi impone il mezzo
televisivo, e quali potenzialità offre?
La televisione di oggi si trova a dover competere con altre
piattaforme o con altri dispositivi, bisogna considerare che molte più persone
fruiscono dei contenuti televisivi, o delle piattaforme televisive, attraverso
i propri dispositivi personali.
Per questo è necessario velocizzare il linguaggio, renderlo
comprensibile e rapido. Nelle “pillole” che abbiamo inserito in alcune trasmissioni,
credo che l’esperimento sia riuscito molto bene. La pillola deve incuriosire,
attirare l’attenzione di un certo target e, a partire da lì, portarlo verso
contenuti più specialistici, garantendo poi una certa continuità di fruizione.
Questo è stato anche l’obiettivo di Memorie Italiane– Isegreti di Milano. Abbiamo iniziato raccontando la città di Milano, ma
racconteremo tante altre città e i loro segreti. L’idea era proprio questa:
partire da piccole pillole pubblicate sui social o negli spot, per poi portare
le persone sulla piattaforma, dove hanno seguito Memorie Italiane fino
all’ultimo secondo.
Il Suo amore per l’Italia è tangibile in ogni intervento.
Secondo Lei, qual è il “non detto” dell’arte italiana che meriterebbe di
tornare al centro del racconto culturale contemporaneo?
L’attuale RAI, guidata dall’amministratore delegato
Giampaolo Rossi, presta attenzione anche al ricambio delle persone e alla
valorizzazione del metodo, affinché, come in tutti gli ambiti, che siano
editoriali, culturali, aziendali o industriali, ci siano sane rotazioni e si
verifichi costantemente come i prodotti possano offrire sempre il meglio al
pubblico.
I prodotti che si dimostrano efficienti, efficaci e
funzionanti proseguiranno. Gli altri, come è giusto che avvenga, saranno
archiviati: alcune sperimentazioni che non hanno successo vengono infatti
consegnate agli archivi e alle teche.
Ha più volte affermato che ogni opera è un “dialogo vivo”
tra artista e pubblico. A Suo avviso, come si può educare il pubblico a
mettersi in ascolto, a lasciarsi attraversare da questo dialogo? Che cosa manca
oggi in questo scambio?
Per mia fortuna, mi capita spesso di parlare con stranieri,
e tutti riconoscono la grandezza dell’Italia sia come giacimento culturale, sia
come culla dell’opera lirica. La lingua dell’opera, per tantissimi anni, è
stata l’italiano, e tutti riconoscono la grandezza dei nostri artisti,
architetti, pittori e scultori.
Questa grandezza viene riconosciuta ancora oggi, sia agli
ultimi maestri del secondo Novecento sia ai contemporanei. Questo significa che
il “brand Italia” nell’arte ha sempre funzionato molto; dobbiamo essere noi i
primi a posizionarlo e valorizzarlo.
Spesso vedo che, all’estero, anche piccole opportunità
vengono trasformate in notizie nazionali e internazionali, mentre in Italia
accade che grandissime iniziative culturali, per eccesso di offerta, a volte
non vengano adeguatamente interpretate e valorizzate.
È vero, può capitare che qualche italiano non faccia onore
al nostro Paese, ma bisogna ricordare che l’Italia è un Paese meraviglioso. A
chiunque abbia dei dubbi, dico: basta venire qui e alzare lo sguardo per
ammirare le nostre opere d’arte, le nostre chiese, oppure, più semplicemente,
chiudere gli occhi e ascoltare Cinema Paradiso di Ennio Morricone. Ci si
convincerà che un Paese capace di generare quella cultura musicale e artistica
non può essere un Paese che “va male”, ma resta sempre uno dei vertici migliori
del talento umano.
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"Flagellazione di Cristo" di Piero della Francesca, tempera su tavola 1444/1469 |
Viene spesso definito un “ponte tra passato e futuro”. Come
si può, secondo Lei, valorizzare la tradizione senza che diventi un freno alla
sperimentazione artistica contemporanea?
Il ponte tra passato e futuro è necessario. Studiando gli
artisti, anche del passato, si nota che tutti hanno avuto dei maestri oppure si
sono ispirati a qualcuno. Penso, ad esempio, a quando Salvatore Fiume decise di
diventare pittore: mentre studiava illustrazione a Urbino, si innamorò della
Flagellazione di Piero della Francesca e della Profanazione dell’ostia di Paolo
Uccello.
Ogni artista ha una sensibilità che è stata stimolata e
incuriosita dalla visione di artisti contemporanei o precedenti. Io ho quasi
sessant’anni e considero un mio dovere trasferire ai tanti giovani che oggi si
avvicinano all’arte le storie meravigliose, a volte persino rocambolesche, dei
grandissimi artisti.
Presentare un artista contemporaneo, mettendo in luce le
affinità della sua storia personale o della sua cifra stilistica con un grande
artista del passato, suscita interesse nei confronti dell’arte di oggi e del
pubblico, contribuendo ad aumentare complessivamente l’attenzione verso i nuovi
artisti.
![]() |
Miracolo dell' Ostia profanata (predella) di Paolo Uccello (sec.XV) |
Molti giovani artisti La considerano una guida. Che
consiglio darebbe a chi, oggi, desidera esprimersi nell’arte ma si sente
scoraggiato da un ambiente che percepisce come elitario o distante?
Il consiglio che do sempre è: cercate il successo, non la
popolarità. Il successo è un participio passato: significa che si è fatto
qualcosa, che si è lavorato a un progetto, che si è costruito uno stile, che ci
si è creduto e che non ci si è fermati alla prima difficoltà.
Noi critici dobbiamo avere la capacità di dare conforto, di
dire a queste persone di non scoraggiarsi, di non guardare solo nell’immediato
alle risultanze commerciali, cioè alle vendite, perché il mercato dell’arte in
Italia oggi può essere molto rallentato, persino fermo, ma questo non deve essere
un deterrente. L’arte è, prima di tutto, espressione del pensiero umano. Finché
c’è un pensiero che si esprime, l’arte italiana, che, lo ripeto, è molto
apprezzata all’estero, continuerà a generare opportunità.
Non a caso, il 5 dicembre a Venezia ci sarà una mostra
importante, Artista d’Europa, in cui gli artisti italiani dialogheranno con
curatori e grandi artisti di altri Paesi europei. Ormai è inutile parlare
soltanto di confini nazionali: bisogna far conoscere le proprie opere anche
all’estero, e in questo la rete può essere un aiuto prezioso.
La Sua visione dell’arte è frequentemente descritta come
romantica e ottimista. È una scelta consapevole, in un’epoca in cui sembrano
prevalere disincanto e nichilismo?
Ha ragione: mi preoccupano molto i Paesi, come quelli che
stiamo vedendo in Occidente e anche in Italia, in cui tutti desiderano le
stesse cose. Tutti vogliono avere una vita agiata, essere ricchi; ma quando i
desideri diventano uguali per tutti, vengono a mancare le differenze e prevale
l’omologazione.
Noi, invece, abbiamo bisogno di tanta passione in materie
differenti, perché con la passione si possono raggiungere picchi di eccellenza
in qualsiasi attività umana. Forse per troppi decenni si è ripetuto, lo ricordo
anche da giovane, che bisognava studiare qualcosa che permettesse di trovare
subito un lavoro. Oppure, se uno aveva il padre notaio, studiava legge; se
aveva il padre medico, studiava medicina; se farmacista, farmacia… e così via.
Invece dobbiamo ascoltare le passioni. Bisogna lottare nella
vita, e quando si capisce di avere una passione molto forte, io l’ho capito per
l’arte, bisogna intraprendere quella strada con tanto impegno e sacrificio. I
risultati, alla fine, arrivano sempre: il lavoro paga, senza alcun dubbio.
Guardando al futuro, quale ruolo immagina per sé nel
panorama culturale italiano? E quale “non ancora detto” sente di voler
raccontare, magari proprio attraverso il linguaggio della televisione?
Credo che, nel nostro Paese, occorra ancora un grande
sforzo di conciliazione culturale. Abbiamo troppe ideologie contrapposte,
troppe visioni dell’arte e della cultura in contrasto. Invece avremmo bisogno
di costruire luoghi di riflessione e spazi di condivisione, dove ciascuno possa
arricchirsi di una parte del sapere degli altri.
Penso che questa sia una strada fondamentale, perché
conciliando si costruisce una comunità forte. I nostri ragazzi dovranno
affrontare sfide ormai globali, internazionali: le loro competizioni non
saranno soltanto con altri giovani italiani, ma con ragazzi di tutto il mondo.
Per poter competere su quei tavoli, serviranno grande capacità,
specializzazione e impegno.
Abbiamo bisogno di una comunità che comprenda che l’impegno,
il merito e le competenze rappresentano una sfida non più rinviabile, e che non
esistono scorciatoie. Forse per troppo tempo ai nostri giovani sono state
insegnate scorciatoie.
L’arte può e deve aiutare a indicare una strada maestra per
vivere bene la propria vita.
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