Reviviscenza - Monica Cossu

  L’ArteCheMiPiace - Interviste




Reviviscenza 
Monica Cossu



di Giuseppina Irene Groccia  |01|Aprile|2023|





Le fotografie di questa straordinaria artista ci consentono di analizzare fasci di relazioni ricercate; superando ampiamente prospettive esistenzialistiche.

Monica Cossu analizza il rapporto tra fotografia e mondo circostante presentando la sua promozione di pensiero come un’interessante esplorazione. Tale approccio consente sempre più coerenti elaborazioni, all’interno di meditativi e costruttivi percorsi.


Monica è un’autrice nota per la sua capacità di catturare visioni e temi personali e renderli poetici attraverso una profonda e abile ricerca fotografica.

I suoi scatti hanno quella responsabilità che diventa veicolo di senso e strumento di forza capace di trasmettere pura grazia e melodia.


In un difficilissimo momento della sua vita la fotografia diventa per lei strumento supplemento alla parola, elemento non sempre sufficiente per descrivere un vissuto, un dolore o un’emozione.

Fotografare se stessa diviene quindi un modo per esorcizzare rabbia, paura, amarezza e delusione. Un medium artistico potente, che le consente di comprendere e trasformare una situazione di difficoltà fisica ed emotiva in una ammissibile rinascita.


A differenza della Fototerapia, la Fotografia teraupetica rende possibile un confronto diretto con se stessi, favorendo la possibilità di acquisire una maggiore sicurezza.

Osservarsi da un punto di vista esterno in seguito ad un autoscatto, permette di scoprire nuove identità e avviare un processo di auto conoscenza libera da ogni pregiudizio.

L’arte e la fotografia diventano strumenti in grado di attivare un processo terapeutico non verbale, un linguaggio simbolico che rende possibile accettare ciò che non siamo abituati a vedere.


Con la serie Reviviscenza, Monica focalizza la sua ricerca artistica verso un percorso di ricerca e condiscendenza, sul suo potere di esternazione e di elaborazione che mira infine ad una liberazione dell’essere e alla riflessione psicologica ed emotiva della memoria che quando è compresa, può diventare un importante punto di forza e di rinnovamento.








“Ripresa delle funzioni vitali temporaneamente sospese.”

La mia storia comincia con una separazione, separazione da me stessa.

C’è un prima e un dopo che proverò a percorrere attraverso immagini fotografiche.

La fotografia mi ha salvata, ha scavato dentro me rimandandomi un’immagine che non mi apparteneva più e che ho imparato ad amare a poco a poco. Mi è stata concessa una seconda possibilità, un’altra vita da vivere in modo diverso, con occhi nuovi.

La voglio raccontare questa vita perché, proprio quando ti sembra di aver perduto tutto è quello il momento in cui ti accorgi di avere tutto ciò di cui hai bisogno.

Un’emorragia cerebrale a 50 anni ha stravolto la mia vita. Sono arrivata in ospedale paralizzata, muta, confusa e incredula che fosse capitato proprio a me. Non ho mai perso conoscenza, ricordo ogni singolo, eterno minuto.

Le parole cucite in fondo alla gola spingevano per venire fuori, prendendo altre vie a me sconosciute.

Tutti mi facevano domande e, pur avendo chiare in mente le risposte, non solo non riuscivo ad emettere un suono, ma non riuscivo a

comunicare nemmeno a gesti, erano confusi anche quelli.

Mi sembrava di impazzire. Ascoltavo il mio dolore, volevo capire, trovare un senso a quello che mi stava accadendo.

A poco a poco cominciai la riabilitazione fisica.

Ogni mattina venivo lavata, asciugata e vestita, quello era il momento più sconfortante e umiliante, ma col tempo mi ci sono abituata. Cercavo almeno di pettinarmi, lo facevo maldestramente, come potevo, ma volevo farlo io. Mettevo la crema sul viso tutte le notti, e un velo di rossetto ogni mattina, era decisamente fuori luogo, ma essere fuori luogo in quel luogo, era ciò che volevo. Non era vanità, ma il tentativo di mantenere la mia dignità, volevo essere Monica, volevo che i miei figli, i genitori e tutte le persone care che soffrivano per me, mi trovassero al meglio che potevo.

Dopo tre mesi e mezzo arrivò il momento delle dimissioni dall’ospedale e fu terribile, dentro ero come gli altri, fuori ero sola.

Le difficoltà del vivere quotidiano erano frustranti, lo sconforto era insopportabile, la depressione non tardò ad assalirmi e poco dopo arrivò anche l’epilessia.

Nessuno mi aveva preparata, nessuno mi aveva mai detto che è una conseguenza frequente nei soggetti che hanno avuto un ictus.

Ero viva ma non provavo più nulla, emotivamente spenta rinunciavo a me stessa.

La macchina fotografica ancora sul cavalletto come l’avevo lasciata era un timido richiamo a guardarmi attraverso l’obiettivo.

Non mi riconoscevo più, il mio corpo era cambiato e non lo accettavo, sentivo la gamba e il braccio pesanti da portarmi appresso, mi muovevo goffamente e mi vergognavo.

Poi arrivò finalmente la rabbia, il momento di reagire, di riprendermi la vita e ricominciai a scattare.

“Arrangiati in tutti i modi, guarda oltre, esercitati”, questo mi dicevo e mi dico tuttora.

Sono consapevole che la mia battaglia durerà tutta la vita ma ora, finalmente riconciliata, convivo serena con me stessa.





Nel caso di Monica le immagini diventano un mezzo straordinario, un veicolo per avviare una conversazione con il suo inconscio e attivare processi auto-curativi di notevole importanza. La fotografia diventa per lei luogo conoscitivo della propria presenza e di una rinnovata percezione di sé.




Di questo e altro ha deciso di parlarne in esclusiva per noi di L’ArteCheMiPiace.

ecco cosa ci ha raccontato…




Raccontaci del tuo background fotografico: dove affonda le sue origini la tua ricerca artistica?


Tra le influenze principali che caratterizzano il mio percorso fotografico, la più forte è sicuramente il cinema. Amo moltissimo il cinema d’avanguardia surrealista degli anni ’20, quello visionario di David Lynch, quello introspettivo di Bergman.

Un Chien Andalou” di Bunuel,” Eraserhead” di Lynch, “Il Settimo Sigillo” di Bergman e “Il cielo sopra Berlino” di Wenders sono film che hanno segnato il mio sguardo fotografico.

L’esplorazione dell’inconscio e del sogno è un tema che mi affascina. Abbandonare la sfera razionale per lasciarmi trasportare in un mondo diverso dove non necessariamente è dato capire, ma è la percezione emotiva a prevalere.

Il sogno proviene dalla nostra essenza profonda e ti mette in contatto con te stesso, è un dialogo che porta a conoscere aspetti sopiti della propria personalità.

Mi affascina soprattutto il superamento della dicotomia sogno/realtà, il non capire dove finisce l’uno e comincia l’altro e l’effetto straniante, ambiguo e disturbante che ne deriva.

Un altro elemento importante del mio background è la musica. Gli anni ’80 erano quelli del post punk, della darkwave, del noise nelle cui sonorità oscure e malinconiche mi identifico pienamente.

Tra i fotografi che mi hanno influenzato maggiormente c’è sicuramente Francesca Woodman per quanto riguarda l’autoritratto, ma Giacomelli e Ghirri meritano il primo posto nelle mie preferenze.





Quali artisti della scena fotografica attuale ritieni siano da evidenziare?


Amo molto la fotografia di Guido Guidi, col suo stile semplice riesce a trovare bellezza in luoghi ordinari dove non ci si soffermerebbe mai. Sono per lo più zone di periferia, di transito che a primo impatto non sembrano offrire spunti interessanti.

Un altro fotografo incredibile e geniale che mi affascina è Mario Lasalandra, nelle sue immagini c’è un mondo sospeso, un’attesa per qualcosa che sta per succedere. Un mondo surreale che scava nell’inconscio.

Un altro grande fotografo del quale apprezzo lo stile è Daido Moriyama con i suoi scatti iper contrastati, sfocati, graffiati e provocatori.

Una corrente fotografica che mi affascina è la Fotografia Transfigurativa portata avanti da Carlo Riggi, una fotografia molto poetica a forte connotazione onirica che va oltre il visibile per dare spazio a realtà interiori trasportandoci nella dimensione del sogno.






Post-produci le tue fotografie? Se sì, che tipo di utilizzo ne fai?


Ritengo la post produzione una fase importantissima per il risultato finale della foto.

Come per l’analogico esiste la camera oscura, per il digitale c’è la camera chiara. Io uso Photoshop in modo molto basico, converto i miei scatti in bianco e nero e regolo ombre e contrasto per far risaltare qualcosa piuttosto che un’altra a seconda dello stato d’animo prevalente dando una certa coerenza visiva.

Io scatto prevalentemente in bianco e nero, tutte le foto del progetto sono invece a colori.

In quel periodo buio della mia vita, avevo bisogno del colore, un colore attenuato ottenuto desaturando leggermente e inserendo delle graffiature rappresentative della confusione cerebrale che non mi abbandonava mai e che ancora adesso mi tormenta di frequente.





Il tuo progetto Reviviscenza è nato in un momento molto delicato della tua vita. Spiegaci quali sono state le motivazioni che ti hanno portato ad avviarlo…


Nasce nella mia testa, quasi subito dopo l’evento. Era un modo di aggrapparmi alla speranza di poter fotografare ancora, di continuare a coltivare questa passione che amo. Guardavo la mano destra immobile con un misto di odio e amore pregando che desse un segnale di risveglio. Non successe mai, ma non mi arresi e dopo sei mesi circa riuscii a fare il mio primo autoscatto decente. Una gran fatica e una gioia immensa.








In che modalità lo hai sviluppato e portato avanti?


Tutte le foto del progetto sono fatte con la macchina sul cavalletto e telecomando, dopo aver regolato manualmente i parametri.

L’aspetto più complicato è stato quello di riuscire a stare in piedi a lungo e usare la sola mano sinistra.

Il limite che però trovo più invalidante ancora oggi, è di non poter fotografare tutte le foto che vedo con gli occhi a causa della mia lentezza nel dover scattare con solo una mano.

Fuori casa uso una piccola e leggera macchina compatta che uso in modalità manuale.

















In questo progetto l’impiego del proprio corpo è diventato per te oggetto di studio e autoriflessione. Quali sono stati i momenti e le esperienze più emozionanti che hai vissuto nel realizzarlo?


L’ arte in generale e quindi anche la fotografia, ha la capacità di curare l’anima, mettiamo noi stessi nelle foto anche quando fotografiamo un paesaggio, o facciamo un ritratto.

Con l’autoritratto si rivolge la macchina verso se stessi e questo è una maniera straordinaria di indagare i propri sentimenti ed emozioni. Per me è stato anche il modo di vedermi fisicamente, la foto restituisce un’immagine più vera dello specchio, è come ti vedono gli altri. Mi sono potuta vedere come se fossi spettatrice di me stessa ed è stato molto emozionante.

Certamente ero molto cambiata nell’aspetto fisico, ma ero comunque sempre io.

Quando mi guardavo allo specchio non mi riconoscevo, l’occhio cadeva sempre sulla mia parte disabile, nelle foto invece c’ero io nella mia interezza e questa è stata l’emozione più forte che mi ha spinto a continuare.






Quale è, secondo te, lo stato d’animo maggiormente evidenziato in questa tua serie fotografica?


Malinconia, confusione, smarrimento, inquietudine.

Queste sono le sensazioni che provo quando fotografo e che spero di trasmettere a chi guarda.

Cerco un punto di equilibrio tra bellezza e dolore: due forze dirompenti che, nella mia vita, si sfiorano di continuo. Nelle nostre vite c’è sempre una quota di sofferenza e dentro il mio sguardo fotografico non c’è profonda bellezza senza un piccolo dolore. 














C’è un filone comunicativo comune a tutta la sequenza di questi tuoi scatti?


La sequenza degli scatti segue un percorso preciso, che comincia con lo stupore e lo sbigottimento di quando mi chiedevo il perché per poi, attraverso le varie tappe, testimoniare la paura, la depressione e infine la rabbia che mi ha fatto reagire.





C’è una fotografia in particolare nella quale trovi maggiore sublimazione?


In questa immagine c’è l’incontro con la nuova me, è quella che apre al nuovo mondo e mi tranquillizza, mi trasmette un senso di pace e serenità. Da una parte la richiesta di aiuto e conforto, dall’altra la mano che accarezza mostra affetto e accettazione.





La figura femminile e la visione onirica sono due componenti molto presenti nelle tue opere. Quale rapporto intercorre fra questi due mondi?


Non so se sia una scelta consapevole, ma trovo che ci sia un lato della femminilità fortemente legata all’inconscio, al mistero, alla sensualità e al desiderio, aspetto che non riscontro in altrettanta misura nella figura maschile.





Per il prossimo futuro hai progetti o collaborazioni interessanti da evidenziare?


Per il futuro non ho veri e propri progetti, ma solo delle idee che ancora devono prendere forma concreta.

Mi piacerebbe portare avanti un progettino di fotografia sperimentale al quale penso da un pò.








Contatti dell’artista 

Email monica.cossu1@tiscali.it

Facebook Monica Cossu

Instagram monicacossu
















Biografia

Sono nata nel 1964 a Cagliari dove vivo tuttora.

Il primo approccio con il mondo della fotografia è stato nella camera oscura di mio padre, dove passavo i pomeriggi ad osservare, incantata, la magia dell’apparizione delle immagini.

Sono sempre stata attratta dal lato oscuro della natura umana, il lato che si tende a nascondere, quello dove portiamo le cicatrici più profonde.

All’inizio fotografavo prevalentemente in bianco e nero, trovando che il nero profondo e le sfumature dei grigi rappresentassero al meglio la mia naturale inclinazione alla malinconia.

Con l’arrivo del digitale e la nascita dei miei figli abbandonai la fotografia per un lungo periodo di tempo. Nel 2012 decisi di riprendere orientandomi prevalentemente alla fotografia concettuale, trovando un modo semplice e diretto di

raccontarmi. Tre anni dopo la mia vita venne sconvolta da un grave ictus emorragico che mi costrinse ad abbandonare di nuovo. Credevo che non avrei mai più potuto fotografare. Ma c’era un’urgenza che mi tormentava, avevo necessità di vedermi attraverso l’obiettivo per riconoscermi e accettare la mia disabilità. Il mio modo di fotografare cambia, sia dal lato pratico, per via dei danni fisici e delle conseguenti limitazioni nei movimenti, sia nella forma e nei contenuti, avvicinandomi anche al colore. In questo momento nasce quello che diventerà il mio progetto, il racconto dei miei stati d’animo durante i primi anni della mia “nuova vita”. Muovendomi perennemente in bilico tra ordine e caos, cerco di trasmettere ciò che sento: sensazioni ed emozioni, a volte anche contrastanti ma che sono l’una figlia dell’altra.

Nel 2018 ho esposto il progetto “Reviviscenza” al Centro Culturale di Arte Il Lazzaretto a Cagliari. Dal 2019 al 2021 ho partecipato a diverse mostre collettive.

Nel 2022 ho esposto all’Atelier Alchimia Arte di Dortmund nella collettiva “Letterature Urbane &Co”.

































 




©L’ArteCheMiPiace - Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 










































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