STEPHEN SHORE L’estetica dell’ordinario

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LE TRE S Strand Shore Smith

STEPHEN SHORE

L’estetica dell’ordinario





di Agostino Maiello |06|Dicembre||2021|



Proseguendo il discorso iniziato qui, ho l’occasione di spendere qualche parola sul secondo autore che ho menzionato, Stephen Shore. Si tratta di un fotografo statunitense, nato nel ’47 ed ancora in attività. Non starò qui ad elencare i fatti salienti della sua biografia e della sua carriera: chiunque volesse approfondire la sua conoscenza può consultare il suo sito ufficiale o le pagine a lui dedicate sul sito del MoMA, oltre a numerose altre fonti. Qui mi interessa invece indagare le ragioni che lo hanno portato ad essere una figura di primissimo piano nel mio orizzonte culturale di riferimento in ambito fotografico.

Quando, per un motivo o per un altro, una persona sente di avere un interesse per la fotografia ed inizia a scattare immagini, nella maggioranza dei casi si pone, inconsapevolmente o meno, l’obiettivo di realizzare belle fotografie, nel senso di fotografie di cose belle. Che si tratti di paesaggi o tramonti, fiori o gattini, avvenenti fanciulle o baldi giovani, deliziosi neonati, poco rileva: l’attrazione della bellezza è innegabile, e cercare di riprodurre in una fotografia i soggetti che ci piacciono e che più ci colpiscono da un punto di vista estetico è del tutto normale.



Questo è un passaggio tipico, e molte delle persone che scattano fotografie non vanno mai davvero oltre questa fase; il che è perfettamente lecito e comprensibile. Accade però che a volte questo approccio all’utilizzo del mezzo fotografico non risulti più appagante, che si cerchi di andare oltre la foto bella per inseguire invece una foto interessante, e qui entra in gioco la personale sensibilità di ciascuno nel trovare interessanti altri tipi di soggetti e di immagini. 
Ho scritto 
trovare ma forse sarebbe più appropriato usare il termine rendere, perché se un gattino o un tramonto possono piacere praticamente a chiunque senza che il fotografo debba fare alcunché salvo il fotografarli almeno in maniera accettabile, ci vuole qualcosa in più per rendere degna di nota la fotografia di un soggetto banale ed ordinario.




Senza volerci complicare la vita con tre grandi domande (cosa è arte e cosa no? La fotografia è arte oppure no? E quale fotografia può essere considerata artistica, e quale no?), basterà qui accennare alla figura di Walker Evans, uno dei Maestri della fotografia, spesso etichettato come il padre della fotografia vernacolare. Evans è stato un autore di primissimo piano nel definire il cosiddetto stile documentario, ed ha avuto un’influenza determinante su gran parte della fotografia statunitense dei decenni successivi. Come ho già scritto a proposito di Paul Strand, noi oggi possiamo dare per scontato che determinate immagini (documentarie, in questo caso) siano costruite in un certo modo secondo determinati codici espressivi; e questo rischia di nascondere ad una lettura contemporanea l’essenzialità del contributo di Evans alla definizione proprio di quei codici espressivi.
Ora, in letteratura si è usata l’espressione 
fotografia vernacolare per intendere una fotografia che si occupasse di soggetti ordinari, quotidiani: le insegne dei negozi, gli oggetti del vivere comune, i cartelloni pubblicitari. “Evans racconta per la prima volta l’America profonda senza retorica e senza ideologia, svelandone la natura più autentica attraverso quei dettagli che evidenziano la trama dei tessuti sociali, disegnando un panorama che (…) è al contempo un puro documento del tempo e una creazione artistica, in quello che l’autore stesso definisce come stile documentario” (W. Guadagnini, Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo). Si potrebbe approfondire questo discorso, ad esempio interrogandosi sui concetti di stile documentario o stile vernacolare, ragionando sulla doppia importanza di cosa Evans fotografasse, e di come lo fotografasse (qui una interessante intervista, per chi legge l’inglese), ma questo ci porterebbe fuori tema. Il richiamo all’universo della fotografia vernacolare consacrata da Evans era però necessario per, finalmente, approdare a Shore (il gioco di parole è voluto).
Se, come abbiamo appena visto, la fotografia vernacolare esisteva già, se ne deduce che non è stato certo Shore il primo a fotografare gli oggetti e gli ambienti della vita di tutti i giorni. Né si può dire che sia stato lui a sdoganare la fotografia a colori come mezzo di espressione artistica perché quando Shore è apparso sulla scena, negli anni ’70, c’erano già i lavori di Ernst Haas, del nostro Franco Fontana, e naturalmente quelli di chi viene considerato il padre della fotografia artistica a colori, cioè William Eggleston




Il punto è che, al di là di chi sia arrivato prima o dopo, se parlo di Shore è perché il suo lavoro a mio avviso più significativo, “Uncommon places”, segna una svolta fondamentale nell’evoluzione del linguaggio fotografico, raggiungendo picchi di eccellenza che, ancora a mezzo secolo di distanza, restano un riferimento per chiunque. E’ per questo che, citando ancora Guadagnini, “le fotografie di Uncommon Places garantiscono a Shore, per la straordinaria sintesi raggiunta tra realismo dell’immagine, ricercatezza della composizione e della cromia, organicità del progetto e dell’idea che ne sta alla base, un ruolo di primo piano nella fotografia mondiale dell’ultimo scorcio del secolo”.





E qui mi riallaccio a quanto dicevo più sopra. Se un gattino o un tramonto possono piacere bene o male a tutti, ci vuole ben altra sostanza per rendere interessante la fotografia di un’area di parcheggio o di un incrocio stradale. E dov’è la sostanza di Shore? Il punto di partenza è lo scarto operativo rispetto ai suoi lavori precedenti, in particolare a “Superfici americane” che era stato realizzato interamente con pellicola da 35mm. Per “Uncommon places”, Shore decide di utilizzare una fotocamera in grande formato: quindi un’attrezzatura molto ingombrante, non adatta agli scatti liberi ed estemporanei che avevano caratterizzato le “Superfici americane”, il suo precedente lavoro più significativo. La diversa attrezzatura quasi impone un controllo maniacale della composizione, una scelta accurata del punto di ripresa, obbliga all’uso del cavalletto, e richiede una meticolosa gestione degli aspetti formali che conduce all’eccellenza tecnica e realizzativa (anche per l’elevato costo di ogni singola immagine). 



Ma non è tutto qui: il negativo in grande formato (prima un 4x5”, poi un 8x10”, cioè una lastra grande circa 20x25cm) contiene una tale ricchezza di informazioni e di dettagli che, se durante la ripresa sono gestiti ed organizzati in un tempo prolungato (un singolo scatto in grande formato può richiedere anche 15/20 minuti di preparazione), una volta scattata la fotografia finiscono col confluire in una singola immagine, che sarà poi osservata nella sua interezza in pochi secondi. Insomma, con questo tipo di supporto la densità dell’informazione raggiunge livelli surreali, per usare i termini dello stesso Shore. “Specialmente se sto fotografando un incrocio, non ho bisogno di avere un singolo punto di enfasi nell’immagine. Può essere [un’immagine] complessa, perché è così dettagliata che l’osservatore può prendersi tempo per leggerla, e dedicare la sua attenzione a molte più cose”. 

E le immagini di “Uncommon places” chiedono, e meritano, tempo ed attenzione da parte di chi le osserva. L’elevata profondità di campo, la cura meticolosa dell’inquadratura, la meravigliosa commistione di luce e colori, gli equilibri tra vuoti e pieni, linee e masse, le atmosfere sospese, a volte a-temporali: tutto concorre a rivelare agli occhi dell’osservatore non distratto una ricchezza di dettagli e di sfumature che, appunto, conduce quei luoghi fuori dall’ordinarietà, rendendoli “uncommon”; e ci fa scoprire, annidata negli angoli più dimessi o dispersa negli spazi più anonimi del paesaggio contemporaneo, una bellezza diversa e nascosta, tanto realistica e rivelatrice degli scenari della società contemporanea quanto aperta ad essere plasmata dalla nostra personale percezione di quegli spazi.

 














Agostino Maiello


Agostino Maiello (Napoli, 1972) si occupa di fotografia dal 1998; nasce come fotografo di architettura, ma ha operato a lungo anche nel settore della fotografia documentaria, specie in ambito industriale, e di cerimonia. Da molti anni lavora per una multinazionale, occupandosi di soluzioni e sistemi per la stampa digitale. Dal 2000 è Caporedattore della rivista telematica di fotografia Nadir Magazine, e del portale associato Nadir Magazine News; ha anche collaborato con altre testate quali Fotografia Reflex ed Asferico. Collabora con lo Studio DomusPhoto di Roma, occupandosi della parte didattica, e con Camera Service per le attività di formazione e divulgazione della cultura fotografica; si occupa inoltre di laboratori dedicati alla storia della Fotografia e al paesaggio urbano. 






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