Nel Cuore dell'Immagine - Intervista Esclusiva con l'Artista Michele Coccioli

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Nel Cuore dell'Immagine


Intervista Esclusiva con l'Artista 

Michele Coccioli






di Giuseppina Irene Groccia |04|Febbraio|2024|





Nel vasto orizzonte della fotografia contemporanea, emergono figure che hanno trasformato la macchina fotografica da mero congegno utile a catturare la realtà a strumento di riflessione filosofica, psicologica e antropologica. Tra queste personalità illuminate, spicca Michele Coccioli, il cui lavoro costituisce un affascinante connubio tra sperimentazione tecnica e profonda ricerca meditativa.

Le sue opere si distinguono per la capacità di andare oltre la superficie visiva, spingendo lo spettatore verso una esplorazione concettuale o spirituale. Ogni fotografia diventa una tessitura visiva intrisa di significato, elevando così l'arte fotografica da una semplice rappresentazione visuale a una forma d'espressione capace di stimolare intellettualmente ogni suo fruitore.


Figlia di un'incessante ricerca e costante rinnovamento, l'opera di Michele Coccioli spicca per la varietà di influenze che lo stesso artista attinge dal mondo visuale. 

Senza limiti o distinzioni, egli esplora il territorio circostante per creare un dialogo interdisciplinare, dove ogni prospettiva si intreccia liberamente con le sue visioni, dando vita a un'espressione visiva che sfugge a categorie predefinite, evolvendosi come un organismo in continua evoluzione.


L'impegno nell'approfondire la conoscenza tecnica e ottica si manifesta nello studio attento dei Maestri e nelle analisi dettagliate degli obiettivi. Questo costante percorso di crescita si traduce in uno sguardo affinato e consapevole, tramutando il suo futuro fotografico in un continuo viaggio tra tecnica, emozione e infinite storie visive che si sviluppano sotto il suo obiettivo.


Tutto il suo percorso fotografico si delinea come un “non luogo” sospeso, dove armonia, memoria e presente si intrecciano con eleganza. La sua ricerca è costantemente orientata verso l'obiettivo di catturare la bellezza dell'essere umano in uno spazio privo di disuguaglianze, tessendo storie che abbracciano il passato e il presente con una intima correlazione.


Nell’ esplorare la dimensione irrazionale dell'essere attraverso le immagini, Michele Coccioli si dedica a tematiche profonde connesse ai sogni e alla memoria. La sua visione fotografica si caratterizza per competenze interpretative individuali che penetrano la sfera emozionale degli spettatori, basandosi sulla sua solida conoscenza della storia dell'arte. Questo approccio trasforma la fotografia in uno strumento potente per decodificare la realtà, sfruttando le sue potenzialità descrittive ed espressive.


In questo incessante scorrere della vita, nulla si manifesta statico o immobile; tutto, invece, è in continuo movimento, un fluire senza limiti. La convinzione profonda è che la vita sia un perenne scorrere, un andare avanti costante. È proprio in questo dinamismo, da cui tutto nasce, che si possono percepire e ritrarre al meglio le emozioni e i contrasti umani. 

Michele Coccioli cattura questa filosofia nella sua arte, imprigionando momenti in uno scatto che, tuttavia, riesce a narrare un'esistenza in persistente evoluzione. Nei suoi fotogrammi si riconoscono sguardi e movimenti, che creano scie fluttuanti nell'immagine, generando vibrazioni che si insinuano nell'anima dello spettatore.

Sono immagini evanescenti che diventano finestre aperte su un mondo in costante divenire, invitando chi osserva a immergersi in un coinvolgimento ricercato e a interpretare il susseguirsi delle emozioni catturate dall’artista.

In questo fluido processo di osservazione e interpretazione, Coccioli instaura un dialogo tra l'opera e l’osservatore, sottolineando la natura inafferrabile e dinamica dell'esperienza umana.


Come in una composizione musicale, dove ogni dettaglio è una nota, ogni movimento è un ritmo, e l'insieme è un'esperienza sensoriale avvolgente. Coccioli, abile tessitore di simboli visivi, trasforma il linguaggio della fotografia in una forma d'arte che parla direttamente alle corde dell'anima. È un dialogo profondo con l'eternità, in cui il significato si svela attraverso l'intricata danza dei significanti, creando un'esperienza visiva che va al di là del semplice atto di guardare, aprendo così una porta verso il misterioso linguaggio dell'inconscio.
















Cerchiamo di esplorare insieme il suo mondo creativo e visionario in questa intervista, analizzando le influenze, le motivazioni e la filosofia che guidano la sua straordinaria pratica artistica.






Qual è stata la motivazione dietro la scelta della fotografia come mezzo per condividere le tue emozioni con il mondo?

 

Le “scienze umane” e la relativa componente onirica mi hanno sempre affascinato, la fotografia è stato un modo per capire e poi interpretare l’antropologia di un territorio oltre la dimensione del reale. Ho cercato di farlo entrando nell’animo delle persone, riprendendole sia da vicino che nel loro habitat consueto e di captarne i sogni. La fotografia mi dava l’opportunità di bloccare alcuni istanti di vita, di registrarne  gioie e dolori. Per farlo ho iniziato a studiare prima i grandi Maestri del neorealismo, dopo aver acquisito una buona conoscenza della macchina fotografica e dell’ingegneria ottica applicata agli obiettivi. Dopo una prima fase costituita da fotografie del mondo reale, sono passato a qualcosa di più viscerale che metteva in relazione reale e immaginario. Ma prima di arrivare a risultati soddisfacenti mi son dovuto sorbire quintali di carta stampata tra riviste e libri.





 

Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi nell'autoapprendimento, considerando che hai acquisito le tue competenze in modo autonomo?

 

La passione è iniziata nel 1977, ero iscritto alla Facoltà di Architettura di Firenze e frequentavo due amici laureandi architetti che spesso uscivano a fare fotografie. Iniziai con loro entrando in camera oscura, all’epoca non avevo ancora una macchina fotografica e di tanto in tanto mi prestavano la loro Nikon Photomic, un corpo meccanico di gran classe che non passava certo inosservato. Per capire di  fotografia mi iscrissi a un corso della durata di sei mesi presso la mia facoltà: “Composizione fotografica e coerenza dello stile”. Furono sei mesi intensi, iniziai dai principi base che vertevano essenzialmente sull’architettura. Al corso abbinai gradualmente tutte le riviste specifiche focalizzando l’attenzione sia sulla qualità delle ottiche che sui reportage con un occhio particolare alle figure emergenti della fotografia. In pochi anni diventai un esperto di test MTF (Modulation Transfer Function), ero in grado di consigliare a qualsiasi utilizzatore di Olympus, Pentax, Nikon, Canon quali fossero gli obiettivi migliori e a quale diaframma davano il meglio di sè. Nel 1996 decisi di proporre alcuni miei lavori al Laboratorio Mario De Stefanis  di Milano, frequentato da maestri illustri come Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico, Ugo Mulas, Mario Cresci, Uliano Lucas, Federico Patellani, Francesco Cito, Armin Linke e tanti altri. Scrissi una lettera indirizzata al laboratorio dopo aver letto delle interviste sulle riviste, con la raccomandazione che i miei lavori fossero analizzati con la stessa minuziosa  attenzione adottata nei lavori dei grandi Maestri. I primi negativi in b&n  si dimostrarono un fallimento dal punto di vista interpretativo. Ricordo le parole di Mangione, socio del laboratorio: le processioni sono tra i lavori più difficili, le consiglio di studiare “Feste religiose in Sicilia” di Ferdinando Scianna. Dopo due anni la situazione si capovolse con il plauso del laboratorio e di alcuni grandi fotografi.  Dai contatti con il Laboratorio imparai l’importanza dello sviluppo delle pellicole in b&n e della gamma tonale nelle stampe baritate. Il laboratorio mi invitò diverse volte a Milano, avevano una ottima reputazione dei miei lavori tanto da propormi dei contatti con  Gardin, Basilico e altri fotografi. Ma i miei impegni lavorativi non mi consentivano di fare su e giù da Milano, accadde la stessa cosa con il giornalista e critico Maurizio Rebuzzini direttore di “Fotographia” la volta che mi telefonò dopo aver visto alcuni mie lavori presso la Kolt di Bari. Una serie in b&n stampata da De Stefanis riceve nel 2002 l’apprezzamento di Electa-Mondadori dopo che l’avevo portata in mostra alla Fiera del levante di Bari. Ne nasce un libro dal titolo “PugliaLucania”. Ebbi la possibilità di regalarne personalmente una copia a Gianni Berengo Gardin, lo incontrai una sera con Scianna  e Roberto Koch fondatore della casa editrice e  Agenzia  Contrasto. Gianni Berengo Gardin sfogliò il libro sotto un lampione e con occhi vitrei mi disse: ci sono delle buone fotografie, ma c’è soprattutto lei nei ritratti che vedo. A questo fece seguito un altro libro pubblicato nel 2007 da Adda Editore di bari con il titolo “Puglia, i borghi più belli d’Italia”. Questo è il sunto dei primi venticinque anni di un fotoamatore evoluto, così mi definì Al Bano incontrandomi nel 1992 mentre fotografavo con la Leica una sua masseria vicino Cellino San Marco.






 

Come si riflette la connessione tra architettura e fotografia nel tuo percorso, considerando che entrambi sembrano essere elementi centrali nella tua vita?

 

Esiste una connessione tra architettura e fotografia, trovo che abbiano in comune quel rapporto psicologico che si viene a creare tra l’uomo  e il luogo cui è destinato a vivere che è architettura. La fotografia cerca quindi di trovare la terza dimensione che non ha rispetto all’architettura; è una profondità non geometrica ma di significato. La fotografia è stata per me uno strumento in grado di attivare una decodifica della realtà per potenzialità descrittive e qualità espressive. La cultura visuale che ho delle due è capacità di esercitare una coscienza critica sulle attività vitali dell’uomo.

 

Per Merleau-Ponty centrale in tutto questo è la visione, la percezione come attitudine dello stare al mondo e nel mondo. Nella sua opera “Fenomenologia della Percezione”, arriva ad affermare che pensiero e percezione sono incarnati. Mondo, Corpo e Coscienza abitano un unico sistema. Soggetto e oggetto in questo mondo sono inevitabilmente legati, il vedente e il visto, l’io e il mondo diventano un’unità indissolubile.




 

Quali sono i nodi emozionali che ami raggiungere con i tuoi lavori?

 

Nel suo libro “Emotional intelligence”, Daniel Goleman scrisse: una concezione della natura umana che ignorasse il potere delle emozioni si dimostrerebbe deplorevolmente limitata”. Ma anche H. Cartier Bresson si pronunciò su quest’aspetto sostenendo che ogni fotografo debba aver sviluppate le funzioni di Intuizione, Pensiero, Sensazione e Sentimento in quanto in una frazione di secondo deve allineare Mente Occhi Cuore per valutare un evento significativamente importante. E’ mio convincimento che l’arte fotografica così come il resto delle arti visuali difficilmente può essere acquisita o meglio, può essere espressa studiandone solo le regole, bisogna avere una certa predisposizione nel captare l’interiorità delle persone e una buona capacità di analisi. Avere una buona immaginazione è fondamentale, diversamente la fotografia rischia di rimanere uno sterile insieme di tecnica che difficilmente potrà emozionare chi la guarda. Una fotografia che emoziona deve porre degli interrogativi prima a chi l’ha scattata e dopo all’osservatore. Amore, paura o rabbia sono stati legati ai sentimenti delle persone. Sono i turbamenti della mente che mi interessano, in primis la malinconia e la tristezza. Questi stadi dell’essere umano mi coinvolgono profondamente, a volte io stesso ne sono partecipe tanto da innescare un processo di intendimenti simultanei dove il soggetto ( persona o paesaggio ) non è altro che il riflesso del mio stato interiore all’atto dello scatto.




 

Dal punto di vista stilistico, quali sono secondo te le differenze tra la fotografia commerciale e quella artistica?

 

La fotografia commerciale è sinonimo di marketing, la fotografia artistica di capacità interpretative individuali che toccano la sfera emozionale delle persone. La seconda è molto più complicata, non è da tutti perché si basa su un’ampia conoscenza della storia dell’arte. Sulla fotografia artistica entra in gioco l’anima del fotografo, il quale mette le proprie competenze tecniche a servizio della fantasia e dell’immaginazione con un approccio stilistico di indiscussa coerenza.




 

In che modo la tua fotografia, fortemente influenzata da pittura, cinema e psicanalisi, si configura principalmente come un'indagine visiva?

 

Questa è una domanda un po’ complessa. Per risponderti devo fare un passo indietro e rispolverare la mia storia fotografica. Ci sono due fasi del mio percorso narrativo: il primo include le indagini di tipo antropologico  effettuate non solo in Italia, a queste si aggiungono le tematiche di natura letterale come “Addio monti”, un lavoro concentrato sul Lago di Lecco e ispirato ai “Promessi Sposi” del Manzoni; la seconda fase è più di tipo concettuale e mette in atto tutto ciò che avevo imparato studiando Vittorio Storaro in ambito cinematografico. Il grande Direttore della Fotografia nei suoi film fa propri i concetti di Luce, Ombra, Penombra, Coscienza, Infinito, Sole, Luna e Colori, argomenti contemplati nella Storia dell’Arte, nella Storia della Filosofia e Psicologia. A tutto questo aggiungi i miei studi post laurea; cinque ulteriori anni di seminari professionali con la Facoltà di Architettura di Genova. Aggiungi ancora tutti i corsi effettuati in Italia in trentotto anni nel settore della comunicazione e sicurezza, per finire le settimane passate con equipe di psicologi intenti a valutare i miei archetipi di appartenenza, oltre che  le mie facoltà percettive e comunicative a mezzo di test complicatissimi sia orali che scritti. Mi sono passata la vita prevalentemente a progettare banche e a gestire l’intero patrimonio immobiliare di un Istituto bancario. Dovevo superare i test e dimostrare di avere determinati requisiti nell’assumermi delle responsabilità.  Le indagini di natura visiva mi hanno accompagnato da sempre nel mio lavoro, ne ero obbligato avendo a che fare con circa 1000 dipendenti che lavoravano in spazi da me progettati. Quando ho parlato di emozioni mi riferivo anche a quelle innescate dallo stress: tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa. Le rapine a mano armata e gli atti malavitosi in genere, per esempio, provocavano tali sentimenti nelle persone. Tutte queste esperienze hanno contribuito a rafforzare le mie facoltà percettive sullo stato emozionale di una persona, che si sono poi riversate nella fotografia.




 

In quale fotografia ti senti più rappresentato tra ritratto, paesaggio, Street, ricerca e sperimentazione?

 

Ultimamente mi sto dedicando di più al ritratto e alla Street, ma non escludo a priori le altre quando diventano presupposto di ricerca e sperimentazione.




 

Puoi definire il concetto di ritratto e spiegare come ti relazioni con i tuoi soggetti durante il processo fotografico?

 

Bella domanda. Sono un po’ amareggiato e scoraggiato su questo fronte, lo sono a causa dei numerosi problemi che ho avuto quando si è trattato di fotografare ambienti con minori. La gente è diffidente e il più delle volte insorge chiamando le Forze dell’Ordine. Fino a vent’anni fa non accadeva questo; ho fatto reportage inquadrando vecchi e bambini, i genitori non avevano nessuna preoccupazione ad autorizzare gli scatti. Chiedere una “liberatoria” è utopia pura, i genitori fanno mille domande e diventano come ho detto prima diffidenti sul reale e lecito utilizzo delle immagini. A causa di questo problema valuto di volta in volta se è meglio farsi notare o rubare lo scatto. La seconda opzione la applico in luoghi fortemente presidiati: strade affollate, mercati, fiere,  feste patronali e manifestazioni folcloristiche. In questo caso prediligo le fotocamere Leica a telemetro con ottica fissa. Mi serve rapidità di esecuzione senza la costrizione di inquadrare il soggetto. Di solito anticipo la messa a fuoco manuale qualche secondo prima forte della mia esperienza maturata ai tempi dell’analogico. Se ritengo che il soggetto è sfavorito dalla luce lo aggiro mettendomi in una posizione favorevole, mai in luce frontale e contrastata. Di solito opto per la luce di taglio, soprattutto di sera quando le ombre accentuano la tridimensionalità del volto ed esaltano un terzo del profilo. Ma questa impostazione la mantengo anche in luce diurna, lo scatto frontale lo riservo nelle situazioni dove il soggetto è in ombra. Spendo due parole sull’utilizzo di questo mezzo prestigioso che mi ha consentito un nuovo approccio alla fotografia. Fino al 1992 utilizzavo il meglio delle apparecchiature Nikon, a un certo punto decisi di fare un passo indietro convertendo tutto in Leica a telemetro. Le prime due Leica  le acquistai a Milano da Foto Ottica Cavour. Ero tornato agli albori della fotografia, non avevano neppure l’esposimetro. Se ho imparato a fotografare lo devo a Leica. La mancanza dell’esposimetro mi costrinse a capire l’accoppiamento tempi/diaframma a seconda della luminosità del cielo. L’accoppiamento di riferimento era f11 1/125 sec per le giornate soleggiate, che variava in base alla nuvolosità del cielo. Non ho mai sbagliato una foto perché difficilmente il mio errore andava oltre il range  della latitudine di posa della pellicola. La Leica mi dava poi la possibilità di non perdere di vista il soggetto nel mirino, non aveva specchio e, pertanto, era esente dall’oscuramento dell’inquadratura che avevano le altre fotocamere. Altro pregio era la duplice cornice telemetrica: la cornice centrale rappresentava lo spazio inquadrato che poteva corrispondere per esempio a un obiettivo 50 mm, la cornice periferica a un grandangolare di 28mm. Questa caratteristica consentiva al fotografo di soffermarsi sul soggetto  inquadrato ma nello stesso momento di rendersi conto di ciò che accadeva fuori dall’inquadratura decidendo se distogliere lo sguardo dal mirino o scattare una seconda fotografia una volta che il secondo soggetto fosse sopraggiunto. La qualità delle ottiche era irraggiungibile, ancora oggi lo è: nitidezza, profondità e brillantezza dei colori. Le pellicole a colori Velvia poi mi costrinsero ad attrezzarmi di un esposimetro esterno che utilizzavo in luce incidente. Le Velvia erano tarate a 50 iso, non riuscivano a incassare neppure mezzo stop di errore in sottoesposizione tanto da rendere le diapositive inutilizzabili. Con l’acquisto dell’esposimetro alle Leica affiancai due fotocamere medio formato: una Rolleiflex biottica e un corredo Hasselblad.




 

Il mosso emerge come tema frequente nelle tue fotografie. Qual è la ragione di questo particolare interesse per questo linguaggio artistico?

 

Il tempo per me rappresenta un elemento cardine della fotografia. Una storia può essere raccontata o con un solo scatto, oppure con una serie di scatti a costituire una sola fotografia. Questa è sostanzialmente la differenza tra una fotografia classica e una fotografia cinematografica. Tra le due c’è una differenza che è data dal fattore tempo. Il tempo può essere dilatato tanto da includere sia una luce naturale che artificiale in cui il soggetto si muove manifestando il proprio stato d’animo.  Storaro ne è un Maestro. Esiste poi una situazione intermedia in cui il soggetto o più soggetti determinano lo stato d’animo, o una variabilità dello stato d’animo in una frazione di secondi. Molte delle mie fotografie sono centrate su questo aspetto che diventa elemento emozionale nell’osservatore. Il fotografo è il primo ad emozionarsi da questo “segno” visivo perché ne è l’artefice, l’osservatore in seconda battuta. E’ quello che H. Cartier Bresson chiama “doppio movimento interiore”.




 

Come affronti l'analisi e la riflessione sul sogno e la dimensione irrazionale dell'essere attraverso le tue immagini?

 

Nel 2013 feci una mostra a Roma in Banca d’Italia, il titolo era “Direzione sogni”. Molte di queste fotografie furono apprezzate dalla Orler di Venezia che aveva notato i miei lavori già da tempo proponendomi al mercato dell’arte sia in Italia che all’estero. A partire dal 2007 cominciai a interessarmi di questa tematica, fu la fotografia cinematografica di Vittorio Storaro ad aprirmi uno spiraglio verso qualcosa di nuovo, le sue fotografie si proiettavano nel futuro portandosi appresso momenti di vita passata sia nella gioia che nel dolore. Mi affascinava il concetto di “dimensione irrazionale dell’essere” perché mi rendevo conto che ne facevo parte. Sono stato sempre un sognatore, un visionario ma avevo difficoltà a comunicarne fotograficamente i contenuti. E’ del 2007 un mia fotografia paesaggistica pubblicata da Paolo Levi in “Nuova Arte” di Giorgio Mondadori con il titolo “Chiedi alle nuvole di soffiare sul mare” Fu uno dei miei primi scatti dove la fotografia era intesa non solo come mezzo informativo ma come canale per smuovere l’anima: l’aver trascinato le nuvole sul mare non raffigurava più una realtà ma un  atto spirituale. Una seconda fotografia fu selezionata per Leaders , Le nuove avanguardie - Enciclopedia d’Arte Contemporanea, Editore EA di Palermo. Ero a Cracovia e mentre osservavo una cerimonia religiosa, immaginai che tra i vecchi e i bambini  in fila davanti al prete, ci fossero degli esseri malvagi. Oscurai i loro volti facendogli assumere un aspetto demoniaco. Sempre a Cracovia, sovrapposi uno stupendo dipinto rinascimentale di una donna sulla facciata di un palazzo di derivazione comunista. Immaginai così di alleviare le brutture architettoniche di Nowa Huta. Questa fotografia oltre che a Roma, Banca D’Italia e Dioscuri del Quirinale, fu esposta al Palazzo dei Sette di Orvieto e al Castello Svevo di Barletta. E’ un viaggio interiore quello che propongo, dove elementi del passato, del presente e del futuro si mescolano in maniera assolutamente univoca scardinando tutte le categorie di spazio e tempo a cui siamo abituati. Sono i primi esempi di come i confini tra verità e immaginazione, in uno specchio delle apparenze, si confondono, tanto da sgretolare la linea di demarcazione tra razionale e irrazionale, vita e sogno sono pagine dello stesso libro. Qui, reale, mito e leggenda coesistono in un connubio inscindibile di suggestioni ed evocazioni liriche, e tutto alimenta quell’idea di armonia e bellezza che da sempre costituisce la risposta alla sete di infinito che anima lo spirito degli uomini. Ma non anticipo soluzioni, pongo solo delle domande all’interno delle quali il fruitore può ritrovare se stesso individuando il punto esatto dove cade l’armonia come equilibrio di due elementi contrari tra loro: il bianco e il nero nella fotografia, l’acuto e il grave nella musica. Il 2012 vide la raccolta delle prime immagini in un libro edito da Vianello Libri con il titolo “Volare d’Infinito canto- Omaggio a Domenico Modugno”. E’ una interpretazione della canzone “Nel blu, dipinto di blu”.




 

Spesso ami soffermarti su immagini realizzate da altri artisti, andando oltre la superficie per svelarne la vera anima attraverso le tue riflessioni approfondite. Raccontaci di questa tua propensione per l'analisi delle immagini e come questa si rapporta con la tua pratica artistica.

 

La propensione per l’analisi deriva dalla passione per la storia dell’architettura. Il corso di laurea in architettura comprende inoltre tutta una serie di esami che includono la psicologia e la sociologia. Non dimentichiamoci che l’architetto costruisce spazi per l’uomo che per essere abitabili devono esaudire le sue necessità terrene che sconfinano nelle scienze ergonomiche. Il fatto che dedichi parte del mio tempo ad altri artisti è anche un modo per tenere allenato il cervello. Lo faccio con una certa caparbietà e mi riconosco molto critico su questo, quando non capisco cerco di approfondire studiando aspetti della tematica paralleli. Anni fa non capivo Mario Giacomelli fino a quando non andai a vedere al Museo Civico di Padova  una retrospettiva a lui dedicata. Mi misi in contatto poi con i suoi seguaci della zona di Senigallia comprando anche qualche libro. Sulle foto che vedo nelle mostre o sul web sono molto critico, ero abituato a farlo già negli anni passati, me lo ha insegnato  Maurizio Capobussi che scriveva per la rivista “Tutti fotografi”. I miei amici mi davano del pazzo quando cestinavo centinaia di diapositive che invece ritenevano andassero salvate. Ma io seguivo i consigli del critico che non si stancava mai di ripetere: farete un salto di qualità quando avrete il coraggio di cestinare gran parte delle vostre fotografie; iniziate ad essere critici con voi stessi! Oggi riesco ad individuare i bravi fotografi, non mi faccio incantare dal  “divertissemen” di tanti che si illudono di essere artisti solo perché fanno cose strane. Le cose strane sono sinonimo di “ricerca” quando hanno alla base una conoscenza e padronanza del mezzo fotografico, una cultura della fotografia e soprattutto una coerenza stilistica. Sono questi gli aspetti che guardano i critici importanti; a questi poi aggiungono la storicizzazione dell’autore. Il vero artista ha una certa continuità operativa che si manifesta con le mostre, i libri pubblicati specie con case editrici di primaria importanza, le recensioni da parte di autorevoli critici. Nel mercato dell’arte le Gallerie importanti, Agenzie e Case d’Asta suddividono gli artisti in base a questi requisiti dividendoli in due fasce: artisti di interesse nazionale e artisti di interesse internazionale, specificando se trattasi di “emergenti” oppure “consolidati”. Quando ero a catalogo  della Orler di Venezia le cose funzionavano così, ma lo erano anche per “lagioiadell’Arte - Collezionismo contemporaneo ” di cui facevo parte.




 

Hai una lunga esperienza sull’utilizzo di fotocamere e obiettivi analogici, quali sono stati i risvolti passando al digitale?

 

Quando nel 2006 passai al digitale vedendo i risultati mi venne un colpo. Non avevo dimestichezza con Photoshop e i risultati erano pressochè deludenti. La fotografia digitale necessita di un minimo di post-elaborazione diversamente i risultati corrispondono al 40% della qualità data dalle pellicole. Oggi qualsiasi fotocamera digitale è in grado di fare ottime foto a condizione che gli obiettivi siano di qualità. I sensori sono migliorati moltissimo rispetto a quelli di 10/15 anni fa. Il divario sul sistema analogico si è assottigliato, rimane tuttavia la differenza qualitativa sulla profondità colore e tridimensionalità delle immagini che ancora oggi trovo ad appannaggio del sistema analogico. Queste differenze un buon grafico riesce in qualche misura a camuffarle nel digitale forzando alcuni parametri in fase di post produzione. Ma un occhio attento ed allenato si accorge della magagna e si fa una risatina. Nelle mostre è verificabile questo aspetto, tra quelle che ho visto la più eclatante è stata quella di Steve McCurry che comprendeva stampe sia analogiche che digitali. Ho utilizzato per una paio di anni una Fujifilm T3, ottima fotocamera per la ritrattistica ma non eccelsa sulla separazione dei piani focali e sull’aspetto tridimensionale delle immagini. Il divario con le Canon Full Frame che ho utilizzato era evidente. Per migliorare i file Fuji avevo imparato a caricare le ombre e i neri in fase di post produzione. Non dimenticarti che io provengo da una lunga esperienza analogica con  Leica, Rolleiflex  e Hasselblad  medio formato e il mio occhio è allenato. Sul formato Full Frame, Leica non si discute, siamo su altri pianeti! La Casa ebbe un periodo di crisi con l’avvento del digitale, aveva il problema dei sensori e dell’elettronica che grazie alla collaborazione con Panasonic si risolsero. Oggi dispongo di due corredi professionali Sony e Leica M, la differenza tra i due sistemi è data dall’impronta inconfondibile che hanno i file Leica, una filosofia basata su stacco dei colori, microcontrasto, tridimensionalità e brillantezza delle immagini, caratteristiche individuabili soprattutto in carenza di luce. E’ opinione diffusa che sia il numero dei pixel a fare la differenza in una fotocamera, nulla di più sbagliato. Io con la Canon Mark1 da 12 Mpx ho stampato foto di tre metri lato lungo con una definizione pazzesca. E’ la densità che si viene a creare sul sensore il nocciolo della questione, una densità bassa consente ai pixel di stare più larghi sul sensore catturando più luce, ecco perché a parità di pixel una fotocamera Full Frame è superiore a una Aps. Va da sé che non tutti i fotografi hanno bisogno di avere il top dell’attrezzatura, dipende dal genere fotografico che fanno; un professionista che pubblica foto di architettura, paesaggi  o avifauna indubbiamente sì. Ma all’atto pratico io dico che è sempre meglio avere qualcosa in più che qualcosa in meno, possibilità economiche permettendo.




 

 Quali progetti hai per il futuro?

 

Esiste un non luogo dove donne, uomini e bambini vivono in armonia, non sanno cosa siano le disuguaglianze. Dopo le visite dei parenti un architetto-fotografo si mette a fotografarli tra un presente e la memoria di un passato vissuto, ma quello che sorprende è la sua capacità a leggere negli occhi dei parenti il futuro come proiezione di una memoria trasmessa. A Italo Calvino è sfuggita questa città, mi piacerebbe fotografare quell’architetto-fotografo che si riversa tra reale e immaginario. Quella città si chiama Armonoma.













Contatti dell’artista 


Facebook Michele Coccioli




























MICHELE COCCIOLI


Architetto, nato a S.Pietro Vernotico (Brindisi) nel 1956, vive a Casarano (Lecce). Formatosi studiando gli autori del neorealismo, in seguito il suo lavoro privilegia il rapporto tra il vero e l’immaginario la cui rappresentazione costringe a continue elaborazioni mentali. Il Novecento (pittura e cinema) e la psicoanalisi ne influenzano l’approccio stilistico e sono spinta propulsiva per un viaggio dell’anima. 
Ha pubblicato nel 2012 Volare d’infinito canto con Vianello Libri, nel 2009 Puglia. I borghi più belli d’Italia con Adda Editore e nel 2002 PugliaLucania con Electa. Nel 2009 compare su “Nuova Arte” di Giorgio Mondadori e nel 2011 riceve il premio alla Cultura dalla Galleria d’Arte “Centro Storico” di Firenze. Suoi lavori sono stati recensiti da numerose testate giornalistiche e da “Fotologie” – Pagine scelte della fotografia contemporanea. Ha esposto al Photographic Lishui Festival-CHINA, ai Dioscuri del Quirinale-ROMA, al CASC Banca d’Italia-ROMA.
































©L’ArteCheMiPiace - Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 








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