WILLIAM EUGENE SMITH, LIRISMO CONSAPEVOLE

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WILLIAM EUGENE SMITH LIRISMO CONSAPEVOLE


“Onesto – sì; oggettivo – no”.





di Agostino Maiello |17|Dicembre|2021|





Proseguendo il discorso iniziato qui e proseguito qui, giungo alla fine di questa breve dissertazione dedicandomi a W. Eugene Smith, uno dei maestri della fotografia documentaria, figura di riferimento per generazioni di fotografi. Il fascino della sua figura, in realtà, colpisce prima ancora di dedicarsi alle fotografie, perché già il suo vissuto presenta materiale sufficiente per un film che finirebbe con l’essere epico: padre suicida nel '36, quando Smith aveva 18 anni, una madre fotografa amatoriale – dalla personalità dominante; poi le durissime esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale (fu ad Okinawa ed a Iwo Jima), sino ad una grave ferita che lo costringerà a due anni di cure e, soprattutto, ad una pesante dipendenza dalle anfetamine che lo accompagnerà fino alla morte; e poi ancora due matrimoni (e due divorzi); depressione, alcolismo, bancarotta finanziaria, fino ad una morte piccola e lontana dalla ribalta, nel 1978, mentre in una drogheria dell'Arizona comprava cibo per gatti: un'uscita di scena dal sapore borghese, quasi beffardo, nei confronti di un personaggio vissuto con stili e canoni ben diversi, che a vent’anni era già un fotografo famoso ed a quaranta una leggenda.




Geniale, fiero ed indipendente, Smith iniziò a farsi notare molto giovane, iniziando a lavorare per “Newsweek”, ma ben presto entrò in “Life”, che resterà nel bene e nel male la rivista cui verrà associato - pur avendola lasciata una prima volta nel '42 ed una seconda, definitiva, nel '54, per divergenze sulla pubblicazione dei suoi lavori. E questo nonostante la rivista gli avesse dato il permesso di sviluppare e stampare da sé le proprie immagini, proprio in conseguenza della pressante urgenza di Smith di esercitare un controllo assoluto su ogni fase del proprio lavoro. Il che è tutt’altro che un’assurdità (anche in altri campi, si pensi a Kubrick) dal punto di vista creativo; è però davvero raro che venga consentito ad un fotografo che lavora per una rivista. Ma forse era davvero difficile resistere al fascino ed alla potenza delle stampe di Smith – eccellente fotografo nonché superbo stampatore: un bianconero di lirica bellezza, intensissimo con i suoi neri cupi e bianchi accecanti. I lavori su "Il medico di campagna", "Il villaggio spagnolo" e "La levatrice nera" sono superbi esempi di fotogiornalismo di razza, che noi chiameremmo reportage ma che Smith soleva invece definire “saggi fotografici” (photo essays).





Dopo l’esperienza con “Life” ed una breve parentesi in Magnum, Smith trascorse il resto della sua carriera dedicandosi a progetti personali, sempre più insofferente verso i vincoli (estetici, operativi, tempistici) che i lavori su commissione imponevano. La fama non gli venne meno: restano splendidi i lavori su Haiti, su Minamata, e le immagini scattate da e dentro il suo loft sulla Sesta Strada; e non si possono non citare le sue due più grandi opere incompiute: il lavoro sulla città di Pittsburgh, e l'idea di "The walk to Paradise Garden", una sorta di libro totale ed autobiografico. Smith purtroppo non riuscirà mai a completare questi progetti, troppo ambiziosi ed impegnativi, per come li aveva concepiti, per le possibilità di un singolo autore.





Scorrendo le vicende della sua vita e della sua arte, non si può non pensare che mai un fotogiornalista fu tanto artista, ed allo stesso tempo mai un artista fu tanto fotogiornalista: questo dualismo ha accompagnato Smith lungo tutto il suo percorso professionale ed esistenziale, segnandone profondamente gli esiti. Aveva un talento visivo eccezionale, una profonda consapevolezza della struttura del linguaggio fotografico, ed una ferma convinzione su come questo andasse utilizzato per raggiungere gli scopi del fotografo. “Bisogna rendersi conto che la fotografia è la più grande bugiarda che ci sia, complice la convinzione che essa ci mostri la realtà così com'è", scrisse. E ancora: "Il fotogiornalismo, a causa dell'enorme pubblico a cui arrivano le pubblicazioni che se ne servono, influenza le idee e l'opinione pubblica più di ogni altro ramo della fotografia, per cui il fotografo-giornalista deve avere (oltre all'indispensabile padronanza dei mezzi) un forte senso dell'onestà e l'intelligenza per capire e presentare il suo soggetto opportunamente”. 


Respingendo l'idea che una fotografia possa costituire una oggettiva e autentica rappresentazione del reale, Smith punta dunque a rappresentare la verità nei suoi tratti più essenziali, vale a dire come la percepiva lui in quanto artista: "bisogna osservare e sentire ciò che ci circonda e interpretarlo, traducendolo in un lavoro finito". E dunque, se necessario aggiustava "la realtà per farla aderire meglio alla verità". Questo spiega perché costruisse spesso le immagini, disponendo i soggetti in un certo modo, arrivando alle stampe finali con robusti interventi di camera oscura, esponendo insieme negativi diversi, mascherando e bruciando dove necessario, continuamente reinquadrando e tagliando i negativi.





Il risultato di questo approccio – chiarezza della visione, lucidità in fase di ripresa, controllo ed accuratezza in sviluppo e stampa – è un’opera omnia che, pur nella diversità dei soggetti, dei luoghi e dei tempi, non perde mai efficacia e potenza. Le sue fotografie sono permeate di un tetro lirismo che conferisce loro un valore simbolico, assoluto. “Le mie immagini devono andare oltre la verità letterale e, con estrema esattezza, mostrarne anche lo spirito; meglio ancora, simboleggiarla”. La luce, la superba luce che Smith era capace di usare - forte, intensa, espressiva come non mai - unita alla frequente teatralizzazione delle scene riprese, alla potente atmosfera che riempiva ed arricchiva le sue inquadrature: ogni elemento concorre a colpire ed emozionare l’osservatore con un’efficacia ed una chiarezza fuori dal comune. C’è una contraddizione di fondo in questa visione della pratica fotografica: lo sforzo perenne e disperato di restare ancorati all’oggettività del reale – un tratto essenziale più che mai nel fotogiornalismo – ma nel contempo il voler perseguire la realizzazione di immagini che vadano oltre il dato di realtà per assurgere a qualcosa di universale, che non siano cioè solo una rappresentazione del fatto mostrato, bensì un suo pieno e definitivo, permanente simbolo.






















 














Agostino Maiello


Agostino Maiello (Napoli, 1972) si occupa di fotografia dal 1998; nasce come fotografo di architettura, ma ha operato a lungo anche nel settore della fotografia documentaria, specie in ambito industriale, e di cerimonia. Da molti anni lavora per una multinazionale, occupandosi di soluzioni e sistemi per la stampa digitale. Dal 2000 è Caporedattore della rivista telematica di fotografia Nadir Magazine, e del portale associato Nadir Magazine News; ha anche collaborato con altre testate quali Fotografia Reflex ed Asferico. Collabora con lo Studio DomusPhoto di Roma, occupandosi della parte didattica, e con Camera Service per le attività di formazione e divulgazione della cultura fotografica; si occupa inoltre di laboratori dedicati alla storia della Fotografia e al paesaggio urbano. 






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