L'OBIETTIVO DI DIO a cura di Giuseppe Cicozzetti

 L’ArteCheMiPiace - Divagazioni sull’arte 

©Frank Horvat 




L'OBIETTIVO DI DIO






di Giuseppe Cicozzetti   |28|Marzo|2023|





Il più grande ritratto mai fatto al ventesimo secolo è opera dei fotografi, molto spesso ebrei. Già in questa affermazione si anniderebbe un paradosso o, quantomeno, il superamento del divieto indicato nel Decalogo (“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra”), che per millenni ha impedito al popolo eletto di cimentarsi con le esperienze artistiche. 

Nei secoli, il contributo degli ebrei alla formazione della cultura occidentale è stato fondamentale. Nello sviluppo del pensiero, nella letteratura, nella musica l’apporto dell’identità ebraica ha attraversato la cultura come un fiume inarrestabile, ma per vederli protagonisti anche nel campo delle arti figurative abbiamo atteso fino al Novecento. 

Dopo è cambiato tutto. Se da un lato, una dinamica interna alla Diaspora legata alle condizioni di restrizione soffiava perché la prospettiva identitaria cambiasse nella direzione di una maggiore libertà, dall’altro il mondo dei Gentili macinava opportunità da cogliere. 

Due, in particolare: le invenzioni della fotografia e del cinema (che della fotografia è figlia legittima). Un vuoto che andava colmato sulla spinta della laicizzazione dell’identità dei giovani ebrei, ormai disposti ad affrancarsi da una tradizione oppressiva. 

Le giovani arti esercitavano sui giovani ebrei una forte attrazione. Ha scritto Arthur Hertzberg in “Gli ebrei in America” che «una massa di diseredati in fuga dal Vecchio Continente e desiderosi di lasciarsi alle spalle secoli di divieti, precetti e imposizioni, trovò nella nascente industria dello spettacolo e nella meravigliosa macchina del cinema una grandiosa opportunità di riscatto. 

L’America offriva questo agli immigrati ebrei in fuga dall’Europa, il riscatto e la possibilità di acquistare qui e ora una nuova identità». 


©Lewis Hine 


Ora, prima di addentrarci nello specifico, occorre fare una piccola e doverosa premessa. 

Redigere un elenco di fotografi ebrei rischia, anche involontariamente, di somigliare a una lista di proscrizione; e noi sappiamo il pericolo che rappresenta un elenco di nominativi o, se vogliamo, l’uso che qualche malcapitato potrebbe farne. 

Ma una “lista” di fotografi ebrei, raggruppati in virtù della comune appartenenza etnoreligiosa sicuramente dice molte più cose rispetto a una lista ordinata per nazionalità. 

Sgomberato il campo da equivoci antipatici, si può affermare ancora una volta che la storia degli ebrei, in questo caso fotografi, incrocia fatalmente la nostra e noi, ancora una volta ci sorprendiamo dell’elevata percentuale di genialità espressa da una minoranza. 




©Philippe Halsman 

Ora una domanda: esiste una fotografia ebraica, così, per dire, come esiste un umorismo ebraico, una letteratura ebraica che possa imporsi come peculiarità specifica di un gruppo che si riconosce all’interno di valori condivisi? 

La domanda, seppure pertinente, mostra una debolezza che va individuata nella vocazione delle prime due espressioni (umorismo e letteratura) all’introspezione di un sé collettivo, a raccontare sé stessi cioè prima ancora che altri. 

La fotografia ha dissolto questo legame rifiutandolo per dedicarsi alla rappresentazione di un mondo condiviso. “L’obiettivo di Dio” dunque abbandona subito la tentazione di “fotografarsi l’ombelico” per puntare la sua lente verso ogni episodio delle attività umane. 

In questo senso la libertà offerta dal mezzo tecnico, per ogni fotografo ebreo ha coinciso con la consapevolezza di sentirsi libero. E la raggiunta libertà coincide con la libertà di fondare nuovi linguaggi, nuovi stili. 



©Herbert List


Per tornare, quindi, alla domanda cruciale, quella che ci interroga se “l’obiettivo di Dio” parla una lingua univoca, tenuta insieme dalla comune radice culturale dei fotografi, la risposta sembrerebbe essere negativa. 

E lo è proprio in ragione della difesa di una conquistata autonomia identitaria. 


Arnold Newman, Chim, Joel Peter Witkins, Annie Leibovitz, Philippe Halsmann, William Klein, Richard Avedon, Diane Arbus, Lee Friedlander, Erwin Blumenfeld, Jan Saudek, Harold Feinstein, Danny Lyon, Lewis Hine, Art Kane Joel Meyerowitz, Izis, Willy Ronis, Robert Capa, Robert Frank, Alfred Eisenstadt, Weegee, Roman Vishniac, Gerda Taro, Eve Arnold, Herbert List, Elliott Erwitt, Saul Leiter, Frank Horvat, Martin Munkácsi, André Kertész, Nan Goldin, Man Ray, Jeanloup Sieff, Claude Cahun, Lisette Model, Phil Stern, Leonard Freed, Paul Strand, Garri Winogrand, Bruce Davidson, Michael Ackerman, Sarah Moon, Ghitta Carell, Alfred Stieglitz, Brassaï, László Moholy-Nagy – e la lista potrebbe ancora continuare fino a coprire molte pagine. 


Citarli è come fare un viaggio attraverso la storia della fotografia in cui si dissolvono le coordinate spazio-temporali, saltando sugli stili, sulle funzioni e sulle estetiche di un linguaggio plurale e libero come i suoi autori. 

I fotografi ebrei hanno fatto grande la storia della fotografia, vi hanno fatto irruzione e hanno rimodulato la sua natura. In Europa come in America, raggiunta da molti a metà del secolo scorso per sfuggire alla persecuzione nazista.



©Alfred Blumenfeld


Il loro impegno è universale come universale è il linguaggio delle fotografie, uno spazio senza confini nel quale ogni espressione ha legittima residenza, e dove “l’obiettivo di Dio” controlla che ancora si racconti la grande vicenda umana.


©Alfred Stieglitz 



Il secondo dei Comandamenti è dunque superato: i fotografi ebrei – la stragrande maggioranza appartiene a un ebraismo riformato che ha discusso e superato molti precetti, mentre altri a malapena sanno d’esserlo – lo hanno sepolto sotto una messe di fotografie memorabili. 

E Dio, da lassù, non ha più paura di vedere rappresentata l’immagine della creatura fatta a sua immagine e somiglianza. 





















Giuseppe Cicozzetti, critico fotografico, curatore. Scrive per riviste specializzate quali Foto.it, Artapp, Gente di Fotografia. 

Ha collaborato con numerosi fotografi italiani e internazionali scrivendo prefazioni alle rispettive pubblicazioni. 

Dal 2015 Collabora con l’Associazione Mediterraneum per l’allestimento delle edizioni del MedPhotoFest, di cui cura il catalogo annuale. 

Dal 2018 è membro della Fototeca Siracusana con cui partecipa alla cura dell’Estate Fotografica Siracusana, curando mostre e scrivendo i testi per il catalogo.

Su Facebook gestisce Scriptphotography, una seguitissima pagina di divulgazione e cultura fotografica. 

Vive a Modica.  







































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