Un'intervista esclusiva con Andrea Barretta sull'Arte e la Cultura Contemporanea

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Un'intervista esclusiva con 

Andrea Barretta 

sull'Arte e la Cultura Contemporanea






di Giuseppina Irene Groccia |19|Aprile|2024|



Con una carriera eccezionale che abbraccia il giornalismo, la scrittura, la curatela e la critica d’arte, Andrea Barretta non necessita di presentazioni. 

Il suo percorso ammirevole è segnato da grandi collaborazioni, successi e gratificazioni, rendendolo una figura di spicco nel circuito dell’arte.

Con il suo studio a Brescia, si è guadagnato una reputazione di paladino dell’arte e della cultura, impegnandosi instancabilmente nella difesa della bellezza e nell’esplorazione dei percorsi creativi della comunicazione. 

La sua vasta conoscenza e la profonda comprensione dei diversi ambiti disciplinari si fondono in una trama intricata di saperi, conformato dall’uso critico che ne fa in ogni sua esperienza concreta. Autore di saggi accattivanti e stimolanti, Barretta si distingue per la qualità argomentativa e la capacità di condividere un’etica comune attraverso la sua scrittura. Le sue numerose conferenze sono sempre seguite con interesse, testimoniando il suo ruolo centrale nel dialogo culturale contemporaneo. 

Come curatore ha firmato numerose mostre di artisti contemporanei e di arte moderna, portando avanti una visione  progressista e innovativa che ha attirato l’attenzione del Metropolitan Museum di New York. Il suo impegno nel campo della critica d’arte si traduce anche nella cura e nella realizzazione di cataloghi d’arte arricchiti dai suoi testi critici illuminanti. 

Il riconoscimento internazionale del suo lavoro è stato sottolineato dalla sua accoglienza privata da parte di Giovanni Paolo II e dall’inclusione nel Comitato critico del prestigioso “Catalogo dell’Arte Moderna” dell’Editoriale Giorgio Mondadori. Il suo contributo al mondo dell’arte e della cultura è stato ulteriormente onorato con l’assegnazione dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, testimonianza del suo straordinario impegno e della sua influenza nel campo della cultura contemporanea.










Andrea Barretta




Nell’intervista a seguire avremo l’opportunità di immergerci nel pensiero di Andrea Barretta e di scoprire i dettagli affascinanti della sua eccezionale carriera professionale.






Quando è stato il momento in cui ha iniziato il suo viaggio nell’ambiente artistico?


Non c’è un momento preciso ma fin da giovane l’apprezzare il piacere della bellezza che ci circonda e l’amore di mio padre per l’arte sempre presente in casa per gli artisti che frequentava. Poi nella mia prima carriera professionale, quella di giornalista, mi sono sempre occupato di cultura e recensioni sia letterarie che d’arte e ben presto ad essere editorialista. Da lì il passaggio ad essere scrittore e critico d’arte è stato consequenziale.



C’è stato un momento o episodio grazie al quale ha capito di volersi dedicare a questa professione? 


Dal mio ingresso nella redazione di un settimanale nel 1977 che mi ha consentito di dare stura al mio desiderio di scrivere ma anche di organizzare, promuovere eventi e il mio primissimo amore letterario che è stata la poesia. Poi la conferma con la mia direzione di altri giornali.





Qual è stato il processo attraverso il quale ha trasformato il suo stile di scrittura dall’ambiente giornalistico al mondo dell’arte? Come si differenzia la scrittura in questi due contesti?


Non c’è stata e non c’è una trasformazione. Il giornalismo rende chiara ogni esposizione linguistica e questo è un bene per la critica d’arte che se ne avvantaggia con testi chiari sull’arte e gli artisti, non con un linguaggio critichese spesso autoreferenziale che troviamo purtroppo oggi in tanti ambiti. Allorquando la cultura e l’arte non sono più motivo di aggregazione ma di disgregazione nel non dare significato e ruolo a competenze che evidenzino il rispetto del principio di credibilità. In tal guisa, dopo anni d’arte di grande fermento, il mito multidisciplinare dell’autodefinizione termina il suo percorso e provoca l’allontanamento dal criterio della bellezza e, negli anni successivi, ne ha sancito la decadenza. Sono stati messi in subordine i temi iconografici, gli elementi di conoscenza, a originare un’arte speculativa che sta dando luogo a una sorta di gioco spregiudicato, in cui è abolita ogni residua distinzione, in un’epoca già definita altermoderna, ossia il desiderio di agire in modo alternativo, successiva al postmoderno e prima ancora al modernismo. Siamo nella “bellezza d’indifferenza” duchampiana già in atto nel 1912 e che si caratterizza in un’assenza di qualità e particolarità connotative in una assenza estetica, dissociando l’idea di arte dalla bellezza, in quella smaterializzazione che oggi ancora viviamo nello sconfinamento in ormai finti readymade.



C’è un momento, un’opera, una collaborazione o una figura che hanno particolarmente influenzato il suo percorso come curatore e critico d’arte che risiede nei suoi ricordi?


Sono vari. Soprattutto la coscienza di un linguaggio artistico per intuire la crisi in atto, che è anche semantica, soprattutto quando certa arte abdica nel dimenticare sé stessa. Eppure non è un archetipo, perché l’artista è il divenire con il mutare dei contesti sociali, siano essi riferibili alla collettività sia all’attualità. Tuttavia quando l’arte è impregnata di stereotipi in parole prive di lucidità e intransigenza, verbali e scritte, tra composizione discorsiva e funzione formale, tra lettura e godimento dell’opera, perde la sua capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Che si esprime ma non si rivela. Poi c’è l’altra arte, quella che è letta in tutte le lingue del modo senza essere poliglotti, che conserva nel tempo qualcosa da dire, qualcosa da cui ripartire per ritrovare quella direzione che abbiamo smarrito, senza prendere sul serio quanto è solo intrattenimento, gioco, diversione.





Quali sono stati i libri o gli autori che hanno influenzato e contribuito a formare il suo pensiero critico e curatoriale?


Mi piace l’approccio filosofico all’arte, dell’osservare e del guardare per vedere. Interessanti autori come: Kant, Bauman, Baudrillard, Clair, Baudelaire, Dorfles, Goodmann, Longhi, Danto. E anch’io cerco di dare indicazioni per formare un’opinione, per aprire un dibattito, ma si evince anche un mio convincimento, una constatazione più che altro, cioè rimandare al mittente le opere di coloro che stenografano idee altrui, né rinnovatori né pionieri ma epigoni, in un fare che attinge alle avanguardie storiche e che dunque non ha niente da dire di nuovo, in una contestualità che sembra dirci che tutto può diventare arte. E noi siamo parte di quel che accade se non riusciamo a metabolizzare un cambio di mentalità. Se non ci diamo una scossa, saremo tutti untori nel preferire la tranquillità del non vedo, non sento, non parlo … nel lasciare che l’arte sia tutt’altra cosa, non il riconoscerla per quello che è ma in mercanzie, in acquisti nei luoghi simbolo del consumismo, dove alcuni artisti giunti sul mercato internazionale predicano bene ma razzolano male in sermoni social popolari contro tutto e il contrario di tutto, mentre le loro opere non hanno certo prezzi abbordabili. Non ribelli ma proletari nel lusso, nell’ipocrisia di proclamarsi fustigatori degli squilibri sociali, coperti nel far pensare che è inevitabile e normale, perfino accettabile la loro pseudo arte. Artisti concettuali sul mercato internazionale tra milioni di dollari o euro, mentre ci sono tanti altri bravissimi artisti che non riescono a emergere, e io sto con questi.





Secondo lei, quali sono gli elementi che rendono questo lavoro particolarmente gratificante?


Per me nello svelare la mistificazione che argomenta la smitizzazione dell’arte. Joice esortava a “cercare adagio, umilmente, … di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere” e sosteneva che “questo è l’arte”. È l’arte che “ha bisogno o di solitudine o di miseria, o di passione”, come “un fiore di roccia che richiede il vento aspro e il terreno rude”, precisava Dumas padre, ed è questo il bello di prim’ordine. Cerchiamo, insomma, di far sì che nessuno ci dica cos’è l’arte, e a cosa serve, perché lo sappiamo già: è quella che risiede dentro di noi. È questo discernere che dovrebbe dare l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti al vero capolavoro, alla vera opera d’arte che è, diceva Hegel, “essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”.



Qual è stata la sua più recente iniziativa curatoriale e quali sono i progetti su cui sta attualmente lavorando?


La più recente la mostra “Pop Art: da Warhol agli italiani”, conclusa in aprile, alla Galleria Fucsia di Brescia. La cultura artistica d’oltre oceano fino a una mia selezione di artisti italiani, da Warhol a Rauschenberg e Keith Haring, a confronto tra le diverse anime della pop art italiana, da Enrico Baj e Mimmo Rotella a Tano Festa, Franco Angeli, Mario Schifano e Lucio Del Pezzo. E Piero Manzoni, Ugo Nespolo, Marco Lodola e Concetto Pozzati.



Come bilancia la sua autonomia creativa con le aspettative della galleria o dell’istituzione che le commissiona una mostra?


Nell’essere indipendente. L’arte contemporanea è intervenuta con una rivoluzione che ha liberato nuove potenzialità ma ha mancato di aprirsi al largo pubblico divenendo preda di un’arte abusata. Un paradosso che va superato con artisti nella creatività espressa che superi un panorama artistico dove ci sono più attori che spettatori. Occorrono nuovi “incontri”, perché l’esperienza conoscitiva oggi si esercita soprattutto in un percorso sinergico in rapporto con il mercato, la produttività e le dovute verifiche storiche e critiche, oltre che sui modi di significare i metodi di lettura dell’arte rispetto a un approccio contemporaneo. Cercando di alimentare l’emozionarsi in un rapporto umano con gli artisti, che sono il vero collante e il motore insieme alle gallerie d’arte che permette di poter seguire e apprezzare il mondo dell’arte nel suo continuo movimento.





Qual è stata la mostra d’arte più stimolante che ha curato finora e perché?


Quelle che ho presentato in diverse città e quella che ho curato alla Galleria ab/arte di Brescia che ho diretto per diversi anni, tra cui: Andy Warhol e Marilyn, l’arte e la visione di un’icona; Fotografie dal set nella storia del cinema della Metro Goldwyn Mayer; La via pulchritudinis, dal Cinquecento ai maestri dell’arte moderna; Dadavanguardie da neo a post; Emblema e i protagonisti dell’informale italiano; Baj e Guttuso, la fantasia e la realtà; L’inquietudine nell’espressionismo italiano; Il colore e la forma nell’arte del XX secolo; Mimmo Rotella, il décollage e il cinema; Le donne di Guttuso e le altre; Nud’arte, in un dibattito tra estetica e cultura; Novella Parigini e gli artisti della Dolce Vita. E molte altre di artisti contemporanei che sarebbe troppo lungo elencare qui ma che si possono leggere nel mio sito ufficiale su internet.



Qual è il suo approccio alla selezione degli artisti da includere nelle sue mostre?


Lei cita una parola molto importante: “selezione”, che è il mio modo di fare serio e professionale sia per le mostre personali sia per le collettive, soprattutto queste ultime dove la partecipazione è lasciata spesso al caso: tutti senza un invito personalizzato e tutti in un calderone con opere che non dialogano tra loro. Non è il mio modo di fare. Intendo sempre selezionare artisti validi e opere valide nel costituire mostre che abbiano come punto focale l’armonia, alla base della bellezza. In tutte le grandi mostre di arte moderna che ho curato ho scelto sempre in prima persona le opere da esporre, e così anche per quelle contemporanee in una visione d’insieme che gli artisti non possono avere, fermo restando che questi stessi artisti vanno sostenuti ma non per forza assecondati. Un progetto curatoriale implica molti fattori spesso complessi per tipo di opere, soggetti, formati, tecniche, e questo nel mio essere anche critico d’arte porta a scelte oggettive e mai soggettive. 





Tra gli artisti contemporanei che ha avuto l’opportunità d’incontrare personalmente, quali ritiene siano stati cruciali per l’avvio della sua carriera professionale? E quali sono stati i motivi di questa influenza?


Sono talmente tantissimi che è impossibile citarne solo qualcuno. Tutti hanno avuto con me un rapporto di dare e avere, fin quando c’è l’umiltà di ascoltare. Motivo comune per molti, nella loro bravura, è percepirne incertezze al cospetto dell’estetica e nell’interrogarsi su cosa facciamo, cosa è cambiato, cosa sta accadendo. Intorno si parla soltanto di artisti famosi che propongono cose orrende e loro cadono in un dato ineludibile: siamo in uno stato di svilimento; rassegnati e privi dell’energia necessaria per combattere l’incuria e incamminarci verso la bellezza che invita a prodigarsi affinché non significhi disinteresse. Non c’è sviluppo ma cedimento. C’è lo stordimento che s’inquadra nelle incongruenze di composizioni appartenenti alla coreografia, nell’affettazione salottiera di un accesso mediato dalla parola e senza sarebbero ben poca cosa. Sta a noi, e io sto con questi artisti che ho incontrato anche andando nei loro studi. Perché là dove si palesa un tutto è compiuto, tutto può cominciare, se guardiamo a qualcosa di nuovo con rispetto e attenzione … ed è questo che dico loro. Avanti … anche se altri spacciano caricature per arte, e si continua in sibillini commenti entro cui valutare un’opera di là da puerili trovate. Accerchiati da un’arte dalla critica ossequiosa già stanca prima di un tempo supplementare, defunta già prima di nascere ma tenuta in essere solo da esaltazioni cui dobbiamo imparare a distrarcene. Quindi il motivo di una influenza non è tanto per me ma per questi artisti cui cerco di dare il coraggio di continuare.



Quali sono i criteri che utilizza per valutare il successo di una mostra d’arte che ha curato?


Non quello di esposizioni che attirano pubblico come per una sagra, dimenticando che una mostra non si valuta in base al numero di visitatori ma sul risultato di aver insegnato qualcosa. Nelle mostre che ho curato ho sempre incluso un percorso per collettive o personali, un dialogo con il pubblico e cataloghi a corredo. Il successo poi è sempre arrivato con un gradimento dato dal vedere un pubblico attento e non nel porsi in una toccata e fuga, in una veloce visita, ma nel restare assorti davanti ad ogni opera cui io pongo a lato un breve testo critico, e la sorpresa è stata che moltissimi leggono con attenzione tutto fino ad avere alla fine il senso di quella partecipazione al percorso, prima citato, che io ho apparecchiato per loro. E uscire dalla mostra soddisfatti. Poi spesso resto presente per rispondere a domande e a chiacchierare per un’accoglienza che gratifica.





Come vede l’evoluzione del ruolo del curatore d’arte nell’era digitale?


Altre ragioni di fare arte. E siamo già oltre il digitale con gli NFT e l’intelligenza artificiale, ossia la disumanizzazione. Se al possibile allontanarsi dall’arte si aggiunge la rinuncia all’estetica e si va in una disneyficazione che vediamo in tante mostre che mirano alla sorpresa più che al merito, accompagnate da altre ragioni di fare critica fino alla polemica su come debba essere: descrittiva, interpretativa o creativa? Fino a dove i testi favoleggiano una storia mentre le opere ne narrano un’altra e non sempre dettata almeno dal buongusto. Come novelli sofisti nella soggettività del sapere identificando nella convenienza pratica il solo criterio della verità di un’affermazione, e a tale scopo valorizzando al massimo la retorica considerata come efficace mezzo di convinzione e persuasione. Il Novecento ha svelato tutti i suoi segreti, nell’arte, nella letteratura e nella storia dell’umanità anche nella sua catastrofe in avvenimenti strazianti, ma l’arte contemporanea non rivela ancora una composizione plausibile se guardiamo alle artistar, sicura, tanto da entrare in una storicizzazione, o almeno a poterla introdurre, perché non ha più correnti, movimenti o manifesti come per l’arte moderna, perché non ha nulla di diverso da dire senza ormai canoni di riferimento. C’è tutto e il più di tutto, c’è il dubbio. E in questa surreale incertezza attiviamo il cambiamento ad ogni costo e riportiamo alle mode tutto l’insieme di un accontentarsi fatto d’indeterminatezze che vanno a sostituire l’arte stessa che sconta una condizione esistenziale.





Quali strategie ritiene efficaci per democratizzare l’arte contemporanea e renderla accessibile a una vasta gamma di pubblici, inclusi quelli più diversificati?


La democratizzazione va bene ma nell’attuale depressione economica la proletarizzazione dei consumatori va per altre strade; infatti, per i costi esorbitanti l’arte è percepita come un bene d’élite e in un mercato del lusso come merce di investimento. E per di più l’arte nella sua associazione al mondo del denaro o del business spegne la creatività. Dalla fine del Novecento predomina un anti-intellettualismo che avvera una “anti arte” dedita al mercato, tra giustapposizioni enigmatiche e semplicistiche posizioni a creare il caos. È il tema di un mio prossimo libro. Come in un normale andare e ritornare a enunciazioni e prese di posizione, a volgere lo sguardo a una forma espressiva di un’arte sorretta dalla parola che non fa altro che andare verso il brutto e l’inutile, in una sorta di superamento evolutivo che non è. E il pubblico ne è disorientato. Così la mancanza di voci ufficiali e coerenti - oltre una prospettiva decentralizzata dal potere mediatico - che non favorisce il crescente interesse per più forme oggettuali fa sì che, di fatto, mischiando archetipi e simbologie da decifrare, non produce progresso ma un cavallo di Troia. Artisti - quelli che la parola trasforma in icone dell’arte - che sono arrivati in gallerie, musei e istituzioni portati da mercanti d’arte, direttori e politici per minare all’interno la bellezza; giunti dentro le mura che per secoli ne avevano conservato l’identità, e di notte - perché il silenzio degli intellettuali è assordante - hanno portato la distruzione dell’arte giacché il tacere non scrive la storia. Tanto che la nuova narrazione all’inizio del Duemila subisce inevitabilmente esempi sterili d’inventiva che odorano di stantio, proiettando l’arte nello spazio di modalità eterogenee con atteggiamenti strambi nel sovvertire un repertorio di apparenze inteso come libertà di escogitare piuttosto che di concepire nella commistione di linguaggi fra arte scenografica e arte visiva nell’impostura dell’obiettività, con l’effetto di escludere bravi artisti dalla casta e da un mercato arrogante che ha ritmi perversi. Allora non c’è strategia che tenga ma continuo a scrivere per chi ha la curiosità di conoscere l’attuale mondo dell’arte, e per quegli addetti ai lavori che bocciano i compromessi e continuano in un mestiere risoluto nell’essere indipendenti, e soprattutto affinché il bello non sia una capacità dimenticata. O più semplicemente per chi ammira l’arte e l’ama, come verifica del suo vero tessuto per uditori entusiasti.





Come bilancia il suo ruolo di critico con la scrittura di libri sull’arte, e in che modo queste due attività s’influenzano reciprocamente nel suo lavoro?


Entrambe le attività non stanno in una influenza ma in un rapporto di vasi comunicanti che sta nella narrazione dell’arte e del sociale, per comprendere il regresso del presente. Direzioni molteplici percorse in una dimensione dell’essere che abbia la volontà di edificare un’alternativa, senza pregiudizi, e cercarne le cause che edifichino un principio per intuire la struttura di un fenomeno. C’è, infatti, ed è sotto gli occhi di tutti, la pratica artistica contemporanea senza alcun controllo apparente nel preferire un’immagine già articolata invece di produrne una originale, perché già codificata nella storia visiva e quindi più direttamente e facilmente fruibile, insieme alla seduzione spettacolare anacronistica nel rivolgervi sempre lo sguardo restandone ostaggi. Icone prese dall’arte che ripresentano pari o in modo altro, tralasciando il rilievo di quell’opera che sta nel momento del compimento temporale. E quello che all’inizio era un intrattenimento colto e per gli artisti un veicolo per testimoniare sembianze stilisticamente vicine, rischia di diventare ladrocinio privo di consistenza e disgregamento. Fino a poter dire con Tagore: “Qualcuno rovesciò il calamaio sulla tela. Ora si vanta: ho dipinto la notte”. Non è facile dibatterne ma per farlo bisogna mollare l’ostinazione e convincersi che non porta da nessuna parte, quando il nuovo che avanza è lo svuotamento delle nostre emozioni che si vorrebbe riempire con suggestioni, mentre la citazione avanza nei corsi e ricorsi della storia che spesso è stata travolta e stravolta dallo scontro con il copiare, e nel peggio che è la “rivisitazione”, altra parola che usano molti per non dire che siamo davanti a un qualcosa di già fatto in tristi appropriazioni.



In che modo la sua scrittura contribuisce alla sua missione di promuovere l’arte e la cultura?


Nei miei libri di saggistica cerco di riflettere su come sono cambiati i linguaggi dell’arte contemporanea, il rapporto di reciprocità con il pubblico e il ruolo dell’artista. Infatti, un passo va da sé sta proprio in quell’arte e in quegli artisti che oggi ci pongono continuamente di fronte a una scelta: arte e non arte, tra oggetti dubbi e oscuri. All’inizio di questo nuovo secolo i legami tra gli individui tendono a dissiparsi e a disgregarsi, e richiama un ruolo della cultura per superare l’isolamento dell’arte che tende a rimuovere piuttosto che affrontare un’estetica insoddisfacente e frammentaria che non vuol essere plurale. E l’aspetto che più di ogni altro esemplifica questa vita nella quale sembra non ci siano punti fermi, sta proprio nel miscelare il tutto nel contenitore di una galleria, in un museo, in luoghi istituzionali, sulle pagine dei giornali e, che noi vogliamo o no, ne subiamo la mescolanza degli stili che confluivano a comporre i canoni di un’arte eterna e immortale, mentre l’oggi è precario e di breve durata, come il lampo di una installazione che generalmente si attraversa o di una performance che crea relazione. Per questo mi rivolgo a chi ha la curiosità di conoscere l’attuale mondo dell’arte, e a quegli addetti ai lavori che bocciano i compromessi e continuano in un mestiere risoluto nell’essere indipendenti, e soprattutto affinché il bello non sia una capacità dimenticata.





Esiste un argomento o un tema su cui desidererebbe essere intervistato e che non le è stato ancora chiesto?


Discutere di un tema legato all’arte sacra e in molti casi alla sua dissacrazione con cose brutte e blasfeme - di cui nessuno parla - elaborate da alcuni artisti contemporanei che pensano di provocare ma sono soltanto pusillanimi giacché rivolgono la loro inutile attenzione solo a offendere i cattolici e non altri da cui avrebbero ben altra risposta che non l’indifferenza. Fermo restando che nessun credo va offeso.



Qual è il contributo che ritiene di aver apportato al panorama dell’arte contemporanea attraverso il suo lavoro di curatore e critico?


Con la qualità di mostre ben organizzate con opere di artisti ben rappresentati. Poi, prestare una maggiore attenzione in termini non di frenetici incontri salottieri in luoghi che hanno abbandonato il parametro di storicità dato che molti di questi sono ormai custodi di eventi in affitto e di carnevalate, tra esposizioni che non dimostrano niente. Tra colossali bufale: narrazioni visive in cui si manifesta non la straordinarietà dell’arte ma ciò che non è e che sconcerta, attraverso una sorta di processo di alienazione che porta alla prigione della mente e a non sapere più creare in questo stato di cose enormemente volubile, dove disobbedire è una chimera. E questo lo faccio con i miei libri. Dove spiego gli scivoloni nell’ambiguità di un eterno presente concettuale, mettendo in connessione frammenti originali e parti riviste, come per un artificioso antiquariato nell’assemblare parti diverse di mobili. Per questo in un clima come quello attuale diventa necessario ritrovare i passi utili a risvegliare il mondo dell’arte che ha assorbito prestazioni ondivaghe in un fare che vive dell’apparenza quando c’imbattiamo in dislivelli come consumo simbolico, in sfide che richiedono agganci con la parola da metabolizzare.










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