Sogni non visti ma visibili - Nella Tarantino

 L’ArteCheMiPiace - Interviste



Sogni non visti ma visibili

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Nella Tarantino



di Giuseppina Irene Groccia |18|Dicembre|2021|




Nello sguardo indagatore di Nella Tarantino troviamo forza e sensibilità insieme, due caratteristiche con le quali riesce a penetrare la dimensione interiore del mondo che la circonda, riuscendo a fermare quel momento assoluto e potente di un istante che ritroviamo puntualmente nei suoi scatti fotografici.


Affianca da sempre la sua sensibilità di architetto alla ricerca fotografica, dedicandosi alla lettura del paesaggio, della città, del suo spazio e dei suoi abitanti.

Sono immagini di luoghi e persone colte solitamente nella normalità dei propri rituali.


Il suo potenziale artistico è quello di evitare in generale l’artificio della messa in scena, preferendo invece un linguaggio fotografico che scruta, studia e fotografa 

la vita che scorre.


Le sue fotografie riprendono momenti di vita dove l’autrice sembra voler immaginare e comunicare molto sui pensieri e sugli usi dei suoi soggetti.

Sono spesso attimi furtivamente rubati, immagini filtrate attraverso una grande sensibilità.

Si tratta di una osservazione attenta e non di uno sguardo qualsiasi quello che lei rivolge verso tutto ciò che legge intorno a sé, quindi una visione profonda del particolare e del pensare.

Immagini che sanno parlarci di sogni non visti ma visibili, nel preciso momento in cui riusciamo a coglierne l’essenza attraverso i suoi fotogrammi.


Nella sa raccontare un mondo interiore, le sue sono immagini che appartengono ad un universo poetico che spesso allude all’emissione diretta del suo inconscio.


Sa mettere in evidenza una sua personale interpretazione della luce attraverso un sapiente utilizzo di ombre, di bianchi e di neri portando a concepire il proprio lavoro fotografico come un grande, appassionato progetto di ricerca espressiva.


Il risultato è una sottile magia che diviene strumento di scoperta, costituendo così un intercalare narrativo tutto suo.


Le opere di Nella Tarantino sono testimonianze di segni raccolti dai suoi occhi, dove il significato passa spesso dalla mera rappresentazione ad una elevazione fatta di introspezione ed autoanalisi, dove le angosce e le paure si sovrappongono e dialogano sul supporto fotografico da cui sembrano emergere. 


Scelta indiscutibile di Nella è quella di coinvolgere emotivamente l’osservatore che percepisce di essere di fronte a momenti sublimi, dove la fotografia diviene atto poetico allo stesso tempo materiale e spirituale, meditativo e seduttivo.


Nelle sue opere più recenti, Nella Tarantino si rivolge principalmente alla corrente della Fotografia Transfigurativa, evidenziando composizioni in grado di raccontare l’impercettibile e rendendoci partecipi della sua capacità di scrutare l’anima. 


Ci regala un senso di rivelazione, dove riuscire a guardare al mondo o alle cose attraverso altri occhi. 

Tutto questo fa di lei, non una semplice fotografa ma una moderna e valida autrice capace di rappresentare l’essenza stessa della grande avventura dello sguardo e del pensiero, quale è la fotografia.


Giuseppina Irene Groccia 






Conosciamola meglio attraverso questa interessante intervista 



▪️ Nella, raccontaci cosa ti ha spinto ad avvicinarti al mondo della fotografia.


Avevo 18 anni, quando mio padre mi regalò la mia prima macchina fotografica, una Olympus OM10.

Ero al 1° anno della Facoltà di Architettura ed era impossibile, per quel tipo di studi, non dotarsi di una fotocamera. La usavo come uno strumento di rilevamento e di conoscenza della città e dei suoi edifici.

Ma è solo da circa cinque anni che mi sono appassionata sinceramente alla fotografia. Non so dirti come sia accaduto, forse solo da un bisogno, o da un insieme di circostanze, o forse da una ragione più profonda. Sentivo che presto avrei lasciato il mio lavoro di architetto e forse per disperazione dovevo fare qualcos’altro.

Il mio imperativo interiore era così forte che, senza che io me ne accorgessi, mi stava spingendo a ribellarmi, a liberarmi di quel che io credevo di amare, e che, al contrario, gravava su di me con un senso crescente di pesantezza. In altri termini, a cercare di scoprire quel che io amavo davvero, a trasformare quel “dovere” in un senso di leggerezza. Finalmente ho sentito di aver trovato la mia strada. La Fotografia mi ha restituito quella libertà che il mio lavoro mi levava, sempre di più.

Ora, credo di poter dire: io sono una fotografa.




▪️ Sei un’autodidatta oppure hai seguito dei corsi o frequentato delle scuole?


Ho seguito diversi corsi di fotografia in questi anni. Prima ho dovuto imparare bene a conoscere la mia fotocamera, ho acquistato una piccola Canon APS-C, e poi, in seguito una full frame, e l’ho dotata di diversi obiettivi. Contemporaneamente ho seguito corsi di Photoshop, prima base e poi avanzati. Scatto in raw, lavoro e sviluppo in Camera Raw, e dopo con Photoshop. Una foto può darsi che la lavori in pochi passaggi, ma può accadere che dedichi molto più tempo alla post produzione, anche diversi giorni.

Reputo, per il digitale, assolutamente necessaria la conoscenza di Photoshop. In realtà lavorare con Photoshop, per me equivale quasi a lavorare con Autocad. 

Credo che si legga con evidenza dell’importanza che assegno alla tecnica, componente essenziale di tutti i processi artistici, e in particolare della fotografia. A risalire dall’antica secolare polemica dei detrattori dell’invenzione della fotografia in nome del primato della pittura, sino alla ancora ricorrente questione della “poesia dell’analogico” di contro alla “freddezza del digitale”.

Su tutto questo ha già fatto giustizia il pensiero definitivo di Walter Benjamin, che già nel 1931 stigmatizza “la rozzezza del concetto filisteo dell’arte, al quale è estranea qualsiasi considerazione tecnica e che, con la comparsa provocatoria della nuova arte, sente approssimarsi la fine”. Avverto, al contrario, in questo primo scorcio del XXI secolo un inesorabile declino delle arti figurative tradizionali, mentre ripongo ancora un’ultima incrollabile fiducia nel Regno delle immagini del Cinema e della Fotografia.

Nonostante la loro continua profanazione, sono ancora, oltre ogni ostacolo, il segno di una resistenza invincibile.

 

Le Corbusier scriveva: “L'architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi  sotto la luce. I nostri occhi sono fatti per vedere le forme nella luce: l'ombra e la luce rivelano queste forme; i cubi, i coni, le sfere, i cilindri e le piramidi sono le grandi forme primarie… La loro immagine ci appare netta… E senza ambiguità.“


Prima disegnavo edifici, ora disegno con la luce. Amo i toni scuri, i neri decisi, e le luci forti. 

Fotografia significa “scrivere con la luce”.

Non disegno più edifici, disegno con la luce. Un’impresa molto più difficile, quasi una sfida.





▪️ Quanto e come ha influenzato la tua professione di architetto nella tua ricerca e sperimentazione fotografica?


Mi rendo conto che è tutto così incredibilmente intrecciato. 

Vorrei  provare a impostare la tua domanda in maniera leggermente diversa, perché non esiste l’Architettura, così come, credo, non esista la Fotografia, bensì  quel modo di fare o di cercare architettura  come quel modo di cercare o fare fotografia. Leggo il filo invisibile che unisce i miei tentativi di architetto ai miei sogni di fotografa.

Formata alla scuola dell’architettura dell’espressionismo, ho sempre seguito quella traccia che conduce dall’arte alla vita. Complice una condizione estrema di solitudine e di desolazione, ho percorso l’unica via possibile, quella di un’architettura fortemente simbolica, come un desiderio, come una nostalgia.

In fondo un’idea impraticabile, una non-architettura, sconfinante nei territori dell’immaginazione o della installazione temporanea. Ai limiti di una forte tensione formale, dai blocchi cementizi si liberavano esili e trasparenti tentativi di superamento e smaterializzazione.  I lavori a cui sono più legata, alcuni rimasti alla semplice dimensione di ipotesi o proposta, fanno parte di un ciclo denominato “Trilogia dell’Angelo”.

Mi rendevo conto, già allora che, forse, non erano quelli dell’architettura gli strumenti e i materiali giusti per me. Il passaggio alla fotografia è stato naturale, non solo l’“intrattabile realtà”, ostile ed estranea, ma, dentro di me, la messa a fuoco di quel che avrei voluto fare da sempre.

Ammiravo ScharounMirallesCoop Himmelb(l)au, architetti capaci di tracciare haiku nel cielo delle metropoli, di far vibrare aste e lance nel vortice delle folle, di scrivere strani segni nei territori abbandonati delle periferie del nostro tramonto. Come in un volo finale, l’architettura che amavo inverava l’intero ciclo romantico, e apparvero angeli e acrobati, funamboli e saltimbanchi a insegnare lo stupore incantato di un nuovo sguardo sul mondo.




▪️ La tua serie fotografica che ti è rimasta nel cuore. Raccontacela!


La Fotografia mi ha restituito alla mia solitudine, lontano dalla lotta, ho ritrovato il mio sguardo di testimone. Perduta e finalmente ritrovata, prima dentro e poi, fuori, lontana dal rumore del mondo.

Così non mi è difficile rispondere a questa tua nuova domanda. 

Non è una serie, sono solo pochi scatti rubati, in un piccolo circo di periferia, allo sguardo innocente di una bambina che spalanca i suoi occhi al miracolo di un trapezio, o di un gruppo di  ragazzini che dondola, sospeso, sulla “barca dei sogni”.

E quelle figure di “donne alla finestra”, sorprese anche loro in quell’istante irreversibile in cui la vita ti sfiora a tua insaputa e non hai neanche il tempo di chiederti “cosa è stato”.

E poi, quest’ultima mia serie di “Bambole” nascoste dietro tende impolverate di negozi abbandonati di una città insondabile, catturate tra la fascinazione di antiche egizie sopravvivenze ed inquietanti androidi alla guida di astronavi perdute in misteriose traiettorie di viaggi interstellari.




▪️ Da qualche anno ti sei avvicinata alla Fotografia Transfigurativa. Spiegaci perché hai deciso di investire tutto su questo tipo di fotografia.


La fotografia è creazione, ri-creazione della realtà. L’architettura è stata, per me, il desiderio di liberare l’anima nascosta di “quel” luogo, il suo dáimōn, di fare in modo che si rivelasse, così la Fotografia Transfigurativa, ma molto più in là, molto più in profondità, verso quei margini incerti dove l’invisibile appare e subito svanisce, e disorienta. Potrei definirla una poetica dell’assenza o del nascondimento di oggetti silenziosi e di testimoni muti, attenti al disvelarsi, instabile e incerto, del mistero segreto dell’inconscio delle cose, attraverso la ferita dolorosa riaperta dallo sguardo ansioso della fotocamera. 

Del resto è tutto già teorizzato nelle pagine di Carlo Riggi: “Transfigurare non è un modo per stravolgere i significati, ma per trovarne il vero nucleo, l’essenza”. E se, poi, mi perdo nella malinconia di un bianco e nero, solcato da lampi di luce su fondali cupi, non è altro che quel che ho sempre cercato: come per l’espressionismo, la fotografia transfigurativa è “un problema dell’anima”, la “visione del sogno”.






Mi riallaccio a quanto scritto da Nella sopra e con l’occasione riporto questa bellissima riflessione critica di Carlo Riggi, dedicata al suo percorso artistico e pubblicata all’interno del Gruppo Facebook “Fotografia Transfigurativa”.



Se nel gruppo c'è qualcuno da cui si possa apprendere di tecnica fotografica, questa è Nella Tarantino. Non iso, tempi e diaframmi, non solo almeno, ma quella tecnica che permette di penetrare le difese dei fruitori, corrompere le sentinelle, tranciare i cavalli di frisia e irrompere nel mondo emotivo di chi osserva le sue foto; quella sua speciale attitudine a scrutare nel buio alla ricerca di sonorità invisibili, attraversare i generi rimanendo fedele a sé stessa, far collimare passione e ragione, collocando i suoi soggetti e i suoi scenari sempre, in modo indelebile, dentro l'immaginario collettivo.  


Molti fotografi utilizzano le nuove tecnologie provando ad emulare i risultati della pellicola. Nella va oltre. Le sue fotografie sono frutto di un flusso di lavoro interamente digitale, eppure davanti ad esse non ci si chiede mai come siano realizzate. La nostra collega, forte delle sue competenze professionali e dell'innato buon gusto, ha trovato una nuova via, ottenendo per le sue immagini, attraverso una postproduzione sapiente e misurata (di cui ci piacerebbe, eccome, carpire i segreti), una resa decisa, drammatica, ma mai artificiosa o forzata, ponendosi dunque come apripista per una fotografia che non ha più motivo di sentirsi in soggezione verso la pellicola e la camera oscura, non più subalterna, né orfana. 


("La Finestra sul Cortile" 21 Novembre 2021)






In particolare Carlo Riggi si sofferma su questa fotografia


Questa foto è una di quelle che non si dimenticano. Questa bimba tutta occhi, emanazione piena dell’autrice col suo strumento per scrutare la vita, a metà tra pudore e sfrontatezza, tra la voglia di sparire e il desiderio di mostrare al mondo i propri sentimenti.   


Un bianco e nero forte, spietato, che rivela in filigrana le tensioni evolutive di una piccola donna in preda a emozioni più grandi di lei, che prova a trattenere nel suo sorriso ingoiato, tra lacrime ferme sulla soglia; un insieme di ansia e eccitazione legato al venire alla luce delle sue nuove forme, un gorgo vorace di sapiente innocenza. 


Un ghirigoro bianco, elegante e civettuolo, taglia la foto in due, come la linea di un'aria musicale appena bisbigliata. La semibreve appesa in alto - si direbbe un FA – riverbera sulle altre notine disegnate sul cerchietto in testa e sul viso. Perché questa foto canta, pure. Sullo sfondo si ode l'eco lontana di un'orchestrina felliniana; l'atmosfera circense diventa un tappeto silente, allusivo, seduttivo. Il richiamo muto di una donna consapevole di sé e spaventata di quel che sta diventando. 


L'uomo anziano si accosta a questa immagine, posseduto totalmente da un mistero ormai interdetto; un refolo antico, come una carezza prudente, leggera e distante. Perché i vecchi, dice De André, hanno sempre paura di far troppo forte.


("La Finestra sul Cortile" 21 Novembre 2021)














▪️ Ritornando alla nostra intervista, che approccio hai con la post-produzione per arrivare agli aspetti contenutistici e stilistici delle tue opere fotografiche?


A questa domanda credo di aver già risposto. Per me la post produzione è necessaria. Un buon uso di Photoshop non può che contribuire alla nascita di una buona foto.

Scatto sempre a colori, e sviluppo in bianco e nero. In questo modo, posso lavorare con le luminosità e le saturazioni di ogni singolo colore, in modo da ottenere una vasta gamma di grigi. 



▪️ Volevo chiederti come avviene la scelta dei soggetti per i tuoi scatti. La tua ispirazione è veicolata da qualcosa in particolare?


Mi accorgo quasi sempre, e non so dirti se nei paesaggi in cui mi perdo, siano essi luoghi o volti, figure, e, poi, nelle fotografie, di trovarmi di fronte, ogni volta a qualcosa di “familiare e di estraneo”, come se quei luoghi, quelle figure, quei volti, facessero da sempre parte del mio paesaggio più profondo, e nello stesso tempo, li vedessi per la prima volta, come luoghi sognati, figure e volti sconosciuti. Quando questo accade, sento che è avvenuto un piccolo miracolo, sento che quella è una “buona fotografia”, che è riuscita ad inoltrarsi “in interstizi dello spazio e del tempo del mio inconscio altrimenti inesplorati o silenti”. Come una fatalità, attraverso una ferita, quella fotografia si distacca da me dolorosamente e si avvicina e mi cattura, come in un processo inverso allo scatto della fotocamera, nel mistero insondabile della sua apparizione.  




▪️ A cosa stai lavorando in questo periodo?


Non ho progetti. Non saprei rispondere a questa tua domanda. Ci sono periodi in cui scatto molto, e altri invece in cui mi dedico ad altro. Nei momenti liberi, quando non ho foto da  lavorare, studio.

Studio la Storia della Fotografia e i grandi Maestri, quelli che sento a me più vicini. 

Oppure esco a fare delle lunghe passeggiate sul mare, senza fotocamera…















Contatti dell’artista  


Facebook Nella Tarantino 
















Nella Tarantino è architetto e fotografo.

I suoi lavori di architettura sono stati pubblicati su riviste e cataloghi nazionali e  internazionali, tra cui:

-  “Angelica trilogia” di Bruno Zevi, in L’ESPRESSO n. 28, 16 luglio 1998

 -  “Scultura per il Millenario di Vatolla, Salerno” in L’architettura, cronache e storia, n. 515 settembre 1998

-  Massimo Locci – Zevi e l’architettura italiana della fine del XX secolo in “Gli architetti di Zevi, Storia e Controstoria dell’architettura italiana 1944-2000” Fondazione Maxxi 2018

Hanno scritto o espresso pareri sul suo lavoro di architetto: Paolo Taviani, Gillo Dorfles, Bruno Zevi, Cesare De Sessa, Predrag Matvejevic

















Intervista a cura di Giuseppina Irene Groccia



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