Alberto Granata “ Il dolore degli altri” Etiopia 2020
L’ArteCheMiPiace - Uno sguardo sull’opera
Non c’è distanza. Non c’è filtro. Le fotografie di Alberto Granata non stanno lì per essere guardate, ti vengono addosso. Sono pezzi di mondo che respirano ancora.
Un viso scavato, un corpo disfatto, una stanza vuota che odora di fine. Non chiede permesso, la sua camera: entra. E quando entra, non torna più indietro. Alberto non racconta storie. Le porta in superficie. Le strappa dal fondo. È come se la macchina fotografica non fosse un mezzo, ma una ferita aperta, una lente che assorbe dolore e lo sputa fuori, nudo. Niente compiacimento, nessun estetismo da salotto. Solo realtà che brucia, e che continua a bruciare anche dopo lo scatto.
Non fotografa la povertà. Non fotografa la droga. Non fotografa la malattia. Fotografa ciò che resta. I resti. Gli avanzi di umanità che nessuno vuole vedere. E lo fa da dentro, senza indossare i guanti. Perché non puoi evocare la solitudine se non ci sei stato dentro. Non puoi parlare di morte se non ti ha sfiorato la pelle.
I suoi lavori sono fermi immagine che non stanno fermi. Ti seguono, si infilano sotto la pelle, ti svegliano alle tre del mattino. Sono ritagli, sì… ma ritagli che sanguinano. Ogni scatto è un mondo, ma è un mondo che crolla. Il reportage, per lui, non è cronaca. È corpo a corpo.
L’arte, quella vera, nasce quando smetti di osservare e cominci a sentire. E Alberto Granata sente tutto: il silenzio, la disperazione, persino quel minimo barlume di resistenza che a volte rimane incollato agli occhi dei suoi soggetti. Quello che non si lascia morire.
Fotografare, per lui, non è rappresentare. È restituire. Dare indietro qualcosa a chi è stato preso. Ridare peso a chi è stato reso invisibile. Non c’è retorica. C’è verità. Una verità che fa male. C’è poesia, sì. Ma è una poesia ruvida, ferita. Una poesia che cammina scalza sul bordo del mondo, e decide di restarci. Di non voltarsi. Di non arretrare.
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