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Luigi Le Piane – Un regista silenzioso della cultura

 

Luigi Le Piane

 

Un regista silenzioso della cultura

 

 

 

A pensarci bene, Luigi Le Piane non è un artista nel senso tradizionale del termine, eppure il suo operato ha qualcosa di autenticamente creativo. La sua abilità non si misura in tele o sculture, ma nel modo in cui riesce a trasformare un’idea in un’esperienza condivisa, unendo persone, energie e linguaggi diversi. È come se avesse scelto la regia invisibile, quella che non appare mai in scena, ma senza la quale la scena stessa non avrebbe vita.

Cosenza lo conosce bene come PR, capace di animare la città con serate, eventi musicali e momenti di intrattenimento. Ma il cuore del suo impegno rimane Geni Comuni, il progetto che ha dato respiro nazionale alla sua visione culturale. Non un semplice evento, ma un laboratorio di possibilità, un ponte tra professionisti affermati e nuove generazioni, tra territorio e mondo, tra arte e comunità.

In fondo, la cifra più vera di Luigi sta in questo: non accontentarsi di organizzare, ma cercare il senso di ciò che propone. Nei suoi progetti c’è sempre l’idea che la cultura non debba essere un lusso, ma un bene comune, capace di avvicinare chi solitamente resta ai margini. È un modo di fare che richiede passione, ma anche coraggio e coerenza.

Si potrebbe dire che il suo lavoro non costruisce soltanto eventi, ma possibilità. Egli apre spazi, crea dialoghi, rende accessibile ciò che spesso sembra distante. E in questo c’è la sua vera arte. Una forma silenziosa ma essenziale di creatività, che non si misura con gli applausi, ma con la traccia che lascia nelle persone e nel territorio.

 

 

 

Da queste riflessioni nasce l’intervista che segue, un dialogo capace di restituire non solo il percorso professionale, ma soprattutto la visione e la passione che guidano ogni suo progetto

 

 

 

 

Luigi, tu sei un organizzatore culturale molto attivo e riconosciuto, ma non sei un artista in senso stretto. Da dove nasce la tua passione per l’arte?
 

 

È vero, non sono un artista. La mia passione per l’arte è nata lavorando per tanti anni all’interno del Museo del Presente. Vivendo quotidianamente quel luogo e quell’atmosfera, era inevitabile che qualcosa scattasse.

 

Ricordi un episodio o un incontro che ti ha fatto capire che l’arte sarebbe diventata parte centrale della tua vita?
 

 

Sì, ricordo bene. Anni fa, molti artisti mi chiedevano: “Come faccio a esporre in questa bellissima struttura? Cosa devo fare?”. Da lì è nata l’idea di creare un format che desse spazio sia ad artisti professionisti sia a talenti emergenti, anche a chi non aveva ancora un curriculum importante ma meritava una possibilità di entrare in un museo e confrontarsi con un contesto di qualità.

 

 

Quanto la tua formazione e il tuo vissuto a Cosenza e in Calabria hanno influenzato il tuo modo di vedere e proporre cultura?
 

 

Moltissimo. I miei studi letterari, uniti alla passione per gli eventi, mi hanno portato fin da giovane a organizzare attività culturali e non solo. È stato un percorso naturale che mi ha sempre accompagnato.

 

Organizzare eventi di successo non è solo questione di logistica. Quali sono, secondo te, gli elementi chiave per creare un evento culturale che lasci il segno?
 

 

L’elemento principale è la passione. Se pensi di creare un evento soltanto per un tornaconto economico, hai già fallito. Poi, certo, servono attitudine, capacità, esperienza e serietà: tutti fattori che fanno da cornice.

 

Nel tuo lavoro riesci a coniugare estetica, contenuto e innovazione. Come orienti le tue scelte, ad esempio nella selezione degli artisti o degli ospiti?
 

 

Credo sia fondamentale saper leggere il tempo presente. Un evento deve stimolare la curiosità dei visitatori, proporre idee innovative, parlare ai giovani che rappresentano la contemporaneità. Bisogna quindi adeguarsi ai tempi e, allo stesso tempo, creare occasioni che lascino un segno.

 

 

Cosa significa per te “contemporaneità” in un contesto artistico, e come cerchi di tradurla nei tuoi progetti?
 

 

Per me la contemporaneità è proprio questa capacità di parlare al presente e alle nuove generazioni, senza dimenticare la qualità. Ogni progetto deve essere uno stimolo e un’occasione di confronto.

 

Siamo ormai alla dodicesima edizione di Geni Comuni. Ci racconti com’è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?
 

 

Come dicevo, è nato per offrire anche agli appassionati e agli artisti emergenti la possibilità di entrare in un museo e confrontarsi con professionisti. L’idea di mettere insieme generazioni e linguaggi diversi è stata vincente. La cosa più bella è che, se togli le didascalie dalle opere esposte, spesso non riesci a distinguere chi è il giovane e chi è il professionista, perché la qualità selezionata è sempre molto alta.

 

Geni Comuni è noto per la sua inclusività, mette insieme artisti emergenti e affermati, diversi linguaggi, esperienze e visioni. È una scelta estetica, etica o entrambe?
 

 

Direi entrambe. È una scelta che dà valore sia al progetto culturale sia al messaggio che trasmette: tutti meritano una possibilità e il confronto arricchisce tutti.

 

 

In merito a Geni Comuni, sin dalle prime edizioni collabori in modo continuativo con due figure fondamentali, il critico d’arte Roberto Sottile e la curatrice Mariateresa Buccieri. Che tipo di dialogo creativo si è instaurato tra voi tre, e in che modo questa sinergia contribuisce alla visione e allo sviluppo del progetto?
 

 

Con Mariateresa e Roberto il dialogo è ottimo. Pur essendo un evento nato da una mia idea, lascio a entrambi la libertà di proporre visioni e intuizioni. Questo arricchisce il progetto ogni anno. Io credo molto nel lavoro di squadra: da soli non si va lontano.

 

 

L’edizione autunnale 2025 di Geni Comuni è attualmente in corso. Puoi raccontarci qualcosa della sezione speciale della XIII edizione e delle novità che stai portando per il prossimo anno?
 

 

Posso solo dire che sto già lavorando a una sezione speciale della XIII edizione, cercando di portare sempre qualcosa di internazionale, come è stato nelle edizioni passate, e di creare nuove sinergie.

 

Qual è il contributo che Geni Comuni vuole offrire oggi al pubblico calabrese e non solo? Pensi che stia crescendo anche a livello nazionale?
 

 

È già cresciuto molto, sia a livello nazionale sia oltre. Ogni anno riceviamo richieste da tutta Italia e anche dall’estero, e sono felice di ospitare gratuitamente gli artisti, perché arricchiscono non solo l’evento ma anche il territorio. La mostra dura un mese e registra oltre 2000 visitatori: numeri che, in una città non turistica come la nostra, sono un motivo di orgoglio.

 

 

Cosa sogni per il futuro della scena culturale calabrese? E cosa vorresti continuare a fare tu, personalmente, per coltivarla?
 

 

Sogno che cambi l’idea che i musei siano luoghi statici. Sarebbe bello renderli più accoglienti, accessibili, soprattutto per chi non si sente “preparato” culturalmente. Bisogna coinvolgere i giovani, che spesso si tengono lontani dai luoghi di cultura. C’è tanto lavoro da fare, ma i risultati, come quelli di Geni Comuni, dimostrano che è possibile.

 

Hai altri progetti in cantiere oltre a Geni Comuni?
 

 

Certo. Da oltre vent’anni organizzo eventi di vario genere: spettacoli, concerti, teatro, locali. Geni Comuni è un progetto importante, ma non è l’unico.

 

 

Se dovessi dare un consiglio a un giovane che sogna di lavorare nel mondo dell’organizzazione culturale, cosa gli diresti?
 

 

Gli direi di partire dalla passione, senza scorciatoie. Serve impegno, serietà, capacità di ascolto e di collaborazione. Se mancano queste cose, difficilmente si arriva lontano.
Contatti
Email llpeventi@gmail.com
𝐋𝐮𝐢𝐠𝐢 𝐋𝐞 𝐏𝐢𝐚𝐧𝐞, laureato in Lettere e Filosofia, lavora presso il Museo del Presente di Rende ed è organizzatore di eventi.
Da oltre vent’anni è impegnato nell’ideazione e nella realizzazione di manifestazioni non solo culturali, ma a 360 gradi: eventi musicali, teatrali, festival e molto altro, ottenendo numerosi successi a livello regionale.
La sua attività è animata dalla passione per il lavoro e dal desiderio di valorizzare il territorio. Il suo punto di forza è la capacità di creare sinergie e fare rete con associazioni, enti locali, collaboratori, sponsor e altri partner.
La collaborazione, infatti, rappresenta per lui un valore fondamentale e il segreto per la perfetta riuscita di ogni evento.

 

 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

La sezione Interviste del nostro blog ospita periodicamente artisti, galleristi, critici d’arte, letterati e autorevoli operatori culturali, selezionati per la loro capacità di offrire contributi significativi alla valorizzazione e diffusione di temi rilevanti nel panorama artistico contemporaneo. 

 

 

 

 

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IntervisteSegnalazione Eventi

Ilaria Pisciottani racconta “15 – La Fotografia oltre l’umano”

 

Ilaria Pisciottani racconta 15 – La Fotografia oltre l’umano

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |29|Agosto|2025|

 

 

Si avvicina sempre di più l’inaugurazione di 15 – La Fotografia oltre l’umano, una mostra che ha richiesto un lungo e accurato lavoro di preparazione. 
Dall’individuazione della sede espositiva alla scelta di un critico di rilievo come Roberto Mutti, dalla decisione di realizzare stampe di alta qualità direttamente in loco per garantire uniformità ed evitare spedizioni agli artisti, fino alla progettazione di un catalogo che include non solo la critica e un’intervista inedita a Mutti, ma anche ampio spazio dedicato a ciascun fotografo e alle sue opere.
 

 

Un ruolo centrale è stato inoltre riservato all’attenta selezione degli artisti, invitati personalmente e scelti non attraverso un bando aperto, ma in virtù della coerenza della loro ricerca e della forza dei linguaggi proposti.

 

Al tempo stesso, grande attenzione è stata posta nel dare continuità al progetto, affinché non si esaurisca a Varese ma possa proseguire altrove, incontrando nuovi interlocutori e ampliando il proprio raggio d’azione. La mostra si trasformerà così in un ulteriore format originale, pensato per adattarsi ad un contesto diverso e per rinnovarsi in dialogo con luoghi, pubblici e comunità differenti.

 

Un percorso articolato e condiviso, reso possibile grazie alla proficua collaborazione di più professionalità, che ha condotto alla definizione di un progetto espositivo di alto livello. I quattordici artisti selezionati porteranno infatti un contributo prezioso e originale, arricchendo una mostra capace di distinguersi per qualità, visione e cura in ogni dettaglio.

 

Abbiamo avuto il piacere di toglierci qualche curiosità a riguardo. Trattandosi di un’esposizione dagli aspetti singolari e originali, ne abbiamo parlato direttamente con la sua ideatrice, la fotografa e curatrice Ilaria Pisciottani.

 

 
 
 
 
 
 
 

 

Da dove nasce l’idea di questa mostra e, in particolare, come si è sviluppata la scelta di lavorare sul concetto di transanimale?

 

 

 

Nasce dalla voglia di mostrare un intreccio vitale attraverso delle opere fotografiche, in cui l’umano non occupa il centro assoluto, ma si riconosce parte di una rete complessa e interconnessa.

 

 
 

 

Cosa significa per te interrogare, attraverso la fotografia, il rapporto tra umano, animale e natura?

 

 

 

Significa che la fotografia può diventare lo strumento ideale per aprire questo dialogo, perché ha il potere di sospendere il visibile e di suggerire visioni nuove in cui si possa apprezzare un uomo che ha imparato ad essere umano e che ha finalmente capito il suo ruolo etico e morale.

 

 
 

 

Con quale criterio hai scelto gli artisti che partecipano a questo progetto? Quali qualità cercavi nelle loro opere e nei loro linguaggi visivi?

 

 

 

Ho scelto gli artisti per l’originalità della visione e la coerenza del linguaggio. Ogni fotografia ha una voce autonoma, ma tutte concorrono a un’unica narrazione: dissolvere i confini, aprire varchi, restituire sensibilità ibride. Il numero 15 diventa simbolo di armonia dinamica, di un’energia che unisce forze naturali e volontà di trasformazione.

 

In primis volevo unire fotografi molto diversi tra loro e penso di esserci riuscita.

 

Proprio il tema della mostra mi ha permesso di scegliere delle opere che cogliessero in pieno il concetto di Transanimale pur mantenendo in pieno la cifra stilistica dei fotografi che le esporranno, esaltando l’ambito in cui loro amano esprimersi liberamente senza porre loro delle forzature.

 

Noto spesso nelle varie mostre collettive in cui si debba rispettare un tema non di tipo trasversale ci sia spesso il rischio che tutto si riduca ad dover osservare immagini molto simili tra loro, trovo ciò molto noioso e poco illuminante, sia per chi espone che per il visitatore che non sa più neppure distinguere un fotografo dall’altro.
I 14 fotografi selezionati : Matteo Abbondanza, Fabrizio Ceci, Michele Coccioli, Monica Cossu, Giuseppina Irene Groccia, Matteo Groppi, Sonia Loren, Alessio Marzola, Maria Cristina Pasotti, Ilaria Pisciottani,  Alessandro Rovelli, Christine Selzer, Louis Selzer, Pier Paolo Tralli e in basso a ds Carla Pugliano ( Artista e Gallerista ospitante)

 

 

 

 

 

 

Non tutti hanno colto subito la portata del progetto, qualcuno si è fermato davanti alla richiesta di un contributo economico. Chi ha deciso di partecipare, invece, ha riconosciuto qualcosa di diverso. Secondo te, cosa hanno compreso questi artisti e perché hanno scelto di esserci?

 

 

 

I fotografi che hanno accettato la mia proposta artistica hanno probabilmente il mio stesso desiderio di crescere, di confrontarsi con onestà ed impegno nel settore della fotografia, che investono con amore nella loro arte, che durante l’anno molto generosamente, dedicano parte della loro ricchezza per esporre in contesti d’arte veri, dove amano mettersi in gioco, che danno il benvenuto al confronto con altri fotografi di talento e all’approccio con un vero critico del settore e riconosciuto, non un pinco palla qualunque, non hanno paura di ricevere note antipatiche, ne sanno anzi apprezzare il lato costruttivo.

 

Ultimo aspetto da non sottovalutare e che questi fotografi hanno avuto il desiderio di mettersi alla prova con il grande formato, portare tre opere importanti che superano la barriera del più comune 40×30 spaventa molti.

 

Il grande formato, come sottolinei, rappresenta una sfida che non tutti i fotografi sono pronti ad affrontare. In questa mostra, però, diventa un elemento distintivo insieme alla presenza di un critico non convenzionale ma di riconosciuto prestigio come Roberto Mutti. Qual è, a tuo avviso, l’importanza di tali scelte e quali benefici concreti portano non solo alla qualità complessiva dell’esposizione, ma anche al percorso degli artisti che vi partecipano?

 

 

 

Ora ti dico quel che penso fuori dai denti ed in modo sincero, così di riflesso sono chiari gli aspetti che hai toccato nella tua domanda.

 

Ogni volta che andiamo a vedere mostre di grandi fotografi e troviamo il grande formato, tutti noi pensiamo con un po’ di sana invidia: “Ma che meraviglia, questa sì che è un’esposizione, certo anche io se potessi esporre con dei pannelli così grandi, in posti così belli, con le note critiche di un grande esperto, con un catalogo così di qualità, avrei un grande risultato e successo

 

Ma poi che succede però?

 

Succede che la maggior parte dei fotografi, nonostante questa voglia, torna sempre nella sua amata area di comfort ad esporre in piccoli formati, in posti non sempre consoni, con pseudo critici che non fanno altro che dirgli quanto sono bravi! Perché? Perché sono poco generosi con se stessi, sono arroganti, per di più sapendo anche di avere dei grandi limiti, le loro foto non permettono un ingrandimento, sono spesso in bassa risoluzione per via di errati salvataggi e post produzioni non professionali, per mancanza di studio e di voglia di crescere veramente.

 

Gli artisti che parteciperanno alla mostra 15 sono a mio parere dei fotografi pronti ed intraprendenti, onesti, generosi, sobri e umili che amano mettersi in gioco con impegno e che mostreranno ad un pubblico che ama l’arte le loro straordinarie opere in un formato che inizia ad essere importante, il 100×150.

 

Non vogliamo che il pubblico si limiti a spostare lo sguardo da un’opera all’altra. Vogliamo che si immerga, che stabilisca analogie, che si lasci provocare dalle immagini. La fotografia, qui, è un varco: chiede di essere attraversata e di generare nuove domande.

 

Così come ci porra’ delle nuove domande e sfide la presenza autorevole del critico Roberto Mutti che tutti noi stimiamo molto per la sua onestà intellettuale, preparazione e impegno profuso in tanti anni di onorata carriera creata con impegno e senso della realtà nel rispetto della fotografia come vero impegno civile ed etico del fotografo.

 

La mostra apre prospettive etiche, poetiche e civili.

 

“15 – La Fotografia oltre l’umano” diventa così un invito a fermarsi, osservare e soprattutto a ripensare il nostro posto nel mondo, lasciando che le immagini non siano soltanto oggetti da contemplare, ma strumenti di consapevolezza e di cambiamento.

 

Il tutto si svolgerà a Varese in un luogo suggestivo come la CathArt Gallery dell’artista Carla Pugliano, che ringrazio per la sua accoglienza squisita in questa sua galleria che è un vero tempio e rispecchia ciò che l’arte oggi rappresenta per noi: una catarsi profonda, una forma di liberazione emotiva che passa attraverso la creazione e la fruizione artistica.

 

Sono stata esauriente?!

 

 
 
 
 
Si, sei stata molto chiara ed esaustiva, e di questo ti ringrazio.  Passiamo ora a parlare del catalogo, parte importante di ogni mostra. In questo caso non è stato concepito come un semplice documento, ma come parte integrante della mostra. Alla luce del pensiero di Vasari, che sottolineava l’importanza di come un’opera viene tramandata e raccontata, che significato attribuisci a questo volume e quale riflessione personale porta con sé?
 

 

Esatto, il catalogo vuole essere proprio un’estensione della mostra stessa. Non un semplice documento, ma un’opera autonoma che offre spazio alle immagini, alle parole e alle riflessioni. Mi piace pensarlo come una sorta di eredità vasariana, in cui biografia, descrizione e critica si intrecciano. È pensato per continuare il dialogo anche fuori dalla galleria, raggiungendo un pubblico ampio.

 

Penso che quando si realizza un catalogo bisogna avere grande rispetto per gli artisti ma soprattutto nei confronti della storia dell’arte stessa.

 

È una traccia importante che segna il lavoro svolto degli artisti, se mal fatto diventa un vero insulto, si infangano loro ma anche la storia dell’arte stessa, il cammino dei padri fondatori dell’arte come il grande Vasari, che pur di lasciare traccia dell’arte rinascimentale dedicò con amore e fervore parte della sua vita nello svolgere questo importante compito di catalogare, archiviare gli artisti, le opere e le biografie, per poi tramandare tutto il lavoro svolto ai posteri.

 

Dopo di lui in pochi sono riusciti in questa missione, ci sono dei bei lavori ma meno grandiosi e più limitati come area geografica.

 

Giuseppina Irene Groccia è per me oggi una figura che potrebbe essere considerata una degna erede del Vasari.
Fin da subito ho colto in lei la giusta sensibilità artistica, nonché la preparazione e la professionalità necessarie per donare, ogni volta, raccolte ricche di valore e significato artistico. La conosco ormai da anni e sa sempre regalarmi grandi emozioni. La ringrazio sinceramente per questo impegno, perché lo porta avanti con forza e amore, senza mai cedere alla sola venalità che purtroppo caratterizza molti operatori del settore dell’arte contemporanea.

 

 

 

 

 

Se dovessi sintetizzare in una frase cosa rappresenta per te “15 – La Fotografia oltre l’umano”, quale immagine o pensiero sceglieresti?

 

 

 

Mi piacerebbe chiudere con un pensiero di Thomas Mann che ben descrive il nostro gruppo di lavoro

 

Un artista, un artista vero e non uno la cui professione borghese sia l’arte, uno predestinato e condannato, lo si riconosce tra mille, anche con uno sguardo non molto esperto… Nel suo viso si legge il senso dell’isolamento e dell’estraneità, la consapevolezza di essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e di smarrito nello stesso tempo
Per ulteriori dettagli e approfondimenti sulla mostra, vi invitiamo a consultare il comunicato stampa disponibile al seguente link
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

VARCARE IL VISIBILE – Incontro con Emanuele Attadia e la sua Pittura

VARCARE IL VISIBILE
Incontro con Emanuele Attadia e la sua Pittura

di Giuseppina Irene Groccia |25| Agosto |2025|

 

 

Forse solo chi sogna è davvero desto.” Questa convinzione sembra attraversare la pittura di chi, fin da bambino, ha vissuto in un contesto familiare colmo di stimoli creativi, tra musica, teatro e arti visive. Emanuele Attadia, nato a Rossano (CS), coltiva sin da giovane il disegno e la musica, per poi approdare con dedizione alla pittura, intraprendendo un percorso da autodidatta dopo la laurea in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio. 

La sua cifra pittorica si riconosce in un realismo quasi iperreale, che si carica di simboli e di tensione poetica, restituendo immagini capaci di aprire varchi di mistero e intimità e di dare voce a quell’intreccio di sogno, fragilità ed enigma che abita l’animo umano.

La sua tecnica, paziente e minuziosa, costruisce immagini in cui la luce si fa sostanza e il dettaglio non è mai semplice ornamento, ma veicolo di verità interiore. È una luce che non resta in superficie: scivola sulle forme, le accarezza, le modella come se volesse svelarne l’essenza segreta. In questa trama luminosa il visibile diventa un varco, un punto d’accesso al non detto, e ciò che appare agli occhi assume la forza di una rivelazione silenziosa. Ogni tela diventa così un luogo di ascolto e meditazione, non una semplice rappresentazione, ma uno spazio in cui lo sguardo si trasforma in esperienza interiore.

Negli anni l’artista ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi in ambito internazionale, esponendo in sedi di rilievo come il MEAM di Barcellona e partecipando a concorsi che ne hanno consacrato la qualità espressiva. Tra i traguardi più significativi, la selezione come finalista al 17° Art Renewal Center Salon Competition, che ha condotto il suo dipinto a essere incluso nel Lunar Codex, capsula del tempo destinata alla luna, un riconoscimento straordinario, che suggella la sua visione come parte di un orizzonte senza confini. 

È stato inoltre finalista nel concorso dedicato a Tiziano Vecellio e al Beautiful Bizarre Art Prize 2025, affermandosi come una delle voci più interessanti della pittura figurativa contemporanea.

Già presentato nella precedente edizione del nostro Magazine ContempoArte con il dipinto “L’inaccessibilità dei sogni”, Emanuele Attadia torna sulle nostre pagine con la forza discreta della sua visione. Le sue opere non cercano mai l’effetto immediato, ma invitano a soffermarsi, a rallentare lo sguardo, a lasciarsi sorprendere da ciò che emerge nel silenzio. La pittura diventa per lui un ponte tra mondi apparentemente lontani, il concreto e l’evanescente, il quotidiano e l’eterno. 

 

 

 

In questa intervista possiamo avvicinarci non solo all’artista, ma anche a chi, con dedizione e sensibilità, fa di ogni tela uno spazio di ascolto e introspezione.

 

 

 

Sei cresciuto in un ambiente familiare ricco di stimoli
artistici. Come ha influito questo contesto sulla tua scelta di diventare
pittore? 

 

Innanzitutto volevo ringraziarti, cara Giuseppina, per avermi chiesto
di rilasciare questa intervista per il tuo blog e il tuo fantastico Magazine ContempoArte. Per me è un
privilegio, oltre che un onore. Tornando alla tua domanda, confermo che gli
stimoli artistici, nella mia famiglia, non sono mai mancati. Sin da
piccolissimo sono stato abbagliato dai dipinti di mio padre Pietro. Nel
tentativo di emulare i suoi capolavori, ricordo di aver scarabocchiato
centinaia di album da disegno. Lui è anche un insegnante di musica, ora in
pensione, per cui sono stato introdotto anche nel magico mondo musicale. Mio
fratello Luca, poi, è un grande attore di cinema, TV e teatro e mia madre, col
suo infinito turbinio di idee, dà vita a numerose iniziative nella scuola dove
insegna. In un ambiente così dinamico, sono stato facilitato nel comprendere
quale fosse per me la via più bella da intraprendere. 

 

Avvolta dal’inquietudine – Olio su tela 40×50 – 2024

 



 

Dopo una laurea in
Ingegneria Ambientale, hai intrapreso un percorso da autodidatta nella pittura.
Cosa ti ha spinto a questo cambio di rotta così radicale? 

 

Ogni esperienza di
vita è un filo che tesse l’anima. Il mio percorso di studi mi ha aiutato ad
arricchirmi come persona e, perché no, ad avere anche una prospettiva analitica
nella concezione e nella realizzazione dei miei dipinti. Il cambio di rotta non
è stato un calcolo, ma un dono dell’imprevedibilità della vita, che mi ha
guidato verso la pittura come un rifugio sicuro. Essere autodidatta è stato un
atto di fiducia nella mia voce interiore, lungo un viaggio senza meta
apparente, illuminato dalla magia che può regalare il meraviglioso linguaggio
pittorico. 

 

Fructus Ventris – Olio su tela 60×70 -2024

 



 

L’opera in evidenza nell’ultima edizione del Magazine ContempoArte, “L’inaccessibilità
dei sogni”, sembra incarnare perfettamente questa visione. Ci racconti la sua
genesi? 

 

“L’inaccessibilità dei sogni” è nata da una percezione viscerale,
un’immagine nata da ispirazioni colte da più fonti ed intrecciatisi nella mia
mente. La donna davanti allo specchio, con la sua espressione disincantata, è
come se cercasse di afferrare un mondo irraggiungibile e, di spalle, invitasse
l’osservatore a condividere il suo desiderio. Accanto a lei, una donna
addormentata, con le gambe che si perdono nello specchio, riesce ad abitare
quella dimensione onirica preclusa alla figura sveglia. Ogni essere umano è
sempre stato affascinato dal mondo dei sogni e dall’influenza che questo
esercita sull’esistenza, chiedendosi dove sia il punto di contatto tra sogno e
realtà e quale sia la vera illusione durante tutta la vita. E se chi conduce
un’esistenza molto concreta e materiale fosse in realtà colui che dorme? I
nostri sogni sono la porta del nostro universo interiore, in cui risiede la
parte vera e autentica di ogni individuo. Trascurarli, non dando importanza
alla nostra dimensione spirituale, significa dormire per tutta la vita,
escludendo inevitabilmente dalla stessa tutto ciò che potrebbe velarla di magia.

 

 



 

 

 

 

L’opera è stata selezionata come finalista all’Art Renewal Center Salon
Competition ed è stata inclusa nel Lunar Codex, una capsula del tempo destinata
alla luna. Cosa ha rappresentato per te questo riconoscimento? 

 

Quando ho saputo
che “L’inaccessibilità dei sogni” è stata selezionata come finalista dell’ArtRenewal Center Salon Competition, il più grande concorso al mondo sull’arte
figurativa contemporanea, ed inlcusa nel Lunar Codex, ovviamente ho provato
un’emozione immensa, indescrivibile. Questo incredibile riconoscimento mi ha
donato nuova energia per proseguire nel mio percorso. Non è cosa di 
tutti i giorni vedere un dipinto viaggiare verso le stelle.
È come se quella donna davanti allo specchio, con il suo desiderio
inafferrabile, portasse un frammento della mia anima nell’infinito. La tua pittura
si colloca nell’ambito figurativo, con tratti che sfiorano l’iperrealismo. 

 

 

L’inaccessibilità dei sogni – Olio su tela 70×90 – 2024

 

 

 

Cosa
ti ha spinto a scegliere proprio questo linguaggio espressivo, invece di
orientarti verso forme più astratte o concettuali? 

 

Ogni dipinto è un’illusione
ottica, un equilibrio tra realtà e astrazione, dove la figura diventa un ponte
per l’anima. Il figurativo parla direttamente al cuore, narrando e celebrando
l’umano in modo potente ed eterno. L’idea di esaltare l’arte astratta o
concettuale a prescindere, a discapito di quella rappresentativa, come avviene
in molti contesti, soprattutto italiani, mi sembra limitante. È necessario che
dietro ogni forma espressiva vi sia una continua e fruttuosa ricerca ed una
profonda conoscenza della materia affinchè il risultato non sia sterile o
prettamente commerciale. Dipingere è un linguaggio, e come tale va affinato per
poter esprimere in maniera potente ed efficace il messaggio che si aspira a
veicolare. 

 

Le silenziose voci dell’anima – Olio su tela 70×100 – 2021

 



 

Il tuo stile pittorico si distingue per un forte contenuto simbolico
e introspettivo. Quali sono i temi che ti guidano? 

 

Attraverso la pittura miro
ad aprire una finestra su un universo parallelo, dove istinto e razionalità,
materia e anima si intrecciano profondamente. Cerco di affinare il linguaggio
pittorico per raccontare, in maniera sempre più fedele, ciò che vedo nel cuore.
I miei temi nascono da ciò che mi faccia tremare l’anima, come la tensione tra
realtà e sogno e la fragilità dell’essere umano. Ogni dipinto punta ad essere
un dialogo intimo che si manifesta unicamente sulla tela, un mondo magico che
inviti l’osservatore a perdersi e ritrovarsi. Seguo l’ispirazione ovunque mi
porti, lasciando che ogni pennellata trasformi il visibile in un’eco
dell’invisibile, un riflesso dell’anima che parla a chi sa ascoltare. 

 

Ecce Haereditas Domini – Olio su tela 70×80 – 2024

 



 

Guardando
al passato, quali sono gli artisti che più ti hanno ispirato, sia per la loro
tecnica che per la profondità del loro messaggio? 

 

La mia visione pittorica è
stata sicuramente influenzata da tutti i maestri in grado di dipingere
l’autentica essenza dell’essere umano e della natura. Caravaggio, con il suo
chiaroscuro drammatico, mi ha insegnato a scolpire l’emozione con la luce.
Antonio Mancini e John Singer Sargent mi hanno affascinato per la loro
pennellata vibrante. I preraffaelliti, come Waterhouse, Millais e Cowper mi
hanno incantato con la loro poesia visiva. Ma mi vengono in mente anche i
maestri della scuola russa, tipo Ilya Repin e Shishkin così come i tantissimi
pittori contemporanei che ammiro profondamente. Sono tutti fonte di ispirazione
per me. Poi ci sono opere che singolarmente mi colpiscono dritto al cuore come
“Dopo la prima comunione” di Carl Frithjof Smith, col suo toccante messaggio
nascosto. E potrei fare decine di esempi come questo. Tendenzialmente starei
ore di fronte ad un dipinto che mi parla nel profondo, studiandone ogni singola
pennellata. 

 

Struggente nostalgia (dettaglio) – Olio su pannello 20×30 – 2023

 



 

Hai praticato anche la pittura su ceramica sopra smalto. In che
modo questa esperienza ha influenzato la tua tecnica pittorica? 

 

È stato un
periodo fondamentale per permettermi di riprendere costantemente contatto con
la pittura, spingendomi a capire che non avrei più potuto farne a meno.

 

Lavorando in paradiso – Olio su pannello – 2020

 



 

Quanto è importante per te il legame con la Calabria, terra
in cui sei nato e cresciuto? 

 

Nel bene e nel male, il contesto in cui cresciamo
ci segna: sta poi alla sensibilità ed alla personalità del singolo individuo
scegliere cosa valorizzare di tutto ciò che si presenta sul suo cammino. Con
tutte le sue contraddizioni, la Calabria è una terra unica, un mosaico di
bellezza selvaggia e storia antica che ha incantato tantissimi artisti nel
corso dei secoli. È nei suoi paesaggi incantati, nei suoi silenzi capaci di
parlare all’anima che trovo l’ispirazione per i miei dipinti. Non posso che
essere legato a questa terra, che mi ha donato radici forti e ali per sognare,
rendendomi la persona che sono oggi. 

 

Prigioniero dei tormenti – Olio su tela 60×80 – 2025

 



 

Nel tuo percorso hai ricevuto
riconoscimenti in importanti concorsi internazionali e hai esposto in sedi
prestigiose come il MEAM di Barcellona. Cosa ti ha insegnato questa esperienza
internazionale? 

 

Ogni forma di esperienza a questi livelli è estremamente
positiva: confrontarsi con maestri di livello mondiale è arricchente sia dal
punto di vista artistico che da quello umano. C’è tanto da apprendere, da ogni
cultura e da ogni approccio pittorico e soprattutto da come all’estero siano in
grado di celebrare l’arte rappresentativa quale linguaggio universale capace di
unire talenti provenienti da ogni angolo del pianeta. Istituzioni come il MEAM,
ARC, Artelibre
e pubblicazioni come Beautiful Bizarre Magazine non sono solo
piattaforme, ma veri e propri catalizzatori di un rinascimento contemporaneo,
dove il dialogo tra artisti crea una sinergia unica, capace di ispirare e
spingere i confini della creatività. 

 

L’Artista Emanuele Attadia al lavoro

 



 

Hai progetti futuri già in cantiere? 

 

Ho
tanti progetti in lavorazione, ognuno con una sua storia da raccontare. Ciò che
li unisce è il desiderio di dare forma a ciò che vedo e sento nel mio cuore,
trasformando emozioni e visioni in opere che parlino in modo autentico. Ogni
nuovo lavoro è un passo in questo viaggio, un modo per esplorare e condividere
la bellezza che trovo intorno a me. 

 

Ephemeros – Olio su tela 70×90 – 2025

 

 

Infine, cosa diresti a un artista che vuole
intraprendere la strada della pittura figurativa oggi, in un mondo dominato da
immagini digitali e velocità? 

 

A un artista che sente il richiamo della pittura figurativa
direi: segui questa strada solo se la senti ardere dentro di te, come una
missione, una vocazione profonda, quasi una forma di preghiera. Dipingere non è
solo tecnica: è un atto di verità, un dialogo tra l’anima ed il mondo.
Dipingere attraverso una ricerca che passi attraverso l’arte figurativa può
diventare una chiave per aprire tante porte. 
In un’epoca dominata dal culto
della velocità e dalle immagini digitali, l’arte figurativa ha un potere unico:
rallentare il tempo, condurre verso l’essenza delle cose, toccare corde che il
digitale non può raggiungere. Ma se il tuo cuore non vibra per questa ricerca,
se vedi l’arte al pari di un’immagine fugace, forse è meglio guardare altrove.

 

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

 

Sito Web Emanuele Attadia

Email info@emanueleattadia.com

Facebook Page Emanuele Attadia Art

Instagram emanuele_attadia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato a Rossano, Emanuele Attadia cresce in
un ambiente familiare artisticamente
molto dinamico: si avvicina attivamente alla musica ed al disegno sin dalla più
tenera
età, coltivandone l’interesse durante il suo percorso di studi. Consegue la
maturità
scientifica e quindi si laurea in Ingegneria per l’Ambiente ed il Territorio
presso
l’Università della Calabria. Per un anno pratica la pittura su ceramica sopra
smalto,
affinando la tecnica autonomamente. Successivamente, dal settembre 2014, si
dedica
con continuità e da autodidatta alla sua vera passione: la pittura.

Nel 2016 gli viene conferito il “Diploma di Merito” del Premio
della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in occasione della
XI Biennale di Arte Internazionale di Roma.

Nel 2020 è finalista del concorso internazionale di pittura
avente come tema unico l’opera di Richard Wagner “Lohengrin”, a cura del Club
Wagner, della “Fundacio de les Arts i els Artistes” e del prestigioso Museo
MEAM di Barcellona, dove espone insieme alle altre opere finaliste.

Nel 2023 fa parte della terza edizione della mostra
internazionale “The MEAM Hall”, presso il Museo MEAM di Barcellona.

Nel 2024 è finalista del Concorso Internazionale del Ritratto
dedicato al grande pittore rinascimentale Tiziano Vecellio, a cura dello Sheng
Xin Yuart Institute. Prende parte alla relativa mostra tenutasi nella
meravigliosa cornice di Forte Monte Ricco, a Pieve di Cadore (BL), luogo natìo
di Tiziano.  

Nel 2024 è finalista del 17esimo Art Renewal Center Salon
Competition, il più grande e prestigioso concorso al mondo legato al Realismo
Contemporaneo. Il dipinto è incluso nel Lunar Codex, una serie di capsule del
tempo, contenenti il lavoro di 7000 creativi, compresi  i finalisti del Concorso ARC, le quali
verranno lanciate sulla luna in tre missioni correlate alla NASA. Sarà il primo
significativo posizionamento di arte contemporanea sulla luna in 50 anni. 

Nel 2025 è finalista presso il 2025 Beautiful Bizarre Art Prize,
nella sezione Ryamar Paintings Award, uno dei più prestigiosi concorsi al mondo
legati all’arte figurativa contemporanea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Ribaltare la Prospettiva – La Fotografia secondo Robbie McIntosh

 

 

Ribaltare la Prospettiva

 

La Fotografia secondo Robbie McIntosh

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |20|Agosto |2025|

 

 

Dietro il nome d’arte che evoca lontane sonorità nordiche, si cela un fotografo che a Napoli ha trovato un campo d’azione privilegiato, pur senza rivendicare un legame di appartenenza. 

Nella traiettoria artistica di Robbie McIntosh, classe 1977, la fotografia non appare mai come un mestiere da esercitare, né come un semplice mezzo di espressione. È piuttosto una missione dello sguardo, un impegno continuo a interrogare la realtà, a decifrare l’umano nelle sue forme più spontanee e contraddittorie. I suoi scatti sembrano far parte di una disciplina interiore, un percorso di indagine che tiene insieme estetica e antropologia, poesia e documento. In questo senso, il suo lavoro si pone come una ricerca instancabile, non la rappresentazione di un mondo osservato da lontano, ma la costruzione di un dialogo ravvicinato con la vita stessa, nelle sue verità fragili e insieme potenti.

Riservato, poco incline alla sovraesposizione personale, McIntosh lascia che siano le sue immagini a parlare per lui: corpi comuni, non scolpiti, colti sulle spiagge di Napoli o in altri contesti urbani, sempre restituiti con dignità e verità. Nel tempo ha costruito uno stile personale che ricorda l’occhio corrosivo e affettuoso di Martin Parr, ma con una cifra tutta sua, uno sguardo insieme crudo e compassionevole, che si nutre di contraddizioni.

Autore di libri già fondamentali come On The Beach e Scampia Anno Zero, premiato a livello nazionale e internazionale, McIntosh è un fotografo che riesce a trasformare il quotidiano in racconto universale. Dietro la sua apparente ritrosia si cela un pensiero lucido, netto, mai banale, che rende ogni sua affermazione tanto precisa quanto spiazzante.

Le sue risposte alle nostre domande portano l’inconfondibile segno del suo stile fotografico. Nelle parole asciutte e precise di Robbie si coglie la stessa tensione che attraversa le sue immagini… un equilibrio fragile tra silenzio e rivelazione. Più che semplici risposte, esse ribaltano spesso la prospettiva, con un linguaggio netto, diretto, che alterna rigore e improvvisi slanci poetici. Le sue parole non concedono appigli facili ma lasciano intravedere, senza concedere del tutto, aprendo varchi inattesi che spingono chi ascolta a riconsiderare le proprie domande. E questo aspetto riflette perfettamente le caratteristiche delle sue fotografie.

La sua attenta osservazione del mondo è capace di cogliere la bellezza nelle imperfezioni, la forza nei gesti quotidiani, la poesia nascosta nei corpi e negli spazi che attraversa. La fotografia per lui non è mai separata dalla vita, essa è un modo di percepire, interrogare e restituire l’umanità nella sua interezza. Con lui, fotografia e vita coincidono, perché, come ama ripetere, “tutto è politico. Il corpo è uno strumento politico, ogni cellula è un manifesto ideologico. Tutto è bellezza. Bellezza è verità”.

 

 

 



 

 

 

Lasciamo ora a lui stesso la parola, per scoprire direttamente come osserva, interpreta e racconta il mondo attraverso la fotografia

 

 

Robbie McIntosh, il tuo nome d’arte, evoca un suono nordico. Eppure il tuo legame con Napoli sembra intenso, visto che vivi e lavori qui da anni. Come vivi la città e in che misura senti di avere radici o di appartenere a un luogo?

 

Il mio legame con Napoli è molto meno stretto
di quanto si possa pensare. Non sono neppure nato qui, e non ho neppure
trascorso i primi 8 anni di vita, che sono tra i più formativi in assoluto,
quelli che determinano le possibili traiettorie dell’esistenza umana. Non penso
di avere radici, in senso assoluto. Attecchisco ovunque, e di principio sono
internazionalista. I confini mi stanno stretti, le barriere vanno abbattute, e
i nazionalismi portano solo guerre e odio.

 

Quando è nata la tua passione per la fotografia? C’è stato
un momento preciso in cui hai capito che avresti voluto farlo sul serio? E
quali autori, fotografi o meno, ti hanno ispirato lungo il cammino?

 

Ho sempre preso la fotografia molto
sul serio, anche quando non ero un fotografo professionista. Ogni espressione
dell’anima va presa con estrema serietà, perchè si sta maneggiando la vera
essenza dell’uomo. Gli autori, in assoluto, oltre ogni categoria, che più mi
hanno ispirato (per certi versi anche traumatizzato) sono Martin Scorsese,
Hunter S. Thompson, Ciprì
e Maresco, Francois Truffaut, Robert Hunter, Gregory
Corso
, per citarne solo alcuni.

Provai ad esprimermi con la musica,
ma non avevo né il talento e neppure la disciplina per perseguire quella strada
con soddisfazione (intesa come capacità di realizzare quello che sentivo
interiormente).

 

 

 

Nei tuoi canali e progetti fotografici è raro trovare un tuo
autoritratto o un’immagine che ti ritragga. È una scelta deliberata quella di
restare fuori campo? In che modo questa “assenza” visiva si collega alla tua
idea di fotografo come osservatore silenzioso e discreto?

 

Non sono mai stato particolarmente a
mio agio dall’altra parte dell’obiettivo, non mi piace la sovraesposizione
della propria immagine, detesto il presenzialismo, soprattutto quello inutile.

Sono già presente in tutte le
fotografie che faccio, è come se in realtà l’obiettivo sia perennemente puntato
verso me.

Non sposo in modo ortodosso l’idea
del fotografo come osservatore silenzioso e discreto, nella maniera bressoniana
del termine. Secondo me è un gioco di equilibri, di esserci e non esserci, di
vuoti e pieni, di suoni e silenzi. Di armonia e senso generale dell’estetica.
E’ necessario gettare dei sassi per smuovere le acque inerti.

 

 

 

Tra i tuoi lavori, mi aveva colpito in particolare la serie sulle statue di Cristo a mani aperte. Cosa ti aveva spinto a soffermarti su quella ripetizione sacra e urbana, e cosa cercavi di raccontare attraverso quelle immagini?

Quella storia delle statue religiose
nacque forse per caso, in un momento di stasi. La religione codificata e
strutturata dall’uomo mi ha sempre messo a disagio. Non condivido il senso del
peccato imposto dalla morale cristiana. La religione mi è stata imposta, e ne
sono scappato presto. Il sacro è in ogni luogo, non solo in quelli preposti al
culto. E’ dentro l’uomo.

 

 

 

“On The Beach” ha segnato il tuo punto di svolta. Cosa ha
trasformato una serie di fotografie balneari in un progetto esistenziale lungo
13 anni? Cos’hai scoperto in quelle persone che ti ha fatto restare così tanto
tempo sulla spiaggia?

 

Non è stato il punto di svolta, è
stato il punto di inizio, un progetto nato nel 2012. Volevo recuperare la memoria, forse la mia. I pezzi
di qualcosa di mai vissuto personalmente in modo razionale, ma suggestioni di
bambino. Gli odori e i suoni. Salvare quello che c’è da salvare, e secondo me è
molto. Abbattere il pregiudizio sociale, il classismo e lo snobismo. Senza
giudizio, preferisco esprimermi ad un livello emotivo. E’ quello che mi passa
davanti. La città è cambiata parecchio, e continua a farlo. E’ come il
neverending tour. E’ come un treno, o un fiume, che continua a scorrere.

 

 

 

Hai detto che “tutti dovrebbero sentirsi a proprio agio con
un costume addosso”. È una frase potentissima. Fotografare i corpi reali per te
è solo un gesto estetico o anche politico?

 

E’ un gesto antifascista. On The
Beach è un lavoro più politico di quanto possa apparire ad uno sguardo
superficiale.

Tutto è politico.

Il corpo è uno strumento politico,
ogni cellula è un manifesto ideologico.

Tutto è bellezza.

Bellezza è verità.

 

 

 

Lavori esclusivamente in analogico. In un mondo dominato dal
digitale e dall’istantaneità, perché questa scelta così netta? Cosa cambia,
nella testa, nel cuore e nel corpo, quando si fotografa con la pellicola?

 

Preferisco che le fotografie
conservino un supporto fisico, un negativo nella fattispecie. Mi piace
l’esperienza di camera oscura, la ritualità, il pensiero che il minimo errore
si debba pagare. E’ necessario avere molta disciplina oltre al talento. Il
cosiddetto background fotografico, oltre alla valenza artistica.

La pellicola ha un limite, e questo
può aiutare nell’evitare di scattare centinaia o addirittura migliaia di
fotografie al giorno.

 

 

 

In “On The Beach” sembri passare da un punto di vista
antropologico a uno poetico, da ironico a struggente. Come scegli cosa
mostrare? E cosa invece decidi deliberatamente di non fotografare?

 

E’ solo una questione di coerenza
col proprio sentire, istante dopo istante. In certi giorni sono prolisso, in
altri muto.

 


 

Il tuo approccio è molto ravvicinato, quasi fisico, eppure
dici che un bravo fotografo deve restare “un fantasma danzante”. Come si
mantiene la giusta distanza quando ci si affeziona così tanto ai propri
soggetti?

 

E’ lo sforzo maggiore. Restare sul
bordo del cerchio della fiducia. Se si entra troppo, si perde l’integrità
artistica. Se si è troppo fuori, non si riesce a scavare in profondità.

 

 

 

Le tue recenti fotografie dedicate a feste private e
performer burlesque sembrano un cambio di atmosfera. Che legame c’è tra questi
ambienti notturni e le tue spiagge diurne? Cosa cerchi, oggi, nei corpi e nei
volti di quelle serate?

 

Era semplicemente una serie di
fotografie figlie di un periodo di noia e di assenza di altri stimoli. E’ stato
interessante osservare le due facce della luna. L’uomo e il performer. Dove
finisce l’autenticità e dove inizia la fiction.

 

 

 

Come vivi il fatto che molti dei tuoi soggetti oggi ti
riconoscono, ti chiedono le foto, quasi “recitano” per te? Riesci ancora a
catturare l’autenticità o è cambiata anche la tua fotografia?

 

E’ un aspetto che mi diverte, ci
gioco sopra e lo uso per prendermi in giro, destrutturare e riscrivere qualcosa
di già fatto e visto.

 

 

 

Stai lavorando su Scampia. Che approccio usi per raccontare
un luogo così carico di pregiudizi, narrazioni già scritte e dolore? Come eviti
il rischio di estetizzare il disagio?

 

E’ un lavoro finito, a causa della
tragedia nella Vela Celeste nel Luglio 2024, che ha accelerato lo sgombero di
quella e delle altre 2 vele superstiti, e la demolizione della Vela Gialla (di
fatto conclusa pochi mesi fa) e di quella Rossa.

Volevo semplicemente guardare con i
miei occhi, senza pregiudizi. Senza mai aver letto una certa letteratura o
visto determinate fiction.

Avrei voluto continuare il mio
racconto, ma il destino così ha voluto.

Spero solo che le persone innocenti
trovino finalmente pace e dignità.

Estetica ed etica per me coincidono.

 

 

 

Negli ultimi anni hai ricevuto premi importanti e
riconoscimenti anche internazionali. Che rapporto hai con tutto questo? Ti senti
cambiato nel modo di fotografare da quando il tuo lavoro è diventato così
seguito e apprezzato?

 

Certamente mi soddisfa, e mi spinge
ad andare avanti con maggiore intensità, ma senza forzature.

Mi diverte anche, per certi versi. E
mi divertono anche certe dinamiche che osservo o che mi rapportano.

Ma essenzialmente non sono mai
cambiato.

 

Se un giorno dovessi smettere di fotografare le spiagge,
cosa ti mancherebbe di più? E cosa credi che mancherebbe a noi che le abbiamo
guardate attraverso i tuoi occhi?

 

E’ una evenienza che non rientra nei
miei piani.

 

Guardando avanti, quali saranno i tuoi prossimi progetti?
C’è un ambito su cui desideri lavorare da qui al prossimo libro, una nuova
serie fotografica o un tema che ti affascina?

 

Ho delle cose in mente, e sto già
lavorando ad altre, sotto traccia.

Ma preferisco mantenere l’assoluto
riserbo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

Sito Web Robbie McIntosh Photographer 

Instagram robbie_mcintosh 

 

 

 

 

 

 

 

 

Robbie McIntosh

Fotografo professionista nato nel 1977, vive e lavora a Napoli. Al centro della sua ricerca c’è l’umanità, osservata nelle sue unicità e contraddizioni, tra fragilità e forza, silenzio e rivelazione.

Ha pubblicato due libri: On The Beach (2012, giunto alla terza edizione), progetto che segna un punto di svolta nel suo percorso, e Scampia Anno Zero (2023), vincitore del Corigliano Calabro Book Award 2024. Le sue opere, caratterizzate da un linguaggio netto ed essenziale, alternano rigore analitico e improvvisi slanci poetici, mantenendo sempre una tensione tra ciò che svela e ciò che trattiene.

Parallelamente alla produzione editoriale, ha condotto workshop in diversi contesti internazionali, portando avanti una visione della fotografia come missione dello sguardo, strumento critico e politico di indagine sulla realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Accompagnare lo sguardo – Roberto Mutti e l’arte di leggere la fotografia

Accompagnare lo sguardo


Roberto Mutti e l’arte di leggere la fotografia

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |18| Agosto |2025|

 

 

 

Roberto Mutti è uno dei principali storici e critici della fotografia in Italia, attualmente docente presso l’Accademia del Teatro alla Scala e l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano, nonché giornalista pubblicista per la Repubblica fin dal 1980. Curatore indipendente e organizzatore di prestigiosi festival e mostre, ha firmato oltre 200 tra saggi, monografie e cataloghi, consolidando una voce autorevole nel panorama culturale nazionale.

La filosofia è stata per lui una lente attraverso cui guardare la fotografia, non come esercizio di forma ma come linguaggio vivo, capace di incidere sulla mente e sulla collettivitàNel suo lungo percorso ha condiviso esperienze con grandi maestri, dal realismo poetico di Kertész alla forza visionaria di Giacomelli, fino alla leggerezza polaroid di Galimberti, ognuno capace, a suo modo, di segnare un punto di svolta. Ma lo stesso sguardo attento e partecipe Mutti lo rivolge a chi muove i primi passi, convinto che il talento possa rivelarsi nei modi più inattesi e fragili. È proprio in quei momenti che il critico deve saper ascoltare, offrendo lo spazio e la cura necessari perché un’intuizione ancora incerta trovi la propria forma.

Accanto alla scrittura e alla curatela, ha dato vita a progetti collettivi come Diorama Progetti Fotografici, nato dal desiderio di costruire uno spazio libero, aperto al confronto e alla ricerca, capace di dare voce a linguaggi laterali e ad autori che spesso restano nell’ombra. La sua riflessione non si ferma mai alla teoria astratta, essa cerca sempre un contatto diretto con gli artisti, con le loro immagini, con chi le osserva. È in questo dialogo continuo che Mutti mantiene uno sguardo limpido e indipendente, attento tanto alle derive del sistema dell’arte quanto alle trasformazioni profonde portate dall’era digitale.

 

 

 

 

 

Nel corso di questa conversazione, ci offre un’articolata riflessione sul linguaggio fotografico, ripercorrendone le trasformazioni e interrogandosi sul valore critico che l’immagine assume nel contesto culturale e sociale contemporaneo.

 

 

Lei insegna fotografia in contesti molto diversi, dall’Istituto Italiano di Fotografia all’Accademia del Teatro alla Scala. Come cambia l’approccio al linguaggio fotografico tra questi ambienti così diversi?

 

Non cambia molto anche se, ovviamente, l’Accademia ha un occhio di riguardo per il mondo dello spettacolo mentre l’Istituto è aperto a più diverse visioni. Nel mio insegnamento, tuttavia, inserisco elementi e riflessioni comuni nella convinzione che in fotografia esistono sì specializzazioni ma nella preparazione che deve dare una scuola queste barriere non esistono. Questo approccio comune poi lo devo declinare in modo diverso perché in Accademia lavoro con classi di pochi elementi mentre in Istituto sono molto più numerosi e quindi bisogna mettere in atto modalità differenti.   

 

Nel suo lavoro curatoriale si nota una grande attenzione al valore narrativo delle immagini. Come si costruisce oggi una mostra che sappia parlare sia all’appassionato che al grande pubblico?

 

Ogni fotografia possiede un valore narrativo che non appartiene, come si crede, solo al reportage (che oggi viene colpevolmente definito con il buffo neologismo storytelling) ma si può e direi si deve trovare anche nello still life, nel ritratto e soprattutto nella ricerca. Personalmente non ho nessun interesse per il cosiddetto grande pubblico che peraltro in genere ricambia il disinteresse per la fotografia salvo poche lodevoli eccezioni. Le mostre non si costruiscono per il pubblico ma per mettere in luce il lavoro di uno o più autori e lo si deve fare facendosi guidare da un solo elemento che è la sincerità ma non è detto che questa paghi. Faccio un esempio per essere chiaro: la più recente e purtroppo ultima mostra di Salgado sull’Amazzonia è stata visitata da moltissime persone che ne hanno apprezzato la bellezza ma molto meno il messaggio politico di allarme su quanto stiamo facendo al pianeta. Non parliamo poi dei tanti addetti ai lavori che hanno parlato di una deriva estetizzante dimostrando di essere incapaci di ascoltare e vedere, presi come sono dal far sentire i loro non richiesti giudizi.     

 

Lei ha spesso sottolineato l’importanza di accogliere e indirizzare i giovani fotografi. Qual è l’errore più comune che nota nei progetti emergenti, e cosa cerca invece in un lavoro davvero promettente?

 

Non mi sento di parlare in generale di una categoria così indefinita come quella dei “giovani fotografi” però se accetta un giudizio necessariamente generico che quindi esclude alcune pregevoli eccezioni, mi sembra che esista un certo diffuso conformismo. È come se gli autori, invece di cercare un personale linguaggio, si impegnassero a seguire quello che in una certa fase riscuote un generale interesse. Basta pensare con quanta superficialità ci si muove nel contesto della cosiddetta street photography senza una vera riflessione sul suo vero significato ontologico. In un lavoro che mi viene presentato cerco l’originalità della ricerca, la consapevolezza critica che la deve accompagnare e, ancora una volta, la sincerità o se preferisce l’autenticità. Si capisce subito se l’autrice o l’autore conosce la storia della fotografia, se ha studiato il passato non per ancorarvici ma per comprenderne la lezione e costruire così il suo percorso.  

 

 

    

Scrive di fotografia da oltre 40 anni: com’è cambiato il ruolo del critico fotografico nell’epoca digitale, dove tutti si sentono autori e recensori?

 

Tutti hanno diritto di sentirsi autori, recensori, critici e non importa che lo facciano scrivendo su un giornale o sul proprio profilo instagram. Ma per farlo non ci si può improvvisare, bisogna avere l’umiltà di studiare, approfondire e soprattutto ascoltare. Comunque, di superficiali e presuntuosi ce ne sono sempre stati, la novità è che il digitale ha moltiplicato le opportunità: se si è bravi e si ha qualcosa da dire si può far sentire la propria voce. La democrazia ha il limite di regalare spazio anche a chi non lo sa usare ma anche il pregio di aprirsi a chi lo merita.   

 

Avendo studiato filosofia, ha mai sentito che questa formazione abbia influenzato il suo modo di leggere, interpretare e insegnare la fotografia?

 

Assolutamente sì. Rispetto ai miei colleghi che provengono da studi artistici, ho constatato di avere un approccio totalmente diverso, non necessariamente migliore ma sicuramente più attento a una visione che include l’estetica ma intende guardare più lontano. Alfred Stiglitz, d’altra parte, diceva che allestire una mostra è come scrivere un saggio di filosofia e a questa massima mi sono spesso affidato, per lo meno quando il tema e gli autori lo suggerivano. La filosofia per me non è stata solo una rivelazione e uno studio molto appassionato ma soprattutto continua ad essere una guida per la vita di ogni giorno e, inevitabilmente, un filtro critico per affrontare anche la fotografia. 

 

 

 

Diorama nasce come spazio di progettualità e riflessione sulla fotografia. Qual è la visione che guida questo progetto e in che modo si inserisce, con la sua identità, nel panorama delle tante realtà curatoriali con cui lei ha collaborato nel tempo?

 

Diorama Progetti Fotografici nasce da alcune esigenze sia professionali che umane, perché con Cristina Comelli e mio fratello Pierluigi abbiamo avuto l’intenzione di rendere ancor più solido il rapporto di collaborazione anche amicale che ci lega da molti anni soprattutto nell’organizzazione del Milano Photofestival. Condividiamo l’idea di proporre la fotografia come ambito di una riflessione critica sul presente, di ampliare la conoscenza degli autori del passato, di dare spazio a quelle realtà autoriali che hanno difficoltà a farsi notare nel panorama fotografico contemporaneo. Questo ci consente una libertà di azione che rappresenta per noi un bene prezioso.   

 

Nel corso della sua attività ha curato autori estremamente diversi tra loro, da André Kertész a Maurizio Galimberti, da Mario Giacomelli a Fulvio Roiter. Cosa cambia — e cosa, invece, resta invariato — nell’approccio curatoriale quando ci si confronta con linguaggi così eterogenei?

 

Ogni volta che si lavora con o su un autore bisogna entrare nel suo mondo. Tempo fa una fotografa mi ha fatto un complimento di cui vado fiero: ha detto che prestavo la stessa attenzione a un autore importante come a un esordiente e che non cambiavo che il mio interlocutore era Gianni Berengo Gardin o una ragazza che mi sottoponeva il suo primo portfolio. Bisogna avere pazienza e dedicare molto tempo se si vuole ottenere un risultato soddisfacente: per la personale di Kertész ho studiato a lungo per realizzare un percorso espositivo originale ma che rispondesse anche al suo spirito. Diverso è quando ci si può confrontare dal vivo con i fotografi: con Fulvio Roiter abbiamo passato lunghe giornate a Venezia a discutere, raccontare, confrontarci, perfino a bisticciare ma il volume che ho scritto per Bruno Mondadori mi ha reso una sorta di suo biografo. Con Enrico Cattaneo e Virgilio Carnisio ho realizzato così tante mostre e libri da diventare un loro critico di riferimento. Con Maurizio Galimberti, per fare un altro esempio, ho un rapporto di amicizia che ci lega fin da quado era un esordiente quasi sconosciuto e lì è emersa la mia capacità di riconoscere il talento soprattutto quando ad altri sfugge.  Per realizzare alla galleria Belvedere  la prima mostra milanese di Mario Dondero e il relativo catalogo, sono stato a casa sua a Fermo, abbiamo passato assieme giornate intere a parlare di politica, di cibo, di calcio perché era tifoso del Genoa, di Cuba, di arte, delle Guerra Civile in Spagna, di Parigi dove ogni tanto ci incontravamo, di donne e, nei ritagli di tempo, abbiamo scelto le fotografie da esporre. Il giorno dell’inaugurazione le abbiamo vendute tutte. Il critico deve sì rimanere sé stesso ma anche essere plastico per comprendere la poetica di chi gli sta di fronte come pure le sue manie: Mario De Biasi era preciso in modo irreprensibile, Mario Dondero perdeva i negativi, Mario Cresci è imprevedibile, Roberto Polillo generoso, Carla Cerati era riflessiva, Giuseppe Pino ombroso. Una volta lo intervistai per Repubblica e, prima di pubblicarlo, gli feci vedere l’articolo che, mi disse, lo aveva deluso. Glielo lasciai chiedendogli dove voleva che lo modificassi e una settimana dopo mi disse che andava tutto bene: aveva voluto mettermi alla prova. Da lì è nata un’amicizia, tre o quattro mostre e due libri. Se avessi reagito male alle sue critiche, come forse avevo il diritto di fare, tutto questo non sarebbe successo. Un’ultima notazione: non lavoro con autori che non stimo o non mi interessano. Ho rifiutato lavori magari ben pagati per questa ragione e mi è capitato di accettare molto meno per aiutare chi mi aveva invece interessato.     

 

Roberto Mutti insieme a Maurizio Galimberti

 

 

 

 

 

 

 

Molti grandi maestri della fotografia, negli ultimi anni, hanno espresso il timore che la fotografia “stia morendo”, soffocata dalla sovrapproduzione visiva, dalla superficialità del consumo digitale o, più recentemente, dalle immagini generate artificialmente. Lei, che da decenni osserva l’evoluzione di questo linguaggio, come interpreta queste affermazioni? Ritiene davvero che la fotografia stia perdendo qualcosa di essenziale, o che invece stia semplicemente cambiando pelle?

 

È il mondo che sta cambiando, come è inevitabile che sia, e di fronte a tutto ciò nel tempo sono state certificate molte morti: si sono decretate quelle della carta stampata, dei libri, della letteratura, della monarchia, della pietà, della poesia, della solidarietà, dello Stato, dell’intero Occidente e perfino di Dio. Tutti soggetti che, magari un po’ acciaccati, continuano ad esistere. Viviamo in una fase di transizione dicono quelli che credono di essere originali (si vive sempre nelle fasi di transizione no?) e la fotografia ha conosciuto una rivoluzione di cui siamo i fortunati testimoni, quella del digitale. Si tratta dell’ennesimo grande cambiamento: chissà cosa pensavano i fotografi che usavano con perizia e attenzione il banco ottico leggendo la pubblicità della Kodak n. 1 che invitava sfrontatamente a limitarsi a schiacciare il bottone per ottenere una fotografia. Certamente la crisi sta mordendo il reportage schiacciato fra il declino delle testate giornalistiche e la ricerca del risparmio ad ogni costo che induce anche molti giornali a scaricare gratis le fotografie da internet. Comunque, non è la fotografia che sta morendo ma semmai è la generale incapacità di leggerla, interpretarla, approfondirla a preoccupare. Banalizzandola, infatti, le si fa perdere il suo intrinseco valore evocativo.   

       

Dopo oltre 200 pubblicazioni e innumerevoli mostre, qual è oggi, secondo lei, il futuro della fotografia autoriale? E cosa augura ai curatori e critici del domani?

 

La fotografia autoriale esisterà sempre perché da qualche parte del mondo ci sarà qualcuno che rifletterà sul metalinguaggio, si confronterà con un corpo o un volto, indagherà su un paesaggio, farà vivere di vita nuova un oggetto, sarà testimone di avvenimenti da condividere. Starà ai curatori intercettarli, incoraggiarli, svolgere il ruolo di interlocutori fra loro e il pubblico. Non possiamo sapere quando e in che modo, ma tutto questo sicuramente avverrà. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Roberto Litta – Critico narratore dell’arte italiana

 

 

Roberto Litta

Critico narratore dell’arte italiana

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |16| Agosto |2025|

 

 

Roberto Litta, classe 1966, scrittore, divulgatore e comunicatore, è oggi una delle voci più autorevoli e innovative della critica d’arte contemporanea italiana. Dal liceo scientifico agli studi di giurisprudenza, passando per il marketing, ha seguito un percorso che, lungi dall’essere lineare, gli ha permesso di sviluppare un approccio originale e appassionato. Un metodo critico che lega le opere al contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e dei loro tempi, rendendo l’arte accessibile, viva e dialogica.

Autore di romanzi, soggetti teatrali e saggi, Litta è anche volto della RAI dedicato alla cultura, portando nelle case degli italiani la bellezza dell’arte italiana con eleganza e freschezza narrativa. Il suo lavoro stimola un ascolto attento e sensibile, aprendo nuovi orizzonti di esperienza e offrendo una guida preziosa per le nuove generazioni di artisti e appassionati.

 

 

 

In questa intervista esploriamo la sua visione appassionata e ottimista dell’arte, la capacità di raccontare storie e contesti con rigore e leggerezza insieme, e l’impegno a trasformare ogni opera in un dialogo vivo tra artista e spettatore.

 

 

 

Il Suo percorso non è stato lineare, dal liceo scientifico
alla giurisprudenza, passando per il marketing, fino all’approdo nel mondo
dell’arte. In che modo queste tappe, all’apparenza distanti tra loro, hanno
contribuito a costruire il Suo approccio così originale alla critica d’arte?

 

La risposta a questa domanda potrebbe sembrare semplice e
diretta: Nella vita spesso ci si trova a cambiare

In realtà, io ho cercato di
seguire l’andamento della mia vita, lasciandomi guidare dalle passioni e dalle
domande che mi sono posto lungo il percorso.

Sono sempre stato affascinato dal concetto di diritto. Mi
chiedevo, sin dai tempi antichi, a partire dagli antichi romani, quali fossero
le regole che permettessero una pacifica convivenza tra le persone, in società
che nel tempo sono diventate sempre più complesse. Mi interessava molto capire
il ruolo che il diritto ha avuto — in particolare il rapporto tra diritto
morale e diritto positivo, quello scritto dai giuristi — nel creare le
condizioni per una convivenza civile. In fondo, si tratta di una delle grandi
conquiste dell’evoluzione umana: l’idea di vivere secondo regole condivise,
piuttosto che in balia di soprusi e prevaricazioni.

Poi è arrivato l’incontro con la letteratura. Già ai tempi
del liceo avevo una grande passione per la storia, la filosofia, e per le
dinamiche sociali ed economiche del nostro Paese. Ho iniziato a scrivere
moltissimo: soggetti teatrali, romanzi, e in seguito anche saggi, soprattutto
nell’ambito dell’arte.

Ed è proprio attraverso la passione per la letteratura che
mi sono avvicinato al mondo dell’arte. Da semplice appassionato ho cominciato a
cercare di interpretare i messaggi che gli artisti, fin dai tempi più antichi
ma anche oggi, ci comunicano attraverso le loro opere.

 

 

È spesso descritto come un narratore più che un critico. Che
cosa ritiene di guadagnare, e forse anche di rischiare, scegliendo il racconto
e il coinvolgimento emotivo al posto del rigore accademico?

 

Se per “narratore” intendiamo qualcuno che ha qualcosa da
raccontare, allora sì. Non bisogna pensare che il narratore sia solo colui che
racconta episodi e fatti legati alle arti. Ognuno di noi è portatore di un
pensiero, di una capacità intellettuale, della possibilità di leggere i nostri
tempi e di proporre analisi e soluzioni.

 

 

Il Suo metodo critico lega profondamente le opere al
contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e del loro tempo. Come
nasce questo approccio? E cosa l’ha spinta a prendere le distanze da letture
più fredde e convenzionali?

 

Il coinvolgimento emotivo è molto importante, perché una
lettura fredda, eccessivamente tecnica, a volte allontana il grande pubblico da
una reale possibilità di approfondire l’analisi e di cogliere i messaggi
trasmessi dalle opere d’arte. Questo è ancora più vero oggi, in un’epoca in
cui, a causa dei nuovi dispositivi, le persone sono abituate ad avere poca
concentrazione e a consumare contenuti in pochissimo tempo.

L’idea, invece, di raccontare le storie, gli eventi, le
condizioni socio-economiche, i comportamenti degli artisti e per chi quelle
opere sono state prodotte, diventa un elemento capace di accrescere l’interesse
e mantenere viva la concentrazione.

Per quanto riguarda la critica, ad esempio, l’anno scorso ho
scritto il catalogo ragionato delle opere di Nelvis Fornasin, uno degli ultimi
grandi rappresentanti della pittura paesaggistica napoletana. È stato
considerato, anche da colleghi del settore, uno dei più importanti saggi sulla
pittura napoletana.

C’è molto da raccontare, e chi fa il mestiere del critico
dovrebbe scrivere con frequenza saggi e curatele, per dimostrare — come cerco
di fare io — che la narrazione e la riflessione sono strumenti fondamentali.

 

 

 

Oggi è anche un volto della RAI nei programmi culturali.
Quanto cambia il Suo modo di comunicare l’arte in televisione rispetto a una
mostra, a un saggio o a una conferenza? Quali compromessi impone il mezzo
televisivo, e quali potenzialità offre?

 

 

La televisione di oggi si trova a dover competere con altre
piattaforme o con altri dispositivi, bisogna considerare che molte più persone
fruiscono dei contenuti televisivi, o delle piattaforme televisive, attraverso
i propri dispositivi personali.

Per questo è necessario velocizzare il linguaggio, renderlo
comprensibile e rapido. Nelle “pillole” che abbiamo inserito in alcune trasmissioni,
credo che l’esperimento sia riuscito molto bene. La pillola deve incuriosire,
attirare l’attenzione di un certo target e, a partire da lì, portarlo verso
contenuti più specialistici, garantendo poi una certa continuità di fruizione.

Questo è stato anche l’obiettivo di Memorie Italiane– Isegreti di Milano. Abbiamo iniziato raccontando la città di Milano, ma
racconteremo tante altre città e i loro segreti. L’idea era proprio questa:
partire da piccole pillole pubblicate sui social o negli spot, per poi portare
le persone sulla piattaforma, dove hanno seguito Memorie Italiane fino
all’ultimo secondo.

 

 

 

 

Il Suo amore per l’Italia è tangibile in ogni intervento.
Secondo Lei, qual è il “non detto” dell’arte italiana che meriterebbe di
tornare al centro del racconto culturale contemporaneo?

 

L’attuale RAI, guidata dall’amministratore delegato
Giampaolo Rossi, presta attenzione anche al ricambio delle persone e alla
valorizzazione del metodo, affinché, come in tutti gli ambiti, che siano
editoriali, culturali, aziendali o industriali, ci siano sane rotazioni e si
verifichi costantemente come i prodotti possano offrire sempre il meglio al
pubblico.

I prodotti che si dimostrano efficienti, efficaci e
funzionanti proseguiranno. Gli altri, come è giusto che avvenga, saranno
archiviati: alcune sperimentazioni che non hanno successo vengono infatti
consegnate agli archivi e alle teche.

 

 

 

Ha più volte affermato che ogni opera è un “dialogo vivo”
tra artista e pubblico. A Suo avviso, come si può educare il pubblico a
mettersi in ascolto, a lasciarsi attraversare da questo dialogo? Che cosa manca
oggi in questo scambio?

 

Per mia fortuna, mi capita spesso di parlare con stranieri,
e tutti riconoscono la grandezza dell’Italia sia come giacimento culturale, sia
come culla dell’opera lirica. La lingua dell’opera, per tantissimi anni, è
stata l’italiano, e tutti riconoscono la grandezza dei nostri artisti,
architetti, pittori e scultori.

Questa grandezza viene riconosciuta ancora oggi, sia agli
ultimi maestri del secondo Novecento sia ai contemporanei. Questo significa che
il “brand Italia” nell’arte ha sempre funzionato molto; dobbiamo essere noi i
primi a posizionarlo e valorizzarlo.

Spesso vedo che, all’estero, anche piccole opportunità
vengono trasformate in notizie nazionali e internazionali, mentre in Italia
accade che grandissime iniziative culturali, per eccesso di offerta, a volte
non vengano adeguatamente interpretate e valorizzate.

È vero, può capitare che qualche italiano non faccia onore
al nostro Paese, ma bisogna ricordare che l’Italia è un Paese meraviglioso. A
chiunque abbia dei dubbi, dico: basta venire qui e alzare lo sguardo per
ammirare le nostre opere d’arte, le nostre chiese, oppure, più semplicemente,
chiudere gli occhi e ascoltare Cinema Paradiso di Ennio Morricone. Ci si
convincerà che un Paese capace di generare quella cultura musicale e artistica
non può essere un Paese che “va male”, ma resta sempre uno dei vertici migliori
del talento umano.

 

“Flagellazione di Cristo” di Piero della Francesca, tempera su tavola 1444/1469

 

 

Viene spesso definito un “ponte tra passato e futuro”. Come
si può, secondo Lei, valorizzare la tradizione senza che diventi un freno alla
sperimentazione artistica contemporanea?

 

Il ponte tra passato e futuro è necessario. Studiando gli
artisti, anche del passato, si nota che tutti hanno avuto dei maestri oppure si
sono ispirati a qualcuno. Penso, ad esempio, a quando Salvatore Fiume decise di
diventare pittore: mentre studiava illustrazione a Urbino, si innamorò della
Flagellazione di Piero della Francesca e della Profanazione dell’ostia di Paolo
Uccello
.

Ogni artista ha una sensibilità che è stata stimolata e
incuriosita dalla visione di artisti contemporanei o precedenti. Io ho quasi
sessant’anni e considero un mio dovere trasferire ai tanti giovani che oggi si
avvicinano all’arte le storie meravigliose, a volte persino rocambolesche, dei
grandissimi artisti.

Presentare un artista contemporaneo, mettendo in luce le
affinità della sua storia personale o della sua cifra stilistica con un grande
artista del passato, suscita interesse nei confronti dell’arte di oggi e del
pubblico, contribuendo ad aumentare complessivamente l’attenzione verso i nuovi
artisti.

 

Miracolo dell’ Ostia profanata (predella) di Paolo Uccello (sec.XV)


 

Molti giovani artisti La considerano una guida. Che
consiglio darebbe a chi, oggi, desidera esprimersi nell’arte ma si sente
scoraggiato da un ambiente che percepisce come elitario o distante?

 

 

Il consiglio che do sempre è: cercate il successo, non la
popolarità. Il successo è un participio passato: significa che si è fatto
qualcosa, che si è lavorato a un progetto, che si è costruito uno stile, che ci
si è creduto e che non ci si è fermati alla prima difficoltà.

Noi critici dobbiamo avere la capacità di dare conforto, di
dire a queste persone di non scoraggiarsi, di non guardare solo nell’immediato
alle risultanze commerciali, cioè alle vendite, perché il mercato dell’arte in
Italia oggi può essere molto rallentato, persino fermo, ma questo non deve essere
un deterrente. L’arte è, prima di tutto, espressione del pensiero umano. Finché
c’è un pensiero che si esprime, l’arte italiana, che, lo ripeto, è molto
apprezzata all’estero, continuerà a generare opportunità.

Non a caso, il 5 dicembre a Venezia ci sarà una mostra
importante, Artista d’Europa,  in cui gli artisti italiani dialogheranno con
curatori e grandi artisti di altri Paesi europei. Ormai è inutile parlare
soltanto di confini nazionali: bisogna far conoscere le proprie opere anche
all’estero, e in questo la rete può essere un aiuto prezioso.

 

 

La Sua visione dell’arte è frequentemente descritta come
romantica e ottimista. È una scelta consapevole, in un’epoca in cui sembrano
prevalere disincanto e nichilismo?

 

 

Ha ragione: mi preoccupano molto i Paesi, come quelli che
stiamo vedendo in Occidente e anche in Italia, in cui tutti desiderano le
stesse cose. Tutti vogliono avere una vita agiata, essere ricchi; ma quando i
desideri diventano uguali per tutti, vengono a mancare le differenze e prevale
l’omologazione.

Noi, invece, abbiamo bisogno di tanta passione in materie
differenti, perché con la passione si possono raggiungere picchi di eccellenza
in qualsiasi attività umana. Forse per troppi decenni si è ripetuto, lo ricordo
anche da giovane, che bisognava studiare qualcosa che permettesse di trovare
subito un lavoro. Oppure, se uno aveva il padre notaio, studiava legge; se
aveva il padre medico, studiava medicina; se farmacista, farmacia… e così via.

Invece dobbiamo ascoltare le passioni. Bisogna lottare nella
vita, e quando si capisce di avere una passione molto forte, io l’ho capito per
l’arte, bisogna intraprendere quella strada con tanto impegno e sacrificio. I
risultati, alla fine, arrivano sempre: il lavoro paga, senza alcun dubbio.

 

 

Guardando al futuro, quale ruolo immagina per sé nel
panorama culturale italiano? E quale “non ancora detto” sente di voler
raccontare, magari proprio attraverso il linguaggio della televisione?

 

Credo che, nel nostro Paese, occorra ancora un grande
sforzo di conciliazione culturale. Abbiamo troppe ideologie contrapposte,
troppe visioni dell’arte e della cultura in contrasto. Invece avremmo bisogno
di costruire luoghi di riflessione e spazi di condivisione, dove ciascuno possa
arricchirsi di una parte del sapere degli altri.

Penso che questa sia una strada fondamentale, perché
conciliando si costruisce una comunità forte. I nostri ragazzi dovranno
affrontare sfide ormai globali, internazionali: le loro competizioni non
saranno soltanto con altri giovani italiani, ma con ragazzi di tutto il mondo.
Per poter competere su quei tavoli, serviranno grande capacità,
specializzazione e impegno.

Abbiamo bisogno di una comunità che comprenda che l’impegno,
il merito e le competenze rappresentano una sfida non più rinviabile, e che non
esistono scorciatoie. Forse per troppo tempo ai nostri giovani sono state
insegnate scorciatoie.

L’arte può e deve aiutare a indicare una strada maestra per
vivere bene la propria vita. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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IntervisteLetteratura

FRANCO EMILIO CARLINO – UNA CONVERSAZIONE CON UN CUSTODE DEL TEMPO

 

FRANCO EMILIO CARLINO


UNA CONVERSAZIONE CON UN CUSTODE DEL TEMPO

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |08|Luglio|2025|

 

Ci sono personalità che, nel silenzio operoso di una vita spesa tra l’insegnamento, la scrittura e la memoria storica, riescono a restituire interi frammenti d’identità collettiva a territori spesso dimenticati. Franco Emilio Carlino è una di queste figure rare. Docente appassionato, studioso scrupoloso, narratore della Calabria più autentica, ha dedicato decenni alla valorizzazione della cultura locale, muovendosi con scrupolosa attenzione tra documenti d’archivio, genealogie nobiliari, tradizioni popolari e pagine scolastiche.

Nel suo lavoro, ogni borgo diventa racconto, ogni nome di famiglia traccia un albero di memorie, ogni fotografia restituisce dignità al tempo passato. Da Mandatoriccio, suo paese natale, fino a Rossano, sua città d’adozione, Carlino ha intrecciato saperi, emozioni e dedizione in una produzione culturale che oggi rappresenta un patrimonio vivo, utile non solo alla conoscenza, ma anche alla coscienza del presente.

 

 

 

In questa intervista, abbiamo voluto raccogliere la testimonianza del suo percorso, insieme a una riflessione più ampia sulla responsabilità di tramandare, l’importanza di educare e la necessità, mai come oggi, di raccontare per resistere all’oblio.

 



 

 

Lei ha sempre sostenuto l’importanza di valorizzare le esperienze
per renderle fruibili agli altri. In che modo questa filosofia ha guidato le
sue scelte professionali e culturali, e quali trasformazioni ha osservato in
chi ha potuto beneficiarne?

 

Provo a rispondere a questa prima
domanda, che mi richiama al valore dell’esperienza condivisa cercando di essere
il più esaustivo possibile. Ho sempre pensato, sin dall’inizio della mia
carriera professionale, che le esperienze fatte in qualunque campo, andassero partecipate
rendendole utili e accessibili agli altri. Come arrivarci e affinché tutto ciò
accadesse non è stato semplice. La prima occasione concreta, a incanalarmi su
tale filosofia, fu la mia esperienza ultradecennale alla guida Distretto
Scolastico N. 26 di Rossano, massimo Organo Collegiale della Scuola sul
Territorio di pertinenza, nella veste di Vice Presidente e Presidente.
Terminata questa positiva avventura ritenni giusto lasciare traccia e memoria
di quanto fatto, perché nulla andasse perduto. Decisi, pertanto, di raccogliere
l’esperienza, come testimonianza documentata, in un volume dal titolo: Il
Distretto Scolastico N. 26 di Rossano. Organi Collegiali e Partecipazione
. Il
progetto si rivelò una filosofia vincente in grado di valorizzare quanto prodotto e
realizzato sul campo rendendolo fruibile al personale della Scuola di ogni
Ordine e Grado. Una cronistoria di cui si forniscono le tante attività realizzate tra il 1988 e il 1997,
che mettono in risalto l’importanza e il ruolo degli Organi Collegiali e la partecipazione della
Comunità scolastica. Questo tipo di approccio, influenzò fortemente le mie
scelte culturali e professionali divenendo apripista per le esperienze future
confluite sempre in apposite pubblicazioni. Basti ricordare i successivi due
volumi: Dimensione Orientamento – Itinerario Teorico Pratico di ricerca e di
documentazione per la prassi dell’Orientamento nella Scuola
e Note di
Politica Scolastica nella Provincia di Cosenza (1997-2001)
.

Il primo raccoglie scritti e documenti sull’orientamento
formativo nella scuola italiana e setaccia la natura del tema, inteso come
consapevolezza di sé e capacità di scelta in ambito scolastico e professionale,
ma anche esistenziale. Al suo interno si possono trovare riferimenti normativi
significativi oltre che esperienze pratiche, insieme all’uso di diari personali
per gli studenti e l’analisi del mercato del lavoro. L’opera dibatte il ruolo
fondamentale degli insegnanti e dei distretti scolastici, sottolineando la
necessità di un orientamento continuo e integrato al curriculum, diretto a
sviluppare le competenze necessarie per affrontare i cambiamenti del mondo del
lavoro e della società complessa, proponendo strumenti e metodologie per la conoscenza
di sé, dei percorsi formativi, e delle professioni. Un lavoro realizzato
insieme al Centro di Orientamento scolastico e professionale di Cosenza in
tutte le Scuole Medie del Distretto Scolastico n. 26 di Rossano, diretto dal
Dott. Mario Pedranghelu. Il secondo volume, invece, presenta una compilazione
di documenti e articoli relativi alla politica scolastica nella provincia di
Cosenza tra il 1997 e il 2001 e documenta la mia esperienza nel massimo Organo
Collegiale della Scuola a livello provinciale, come componente della Giunta Esecutiva.

Relativamente alla seconda parte
della domanda, circa i cambiamenti
osservati
 in coloro che hanno beneficiato di questo
approccio, a distanza di anni posso dire che sono notevoli. Ancora oggi
quell’approccio di esperienza condivisa e quel lavoro di gruppo riescono in
molti casi, per la loro impostazione, a promuovere certamente il valore della
condivisione attraverso le esperienze attuate rimaste positivamente nella
storia della scuola distrettuale di Rossano per i numerosi valori promossi.   

 

Nel corso della sua lunga carriera nella scuola e negli Organi
Collegiali ha vissuto una fase cruciale della trasformazione dell’istruzione
pubblica. Cosa rimpiange di quel modello di partecipazione e cosa, invece,
crede possa essere ancora attualizzato oggi?

 

Questa seconda domanda mi invita ad una profonda riflessione sull’evoluzione
della scuola pubblica, da me vissuta in oltre 37 anni di carriera,
richiamandomi in modo particolare alla mia esperienza di partecipazione attiva ai cambiamenti del
sistema educativo attraverso la partecipazione agli Organi Collegiali. Come già
accennavo, la risposta sta nel primo volume dove sono raccolte e illustrate le
numerose e straordinarie iniziative e
progetti
 promossi dal Distretto, come corsi di formazione,
concorsi ambientali, attività sportive e seminari su temi sociali e pedagogici,
evidenziando la forte intesa e collaborazione
con enti locali del tempo e le associazioni
 per il
miglioramento dei servizi scolastici e il sostegno agli studenti. Iniziative
dalle quali emerge forte l’impegno del Distretto nel promuovere la partecipazione democratica e
come questo affrontò le sfide educative e sociali del territorio.

Per rispondere anche in questo caso
al suo secondo punto di domanda le dico che non posso nascondere che io stesso
rileggendo quel volume, ancora oggi vengo sollecitato dall’interrogativo se
quanto fatto in quegli anni, sostenuto da molti come una pagina scolastica
unica di grande valenza e interesse per tutta la scuola e la Comunità del
nostro territorio, possa ancora oggi, la stessa, essere ritenuta valida e come
punto di riferimento per la scuola di oggi, la risposta è decisamente sì. La riflessione
mi invita a rispondere che per molti versi, guardando l’evoluzione della scuola
di oggi, molti sono i rimpianti
relativi ai modelli di partecipazione passati, probabilmente
non sufficientemente valorizzati dalla stessa politica scolastica che ha
cercato a tutti costi di scardinare un settore che stava diventando un fiore
all’occhiello della scuola italiana e che via via si è perso per mancanza di
risorse ed anche perché alcuni spazi riservati alla scuola sono stati occupati
impropriamente dalla politica, entrata a gamba tesa nella Scuola anche
attraverso un processo di autonomia non propriamente condiviso dalle diverse
componenti scolastiche. Il mio pensiero vola al
clima di scontro sul tema della razionalizzazione della rete
scolastica e del dimensionamento instauratosi tra le rappresentanze della scuola
e il Consiglio Provinciale di Cosenza dove quest’ultimo fece prevalere la
logica dei numeri, attraverso le indicazioni che arrivavano dal Governo di Roma,
a discapito delle esigenze e le identità delle singole scuole sul territorio. In
quel periodo, se non ricordo male io stesso scrissi un articolo che descriveva
molto bene il nostro sentimento di malcontento, raccontando il senso di
smarrimento, di perdita di identità a causa di una fusione, che allora, ricordo,
riguardò la Scuola Media di Piragineti-Amica, e che ebbe un’amara conclusione
in quanto la logica dei numeri prevalse sulle persone.

 

 



 

Il suo impegno nell’UCIIM dimostra un legame profondo tra
educazione e valori. Come si può coniugare oggi, nella scuola laica, una
formazione che non rinunci all’etica, alla responsabilità e alla dimensione
spirituale del docente?

 

L’esperienza ultratrentennale nell’UCIIM,
mi ha portato a rivestire ruoli di fondamentale importanza come la presidenza
della Sezione di Mirto Rossano e la presidenza Provinciale nel territorio
cosentino. Sono stati anni densi di significato e di attività che hanno messo
in luce un modo nuovo di operare, forse non sempre adeguatamente apprezzato e
condiviso, ma che per quanto mi riguarda, portò a notevoli risultati. Molte
cose sono state fatte ed in particolare un allargamento della presenza
uciimina, su un territorio fino ad allora arido e non sufficientemente arato, che
portò alla fondazione di tre nuove sezioni: Cassano allo Jonio, San Marco
Argentano e Lungro. Un progetto ispirato da una filosofia di collaborazione
vera e non subalterna, che riuscì a legare significativamente il mondo
scolastico provinciale e l’associazionismo cattolico attraverso un costante
dialogo con la Chiesa e Vescovi dei territori coinvolti. Una scuola di laici
cattolici che chiedeva il supporto ai propri vescovi per condividerne il
progetto. Da questa interessante esperienza che diede  i suoi frutti in termini di numeri e di
qualità di servizio, venne come le precedenti, documentata in alcuni volumi: (Profilo
di una Sezione – 25 anni al servizio di una comunità scolastica (1978-2003) –
La memoria per progettare il futuro
, Grafosud, Rossano 2004; Percorsi –
Le attività della sezione giorno dopo giorno (2002-2007) – Bilancio e cronaca
di un sessennio
, Grafosud, Rossano 2007; Tutti i Soci della Sezione
(1978 -2008) – Attività di ricerca e documentazione,
Ferrari Editore,
Rossano 2009, altri volumi inediti e numerosissimi articoli) dai quali affiora
in maniera vincente l’importanza di essere
riusciti ad integrare etica,
responsabilità e spiritualità
 pilastri della formazione
del docente cattolico via via, per quanto possibile, trasferite nell’educazione
contemporanea. Inoltre, da laico, rispettoso dei valori dello Stato e contemporaneamente
cattolico, mi sono sempre interrogato su come la scuola laica potesse carezzare queste
dimensioni, essenziali per la formazione dei docenti. Devo dire che l’impegno dell’UCIIM,
nel nostro territorio è stato molto importante per la formazione di intere
generazioni di docenti ed è stato un esempio concreto di esperienza sul campo
che ha saputo unire educazione e
valori
. La questione centrale ora rimane come mantenere questo
positivo connubio venutosi a creare. Questo coinvolge la
formazione dei nuovi docenti cattolici
che devono, senza rinunciare all’etica, alla responsabilità e alla loro dimensione
spirituale, coniugare anche una loro

crescita personale e morale secondo
un nuovo modo di fare formazione in un contesto educativo centenario, che a me sembra, in questo momento, alquanto
problematico e inadeguato alla luce anche delle nuove sfide imposte
dall’intelligenza artificiale.

 

Negli ultimi anni la sua attività di ricerca ha fatto luce su
angoli poco esplorati della storia calabrese. Secondo lei, quale valore ha oggi
la microstoria e perché è fondamentale per la costruzione di un’identità
collettiva forte, specie nei piccoli centri?

 

La ringrazio per questa domanda,
perché mi offre l’occasione di affrontare concretamente la questione e
l’importanza della microstoria o come comunemente viene detta ‘storia locale’.
Entrando nel merito della domanda, anche in questo caso, devo dire che la
filosofia che mi ha spinto a fare ricerca su angoli poco esplorati della storia
calabrese poggia su due pilastri. Il primo è l’idea di un v
iaggio nella Storia, con finestre che si dischiudono
sui territori di pertinenza cercando di coglierne ogni minimo particolare. Spaccati
storici che descrivono e portano all’attenzione del lettore un enorme parte del
territorio calabrese comprendente le provincie, di Cosenza, Catanzaro e Crotone
nelle quali si riscontrano molti fili conduttori comuni, compreso l’idioma
dialettale. Il secondo pilastro sono le ragioni che mi hanno spinto a fare
ricerca seguendo alcune finalità principali.
La prima finalità riguarda il fine pedagogico essendo stato docente di
scuola media per circa 40 anni questa è influenzata e contaminata dalla
deformazione professionale. Infatti, le mie pubblicazioni privilegiano lo scopo
didattico narrativo e sono tutte finalizzate al coinvolgimento delle giovani
generazioni perché queste si avvicinino il più possibile alla propria storia e
alla riscoperta della propria identità culturale del territorio facendo tesoro
di quanto la stessa storia, in termini di avvenimenti, tradizioni, folklore,
religione, esperienze, monumentalità, arte, beni culturali, archeologia,
economia, agricoltura e altro ancora, ci ha tramandato, elementi fondamentali per la costruzione di quella
solida identità collettiva, specie nei piccoli centri, alla quale la sua
domanda mi richiama. In questo settore, come in quelli precedenti trattati,
numerose sono le pubblicazioni, che invito, per motivi di spazio di consultare
sul mio sito
www.francoemiliocarlino.it

Molte sono dedicate
al mio paese di origine, riguardanti la sua storia, le sue tradizioni, il suo
dialetto;  tante altre a Rossano ed altre
ancora al territorio della Sila Greca e del Reventino Savuto. 

La  seconda
finalità è quella di poter recuperare un spazio adeguato  alla storia locale che non trova nella scuola
di oggi nonostante sia consigliata. I docenti di storia continuano a preferire
l’insegnamento della storia tradizionale secondo i programmi ministeriali.
Spesso si continua a parlare di Fenici e Sumeri, popolazioni a noi lontane, che
si fa fatica a farle comprendere a ragazzi di 11 anni, quando invece dietro
l’uscio di casa nostra, aprendo la porta, abbiamo un mondo vastissimo da
esplorare. Basti pensare a popolazioni come i Greci e i Bruzi, ai nostri
territori ricchi di opere d’arte, di tanti siti archeologici a portata di mano.
Insomma per quanto mi riguarda penso si debba fare storia partendo da vicino
con la microstoria per arrivare lontano allargando via via l’orizzonte e preparando
la mente dei ragazzi a recepire discorsi più complessi. Questo eviterebbe il facile
disorientamento e la crescita di un maggiore amore per lo studio della storia e
il possibile recupero dell’identità nei piccoli centri.

 

 

Dalla storia locale alla genealogia delle famiglie nobili, lei
ricompone storie individuali in un mosaico più ampio. Che cosa può insegnare
oggi la riscoperta delle proprie origini a una generazione che sembra sempre
più sradicata?

 

La risposta a questa domanda è legata
fortemente a quanto sostenevo prima e la
ragione
non riguarda solo la mia persona ma quanti hanno il desiderio di conoscere le
proprie origini. Io credo sia desiderio di chiunque conoscere a fondo da dove
proveniamo, i nostri antenati, come pure le testimonianze, il viaggio che
abbiamo fatto, per mezzo di chi ci ha anticipato e dove siamo arrivati, oppure
quali sono stati i personaggi principali della nostra storia ed ancora chi
erano coloro che ci hanno organizzato come comunità e cosa facevano, quanto
hanno condizionato e segnato la nostra personalità, ed infine le vicende e le
influenze storiche che ci hanno riguardato. La voglia di apprendere, che
fondamentalmente è e rimane la sostanza della nostra ragione, non ci deve mai
abbandonare, anzi va sostenuta e alimentata continuamente allo scopo di fare
memoria comune del nostro passato per immaginare positivamente il nostro
futuro.

Detto ciò viene
da se che il passo dalla storia locale alla genealogia delle famiglie diventi passaggio
obbligato per lo studio e la ricerca poiché il tema della riscoperta delle origini personali e
il suo significato nel mondo contemporaneo assume un valore forte per tutti
singolarmente e per una comunità in generale. Sono passato dalla storia locale
alla storia biografica individuale e dalla storia locale alla genealogia
nobiliare in maniera naturale. In questo settore numerose sono state le mie
pubblicazioni, che ovviamente in questa sede non posso citare tutte, ma la loro
realizzazione mi ha permesso di ricostruire un mosaico molto ampio della nostra storia.
Si tratta di Biografia
e storia di alcuni Rossanesi illustri
, Consenso Iure Loquitur, Rossano 2020
e Vita e Opere di Autorevoli Figure Rossanesi, conSenso publishing,
Rossano 2023. Ricerche documentali finalizzate a fare luce sulla vita e le
opere di autorevoli figure rossanesi che nel tempo con le loro imprese, le
opere, l’eroismo, il talento, la testimonianza si sono distinti per merito e
credito, nelle armi, nelle scienze, nella medicina, nella letteratura, nella
religione, nella musica, nella politica, dando prestigio a Rossano, ragione per
la quale mi è sembrato doveroso continuarne a fare memoria. Un’opera dedicata
alle nuove generazioni della Città perché facciano tesoro e memoria
dell’insegnamento di questi grandi uomini, che hanno scritto molte pagine della
storia rossanese oltre che italiana. Relativamente alla genealogia interessanti
sono risultati i lavori di ricerca: La nobile famiglia Montalti di Rossano –
Storia e genealogia
, Grafosud in coedizione con la casa editrice Consenso
Publishing Edizione a tiratura limitata, Rossano 2019 e I Toscano Patrizi
Rossanesi – Storia, genealogia e feudalità
, Luigi Pellegrini Editore,
Cosenza 2020. Opere ovviamente importanti che nel corso della ricerca mi hanno interrogato continuamente sull’importanza di questa
riscoperta sempre finalizzata alla sollecitazione delle nuove generazioni, oggi sempre più percepite come generazioni
prive di radici
. Il passaggio conclusivo mi ha suggerito
che in quest’epoca così priva di veri modelli di riferimento far comprendere le
proprie radici possa risultare un prezioso insegnamento per il nostro mondo sradicato e smemorato.

 

Tra scrittura, fotografia e documentazione lei ha creato un
archivio vivo del suo territorio. Quali criteri segue nel selezionare cosa
merita di essere tramandato, e in che modo riesce a trasformare il passato in
racconto coinvolgente?

 

Interessante la sua domanda. Spero di
essere altrettanto esauriente con la risposta.
La discussione in oggetto  riguarda la modalità di aver attrezzato un voluminoso
e consistente archivio dinamico che
riesce a combinare tre elementi di trasmissione informativa: la scrittura, la fotografia
e la documentazione. Come dicevo nella precedente risposta è possibile trovare
tutto sul mio sito personale
www.francoemiliocarlino.it che tutti  possono consultare e nel quale è presente
tutta la mia vita professionale. In questo è possibile navigare nelle mie quasi
sessanta pubblicazioni, una rubrica nella quale sono catalogati e disponibili
per la lettura circa 500 articoli dal 1988 al 2025, i numerosi eventi
realizzati nel Distretto Scolastico, nel Consiglio Provinciale, nell’UCIIM, una
interessante rassegna fotografica, le diverse escursioni  fatte, alcune pagine
dedicate alla mia Mandatoriccio, altre a Rossano tutte le locandine degli
eventi realizzati che dimostrano lo straordinario impiego di energie durante la
vita professionale e culturale. Un sito costruito artigianalmente ma funzionale
a una semplice consultazione a disposizione di tutti allo scopo di preservare
la storia e la memoria
territoriale
. In quanto catalogato non ci sono criteri
particolari di selezione, ma quanto realmente realizzato con i commenti e la
rassegna stampa relativa ad ogni evento. Tutto, per quanto mi riguarda, merita
di essere tramandato e questo è opportunità di crescita per quanti vorranno
avvicinarsi alla ricerca e allo studio della storia locale, comprenderne la
metodologia adoperata in modo da poter trasformare, come ho cercato di fare io,
il passato in una narrazione
avvincente
. Spero di non essere frainteso, ma ritengo di aver
costruito negli anni, rendendolo accessibile a tutti, un archivio vivente della memoria
locale dove è possibile spaziare dalla scuola, alla cultura, dalla formazione
alla informazione, dall’evento alla fotografia, dal giornalismo alla
pubblicazione ed all’interno del quale storia e memoria territoriale
rappresentano un felice connubio e un’opera da sfogliare, sulla quale
riflettere per andare avanti.

 

Lei parla spesso di “riappropriarsi del com’eravamo”.
Ritiene che la cultura e la memoria siano oggi strumenti di resistenza contro
la perdita di identità? Come possono le nuove tecnologie supportare, o
ostacolare, questo processo?

 

La sua domanda mi sollecita a
ribadire, ancora una volta, la mia idea di recupero della nostra memoria culturale. Un qualcosa che è sempre
presente nelle mie pubblicazioni e punto di riferimento costante dei miei
interventi. Non vi può essere futuro senza memoria. Il suo recupero rappresenta
per me uno
stile, una forma di resistenza contro la perdita della
nostra identità. Il “riappropriarsi del com’eravamo” è quanto già sostengo in
un altro precedente interrogativo, ossia la
ragione
di chiunque abbia il desiderio di conoscere le proprie origini. Da dove
proveniamo, il viaggio che abbiamo fatto e quanto ha riguardato e segnato la
nostra personalità e quindi la nostra formazione. La nostra vita deve essere un
continuo interrogarsi su come la cultura e i nostri ricordi possano adoperarsi o
possono essere strumenti per preservare il senso di sé e rafforzare il senso della
nostra appartenenza ad una comunità viva, insomma strumenti per non perdere la
nostra identità. E vengo, infine, alla seconda parte della sua domanda, cioè quale
ruolo rivestono le nuove
tecnologie
in questo processo di conservazione identitaria, se
sono in grado di sostenerlo, supportarlo oppure ostacolarlo, se lo possono
facilitare oppure addirittura impedirlo. La mia riflessione, a questo punto,
per darle una risposta, non può che concentrarsi quindi sull’intersecarsi dei
diversi elementi che sono artefici di questo processo sempre e comunque in
evoluzione come la memoria, la cultura e appunto l’innovazione tecnologica. Le
prime due, memoria e cultura, per quanto abbiamo detto prima, è scontato che
devono continuamente essere alimentate, nel mio caso le diverse pubblicazioni
sulla microstoria, i costumi, le tradizioni, l’idioma dialettale, la
genealogia, le biografie, né sono un esempio evidente, chi fa cultura fa anche
memoria, fare memoria e preservarla significa salvaguardare il futuro, la nostra
identità. Il terzo elemento, in questo contesto di resistenza culturale,
richiama tutti ad una visione nuova quale può essere l’uso delle nuove
tecnologie, o l’applicazione dell’intelligenza artificiale che se correttamente
applicate non possono che favorire tale processo e quindi la conservazione
della nostra memoria e il com’eravamo. Per quanto mi riguarda, il mio archivio
vivo, come lei lo chiama, è un esempio di come tutto può essere conservato per
trasmetterlo agli altri. Un domani chi avrà modo di consultarlo credo avrà
molto da ricordare e da elaborare. È come un guardarsi allo specchio, per
continuare a camminare, facendo memoria con l’aiuto della tecnologia allo scopo
di creare una sorta di resistenza culturale.

 

Ha scritto numerosi saggi storici, genealogici e narrativi. C’è
un’opera tra tutte che considera un punto di svolta nel suo percorso autoriale,
un lavoro in cui sente di aver condensato più profondamente la sua identità di
scrittore e studioso?

 

Cerco di dare una risposta a caldo
alla sua domanda di avvio dicendo che tutte le opere di un autore, saggi storici, genealogici e narrativi,
sono importanti ed ognuna presenta le proprie peculiarità. Tuttavia, per venire
incontro alla sua richiesta specifica le rispondo che tra le tante, l’opera che considero un punto di svolta nella mia strada
di autore è il saggio sui Toscano Patrizi Rossanesi. Tra Storia, Genealogia
e Feudalità
, in quanto riassume tutto un lavoro di ricerca fatto in
precedenza e presente, attraverso aspetti diversi presi in considerazione, in
tutti i saggi pubblicati in passato. Inoltre, la suddetta opera si è rivelata  il punto di svolta della mia ricerca futura in
quanto è stata di suggerimento per l’interesse di un lavoro che va ad
incastonare più di ogni altra opera, profondamente la mia identità di scrittore e
studioso, in sintesi l’opera che mi definisce. Inoltre, gli aspetti storici,
genealogici e narrativi si intrecciano a tal punto da far risultare il suddetto
saggio come punto di svolta del mio percorso autoriale poiché in essa vi è la
sintesi che lega la mia attività di autore riflettendone appieno la sua essenza.
Aggiungo anche che fu l’opera per la quale in qualche modo mi sono ritrovato a
far parte, come Socio Corrispondente, della prestigiosa Accademia Cosentina di
Aulo Giano Parrasio, di Bernardino Telesio e di Sertorio Quattromani.   

 

La sua scrittura si basa su una documentazione meticolosa, unita a
una narrazione accessibile. Può raccontarci qual è il suo metodo di ricerca e
quali sono le maggiori difficoltà incontrate nell’accedere a fonti attendibili
per i suoi libri?

 

Rispondendo alla sua domanda sarò
molto sincero. La mia ricerca risulta quasi sempre molto meticolosa e
puntigliosa. Cerco il più possibile di essere rispettoso del lavoro altrui
avendo in questo campo, proprio per la mia accuratezza e precisione in quello
che faccio trovato molte cose fuori posto nelle ricerche altrui. Mi piace
citare quanti vengono coinvolti nella ricerca, evitando però, come fanno in
tanti di inserire nella bibliografia per compiacere testi che con lo studio in
elaborazione non hanno nulla a che fare. Mi piace anche mettere a confronto i
numerosi autori citati anche quando riportano la medesima notizia senza citare
la fonte, proprio per far comprendere come in precedenza tutto era possibile.
Su tale aspetto le faccio un esempio. Fino all’avvento di Internet alcuni
autori o pseudo autori hanno potuto dire di tutto e di più, senza citare le
fonti, e il vasto pubblico dei lettori non avendo la possibilità di fare gli
opportuni riscontri spesso li fece passare come dei grandi storici. Con
Internet questo non è più possibile tanto è vero che molti autori, sbugiardati
nelle loro stesse ricerche, si arrampicano sugli specchi. Ovviamente non manca
ancora chi anche di fronte all’evidenza non si arrende dimostrando una
resistenza fuori luogo. Ma bisogna mettere in conto anche questo, l’apertura
mentale dei singoli soggetti nel campo della ricerca storica produce anche
questi effetti. Fatta questa premessa torno alla sua domanda dicendo che per
quanto mi riguarda una volta tracciato il progetto e come questo va realizzato,
nella sua impostazione e soprattutto nella sua struttura, cerco di raccogliere
le fonti necessarie documentali attraverso i numerosi canali via via
scandagliati, dove ogni notizia viene messa a confronto per comprenderne il più
possibile la sua attendibilità. Le fonti attendibili maggiormente usate che
aiutano il mio metodo di ricerca e le sfide che tutto ciò comporta sono le diverse
biblioteche nazionali o universitarie, i libri di altri autori, gli archivi
storici di Stato e gli archivi privati, quando questo è possibile, gli archivi
di libri antichi, Internet e wikipedia, questi ultimi però con molta attenzione
essendo canali che vanno verificati con attenzione. Le difficoltà incontrate
riguardano i costi della ricerca. Oggi richiedere anche piccole informazioni
alle biblioteche mediante digitalizzazione ha un costo, poi vi sono molte
difficoltà dovute alla consultazione degli archivi, soprattutto quelli privati,
non tutti, infatti, sono propensi a raccontarsi mettendo a disposizione il
materiale in loro possesso. E questa è una nota dolente per la ricerca
riguardante la storia locale, la genealogia e la biografia.  Riguardo alla narrazione accessibile della mia
scrittura, che lei mi conferma nella domanda, ne sono contento, ma non so cosa rispondere,
se non che cerco sempre di prestare attenzione a quanto scrivo e a quello che
scrivo ed anche qui la mia deformazione professionale è evidente. Infatti da ex
docente quando scrivo qualcosa penso sempre di avere davanti i miei alunni, come
quando ero a scuola, il lato debole della catena che deve essere compreso e
aiutato e proprio per questo cerco di essere il più chiaro possibile per mettere
il lettore a proprio agio. Nulla va detto per caso, il metodo scientifico, la
ricerca di supporto e la verifica di ogni cosa sono essenziali in ogni progetto,
lo dico da ex docente di Educazione Tecnica, e quindi anche nella scrittura e
nella scelta delle fonti. La storia non può essere manipolata. Le informazioni
devono essere pulite. Altra cosa è la critica storica dove è possibile
esprimere il proprio pensiero e confrontarlo con quello degli altri. Tutto ciò
forse rende la mia scrittura storica,
basata su una documentazione
meticolosa,
 una narrazione accessibile.

 

Essendo membro di prestigiosi enti culturali come l’Accademia
Cosentina e la Deputazione di Storia Patria, come valuta oggi il ruolo delle
istituzioni culturali locali nel promuovere davvero la conoscenza e
l’inclusione delle comunità?

 

Essere membro di questi prestigiosi
Istituti è un onore. Aggiungerei ai due prestigiosi Istituti citati nella
domanda anche il terzo di cui faccio parte: l’Università Popolare Rossanese.
Queste istituzioni culturali hanno un’importanza notevole sul territorio di
pertinenza e svolgono un ruolo fondamentale a livello culturale nella
promozione della conoscenza e nell’inclusione delle singole Comunità. Il tema
nodale e l’interrogativo centrale a mio parere verte sul ruolo di queste istituzioni e come
queste riescono a promuovere
efficacemente la conoscenza e l’inclusione
 all’interno
delle comunità trasformando la cultura in una vera inclusione sociale,
soprattutto oggi dove sul territorio sono presenti tantissime associazioni che
nelle intenzioni hanno lo scopo di fare cultura, ma non sempre questa riesce a
lasciare traccia, perdendosi per strada.

Come membro delle tre prestigiose
istituzioni citate, si può dire che è tutta un’altra musica poiché quanto si
realizza viene poi tramutato in opportune pubblicazioni scientifiche che
incidono notevolmente sul tessuto sociale e culturale delle Comunità. Basti
dare un’occhiata alle tante pubblicazioni dell’Accademia Cosentina e alle
pubblicazioni annuali dell’Istituto di Storia Patria per la Calabria, oltre
alle numerose manifestazioni culturali per rendersi conto che parliamo di un
livello molto alto di come si fa cultura. Non di meno è il ruolo che riveste
l’Università Popolare Rossanese, del quale oggi rivesto anche il ruolo di
Segretario, che nonostante le numerose difficoltà oggettive alle quali per
tanti motivi ha dovuto far fronte ultimamente, come la mancanza 
di una sede adeguata, l’arrivo del
Covid e la carenza di risorse economiche, è riuscita comunque a dare il senso
della sua continuità ultra quarantennale nel campo della proposta culturale,
con una serie di iniziative che hanno coinvolto e interessato la numerosa Comunità
della nuova città di Corigliano Rossano. Anche per questo Istituto vale la
scientificità degli atti proposti da parte del Comitato Scientifico. Numerose,
infatti sono state negli anni le pubblicazioni realizzate, comprese le due mie
pubblicazioni:
L’Università Popolare di Rossano – Le Opere e i Giorni
(1979-2014)
nella quale sono raccolte tutte le attività dei primi
trentacinque anni di attività e
L’Università Popolare di Rossano –
Cronologia degli argomenti trattati
(1981-2016)
nella quale sono adunate le attività del successivo
biennio insieme ad altre attività realizzate ma non inserite nella prima
pubblicazione. Un’attività che certamente avrà un suo seguito con una ulteriore
pubblicazione per raccogliere quanto fatto negli ultimi dieci anni di attività.

 

Nel campo della narrativa ha esplorato temi più personali e
intimi. Che cosa le consente la scrittura letteraria che la ricerca storica non
le permette? Quale libertà narrativa sente più autentica quando passa dalla
storia alla fiction?

 

I miei approcci con la narrativa, come lei dice, mi hanno
permesso di esplorare temi più personali. Tre brevi saggi
Il profumo dell’erica…, Alcuni giorni al mare… e Aspettando il
Natale
…, sui quali mi sono concentrato liberando la mia fantasia che hanno
trovato spazio in tre distinte antologie di narrativa di AA.VV., mi hanno offerto una maggiore libertà espressiva, un
aspetto, meno accessibile avuto nella storia. La scrittura letteraria, rispetto
a quella storica, mi ha certamente permesso una maggiore libertà, consentendomi
un maggiore spazio nell’uso della narrazione cosa che invece la scrittura
storica non consente in quanto basata sulla ricerca delle fonti che hanno
bisogno di essere visionate, analizzate e convalidate. Tuttavia questo
passaggio, per i miei studi lo definirei esplorativo poiché mi ha concesso di evidenziare
un cambiamento significativo nel modo di operare  consentendomi di mettere in luce un passaggio
tra ii diversi generi letterari e le differenti possibilità nell’affrontare le diverse
tematiche.

 

Ha dedicato una vita a valorizzare la memoria, l’educazione e la
cultura del territorio. Guardando ai giovani oggi, che tipo di eredità desidera
lasciare e quale prospettiva culturale considera la più urgente per il futuro
della Calabria?

 

Ho dedicato tutto me stesso, spesso
sacrificando anche gli affetti personali, alla promozione dell’insegnamento, dell’educazione, della
formazione dei docenti, della scuola nella sua globalità, come dicevo
all’inizio, anche attraverso la mia attiva partecipazione negli Organi
Collegiali della Scuola, e soprattutto negli ultimi trent’anni, riservando gran
parte del mio tempo all’affermazione della cultura locale e alla ricerca della
memoria delle nostre Comunità e allo studio del territorio della Sila Greca,
del Cosentino e della Calabria dedicando numerosi volumi alle nuove
generazioni  sollecitandoli ad andare
fieri
delle loro tradizioni, della loro cultura, della loro lingua e delle loro
origini. Spero, intanto, che il mio percorso educativo e di formazione sia per
loro un esempio. L’eredità che desidero venisse in qualche modo raccolta è
quella che le nuove generazioni trovino alternative giuste, forse quelle che
non siamo riusciti a trovare noi,  per
dare una prospettiva culturale più pressante al futuro della
Calabria e del nostro territorio
. L’impronta culturale presente nelle mie pubblicazioni di
per se è già un messaggio forte e può quindi essere un richiamo per le priorità
di domani, sfide personali che personalmente percorro ancora tutti i giorni per
dare una continuità culturale e un futuro alla nostra amata terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura eminente nel panorama culturale calabrese, Franco Emilio Carlino incarna da decenni un modello di impegno civile e pedagogico fondato sulla valorizzazione della memoria, della partecipazione e del sapere condiviso. Docente di lunga esperienza, animatore instancabile degli Organi Collegiali della scuola pubblica e protagonista di rilievo nei movimenti per l’orientamento scolastico e la formazione democratica, Carlino ha saputo intrecciare il rigore dell’analisi istituzionale con una sincera dedizione al territorio e alla sua storia. Presidente del Distretto Scolastico n. 26 di Rossano e componente del Consiglio Scolastico Provinciale di Cosenza, ha sempre concepito l’impegno educativo come responsabilità collettiva, promuovendo, attraverso studi, pubblicazioni e progetti concreti, una scuola capace di ascoltare, includere e trasformare. Studioso attento della storia locale e della genealogia nobiliare, accademico e uomo di associazionismo culturale (tra cui l’UCIIM e l’Università Popolare di Rossano), Carlino ha saputo costruire un ponte fra la riflessione storiografica e la testimonianza attiva, dando voce a una visione pedagogica fondata sulla consapevolezza identitaria e sul dialogo intergenerazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

La sezione Interviste del nostro blog ospita periodicamente artisti, galleristi, critici d’arte, letterati e autorevoli operatori culturali, selezionati per la loro capacità di offrire contributi significativi alla valorizzazione e diffusione di temi rilevanti nel panorama artistico contemporaneo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il viaggio dell’arte italiana nei territori spagnoli – Un progetto curatoriale itinerante di Alessandro Giansanti

Il viaggio dell’arte italiana nei territori spagnoli

 

Un progetto curatoriale itinerante di Alessandro Giansanti

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |03|Giugno|2025|

 
 

Partecipare a una mostra itinerante in territorio spagnolo, articolata in sedi museali o galleristiche di comprovato rilievo, rappresenta per l’artista un autentico momento di confronto e ridefinizione del proprio percorso creativo e non solo un’occasione espositiva. L’opera d’arte, inserita in un contesto in continuo movimento, assume ulteriori livelli di lettura, dialogando con ambienti, pubblici e culture differenti, in un processo di progressiva risonanza.

La formula itinerante promossa dall’associazione Agarte, sotto la direzione del giovane curatore e gallerista Alessandro Giansanti, consente al nucleo di artisti da lui selezionato di oltrepassare i confini, spesso limitanti, della mostra singola e statica. A rendere ancor più significativo questo modello espositivo è la sua vocazione internazionale, le tappe si svolgono infatti all’estero, in territorio spagnolo, offrendo agli artisti un’opportunità concreta di confronto con nuovi pubblici, diversi codici culturali e contesti critici.

Le tappe, ospitate in sedi accuratamente selezionate attraverso un’attenta rete di collaborazioni e interlocuzioni mirate, si inseriscono in contesti che custodiscono ciascuno una propria storia, un’identità culturale definita e un tessuto critico stratificato. È proprio questa specificità, distinta ma coerente, a conferire all’intero format espositivo una cornice di autorevolezza, capace di nobilitare il progetto senza irrigidirne la vocazione sperimentale.

Particolarmente rilevante, in tale dinamica, è il ruolo dei curatori che, di tappa in tappa, vengono coinvolti nel progetto. Alessandro Giansanti predilige la collaborazione con curatori della sua stessa generazione, privilegiando un dialogo fondato su affinità e visioni condivise. In questo contesto, lo scambio di idee si fa più fluido e generativo, alimentando un confronto autentico che favorisce l’emergere di prospettive inedite e modalità curatoriali capaci di leggere il presente con lucidità e apertura.

In questo senso, il valore dell’iniziativa non si esaurisce nella visibilità offerta, né nella possibilità di inserimento in circuiti professionali internazionali. Ciò che conta davvero è la possibilità, rara e preziosa, di inserirsi in un processo curatoriale articolato, animato da intenti autentici di ricerca e mediazione culturale.

A suggellare questo percorso in continua evoluzione, sta per aprirsi Andar Visivo, nuova tappa del progetto itinerante promosso da Agarte – Fucina delle Arti. Ospitata presso la Aleksandra Istorik Gallery, la mostra collettiva dà forma a un inedito dialogo tra artisti italiani e pubblico spagnolo, intrecciando visioni, sensibilità e linguaggi differenti. Attraverso una selezione di opere pittoriche e scultoree, la rassegna prosegue il dialogo tra culture, linguaggi e sensibilità diverse, riaffermando l’impegno curatoriale verso una progettualità dinamica, condivisa e aperta alle molteplici declinazioni dell’arte contemporanea.

 

 

“Arte Y Palabra” – Mostra Collettiva a cura di Divulgarti in collaborazione con Agarte Fucina delle Arti  di Alessandro Giansanti presso il Museo del mar Santa Pola

 

In questa prospettiva, risulta naturale voler approfondire la visione e le intenzioni che animano questo format itinerante. 

Abbiamo dunque rivolto alcune domande ad Alessandro Giansanti, ideatore e curatore del progetto.

 

 

 

 

 

Quali sono stati i criteri principali nella selezione degli artisti e delle sedi per questo ciclo di mostre itineranti? In che modo queste scelte rispecchiano la tua visione curatoriale?

I creativi coinvolti fanno parte del network della nostra associazione culturale e del contesto della nostra galleria d’arte. Siamo partiti dal desiderio di raccontare l’evoluzione artistica della nostra realtà in questi cinque anni, insieme a quella degli artisti che gravitano intorno ad essa, offrendo una sintesi di alcune delle correnti contemporanee della pittura italiana.

La selezione si basa su criteri qualitativi: è richiesta quantomeno padronanza tecnica e consapevolezza dei mezzi espressivi impiegati. Abbiamo scelto un artista per stile/genere, componendo così una rosa eterogenea ma coerente che rispecchiasse i nostri gusti non solo estetici, ma anche curatoriali.

Per quanto riguarda gli itinerari, l’obiettivo è stato sin dall’inizio quello di espandersi gradualmente nell’hinterland spagnolo, puntando ai poli emergenti dell’arte contemporanea che stanno attirando l’interesse del mercato internazionale. I luoghi scelti — musei e gallerie — sono relativamente vicini tra loro e accomunati da una particolare attenzione verso gli artisti emergenti.. Si tratta di realtà giovani come la nostra, che negli anni diventeranno punti di riferimento culturali nel territorio.

In questo contesto, abbiamo adottato un approccio fluido, capace di integrare la mia visione con quella dei direttori e le direttrici degli spazi artistici selezionati, dimostrando che la sinergia internazionale diventa sempre più realtà di tutti i giorni nel contemporaneo.

 

“Las Musas Encantadoras” Mostra Internazionale di Arte Contemporanea a cura di Divulgarti con la collaborazione di Agarte Fucina delle Arti di Alessandro Giansanti presso il Museo del Mar Santa Pola, ALICANTE

 

Questa avventura è partita dal Museo del Mar Santa Pola, per poi approdare alla Vearte Galerie, situata nel centro di Alicante. Guardando a queste prime due tappe, così diverse per identità e atmosfera, cosa ti ha colpito maggiormente nel modo in cui le opere sono entrate in relazione con gli spazi e con il pubblico? Ci sono state reazioni o situazioni che ti hanno sorpreso o fatto riflettere?

La nostra prima esperienza sul suolo spagnolo è stata proprio con il Museo del Mar di Santa Pola, in occasione della mostra di luglio 2024 Le muse incantatrici – Las Musas encantadoras, organizzata con Divulgarti Group di Loredana Trestin, in collaborazione con il museo stesso grazie all’attenta mediazione di Valeriano Venneri e della direttrice Maria José Cerdà Bertoméu.

Da lì abbiamo proseguito, trasferendo parte della selezione ad Alicante, presso la Galería Vearte, spazio diretto da Laura León oramai nostra amica, con la mostra Doppia Conexión organizzata a novembre 2024. Entrambi gli spazi, fortemente caratterizzati, sono stati trasformati dalla selezione proposta: un’esperienza che si è poi arricchita con l’aggiunta di nuove opere esposte in una seconda rassegna, sempre al museo e sempre nel mese di novembre, dal titolo Arte y palabra – Parole e Arte.

Quest’anno il percorso proseguirà con nuove tappe e nuove evoluzioni prima a giugno presso Istorik Gallery di Aleksandra Istorikpoi a luglio nuovamente al Museo del Mar e sarà interessante poiché il dialogo è ancora tutto in costruzione ed in divenire!

 

 

Laura Leon, titolare della Galleria Vearte, Alicante durante la mostra “Doppia Conexìon”
 
 
In questi giorni prende il via la terza tappa del progetto, con la mostra Andar Visivo ospitata presso la Aleksandra Istorik Gallery, realizzata in collaborazione con la stessa Aleksandra Istorik.

 

Quali elementi nuovi introduce questa tappa rispetto alle precedenti, sia sul piano curatoriale che su quello espositivo? E cosa ti ha spinto a scegliere proprio questa galleria e questa collaborazione per proseguire il percorso?

 

La galleria della giovanissima Aleksandra Istorik, nel centro di Valencia, rappresenta la terza location e la quarta tappa del percorso. Mentalmente sto costruendo una mappa con tutti i passaggi di questa esperienza, e “Andar visivo” segna per noi un punto di svolta sul piano organizzativo.

Per questa rassegna abbiamo scelto di mantenere una lettura fluida e aperta della selezione, come già avvenuto con Doppia Conexión, ma dando concretezza a quella che possiamo definire una “crescita in divenire” del tour.

Come giovane under 35, collaborare con coetanei e coetanee del settore è un piacere: siamo pochi, e con Istorik c’è stata da subito sintonia. Anche lei condivide un approccio giovane e dinamico.

Questa tappa ha un valore aggiunto rispetto alle precedenti: introduce un approccio curatoriale diverso dal nostro. Se nelle altre rassegne siamo stati ospiti, qui siamo veri collaboratori. Mi piacerebbe, con questo spirito rinnovato, tornare anche nelle tappe precedenti per sviluppare un dialogo più diretto con le visioni artistiche dei direttori e delle direttrici degli spazi che ci hanno accolti.

 

 

Aleksandra Istorik ospita la mostra “Andar Visivo”, realizzata in collaborazione con Alessandro Giansanti di Agarte – Fucina delle Arti, all’interno della sua galleria nel cuore di Valencia,

 

Come descriveresti il rapporto che si crea tra artista, spazio espositivo e pubblico in un progetto itinerante rispetto a una mostra tradizionale?

Normalmente mi sarebbe facile descrivere il rapporto che si crea tra spettatore e artista, ma questa situazione è del tutto nuova: non ho paura di dire che si tratta di un esperimento. Non mi sto certo presentando impreparato — porto con me l’esperienza di circa cinque anni di rassegne culturali, con quasi sessanta eventi curati e gestiti direttamente da me e dalla mia famiglia!

Tuttavia, in questo caso, tutto è in divenire. Da qui nasce “Andar visivo”, titolo scelto insieme alla Istorik proprio per questa esposizione: l’idea è quella di piantare una bandiera, fissare un orizzonte, definire un checkpoint. Da questo punto sarà possibile comprendere il vero frutto del lavoro degli ultimi due anni.

Detto ciò, non saprei ancora come definire il rapporto tra pubblico e artista, proprio perché stiamo abbandonando la nostra zona di comfort e percorrendo strade nuove, incontrando un pubblico finora sconosciuto.

Ben venga! L’arte non può — e non deve — rimanere ferma troppo a lungo, è composta da incontri e scontri, come di frizione e movimento.

 

 

 

 

 

Alessandro Giansanti e Laura León durante l’evento “Doppia Conexión” presso la Galería Vearte di Alicante.

 

In che modo l’esperienza di esporre all’estero, in particolare in Spagna, ha influenzato il rapporto tra le opere e il contesto culturale locale? Hai notato cambiamenti nella percezione del pubblico o nell’interpretazione delle opere rispetto a mostre in Italia?

In realtà, spesso mi rendo conto d’essere così preso dai progetti futuri da non riuscire davvero a percepire cosa pensino di me le persone nel presente. Sono completamente proiettato nella continuità di questo percorso e nella sua possibile espansione verso nuovi territori, sempre in ambito europeo, per poi — come già accaduto in passato — uscire dal continente.

Senza dubbio, la percezione che i collaboratori hanno della struttura con il quale collaborano cambia: sapere di avere a che fare con un operatore culturale capace non solo di agire efficacemente – spero – in Italia, ma anche di tradurre quel lavoro all’estero, trasmette l’idea che ci sia qualcosa di più.

 

Quasi una missione.

 

 

Valeriano Vennari, Storico e Critico dell’Arte e Paola Cetroni, artista

 

Guardando al futuro, quali sviluppi o nuove direzioni immagini per il format itinerante di Agarte? Ci sono idee o progetti che vorresti realizzare nei prossimi anni?

Arrivati a questo punto, non posso proprio rispondere, c’è una grossa sorpresa al quale stiamo lavorando, ma essa richiede tempo, dedizione e precisione nei movimenti… i più avranno intuito qualcosa nel modo in cui Agarte si sta muovendo ultimamente. Figure che hanno partecipato a questo percorso in Spagna torneranno nuovamente con un ruolo fondamentale per ciò che sto cercando di creare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

La sezione Interviste del nostro blog ospita periodicamente artisti, galleristi, critici d’arte e autorevoli operatori culturali, selezionati per la loro capacità di offrire contributi significativi alla valorizzazione e diffusione di temi rilevanti nel panorama artistico contemporaneo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

FaRg² – Arte come Alleanza, Espressione e Rinascita

 

 

FaRg² 

 

Arte come Alleanza, Espressione e Rinascita

 

 

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |16|Maggio|2025|

 

 

Nato dall’unione di due visioni artistiche forti e indipendenti, FaRg² è il duo composto da Francesca Bice Ghidini e Alessandro Rinaldoni, che ha dato vita a un linguaggio pittorico originale, profondo e umano. In un costante dialogo tra tecnica e istinto, materia e spirito, i due artisti costruiscono opere in cui l’astratto incontra il figurativo, in un’armonia fluida che forma a tematiche esistenziali, sociali e identitarie.

Le loro creazioni, nate da un processo a quattro mani che fonde la fluid art con l’intervento figurativo, esplorano la fragilità e la resilienza dell’essere umano, portando in superficie emozioni complesse e spesso taciute. Le opere di FaRg² non sono solo visioni estetiche, ma atti di resistenza, speranza e rinnovamento: per Alessandro, che ha trovato nell’arte una potente risposta alla propria disabilità, e per Francesca, che fa della pittura uno strumento per coltivare empatia e bellezza.

Fortemente impegnato anche sul piano etico, FaRg² intreccia la propria ricerca creativa con un percorso di solidarietà concreta, promuovendo progetti a favore dell’inclusione sociale e collaborando con realtà come l’Ordine dei Cavalieri di San Lazzaro. Le loro opere diventano così ponti di connessione tra individuo e collettività, tra arte e vita, dimostrando come la bellezza possa essere veicolo di cambiamento.

Attraverso un uso intenso e simbolico del colore, una profonda intesa reciproca e una visione del mondo condivisa, FaRg² propone una pittura che emoziona e invita a riflettere, offrendo allo spettatore non solo immagini, ma anche una possibilità di rispecchiamento e di ascolto. Il loro progetto si evolve continuamente, aprendosi a nuovi formati, oggetti di design, produzioni ibride e messaggi visivi che superano i confini tradizionali dell’arte per farsi esperienza viva e partecipata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A seguire, una conversazione a più voci che approfondisce visioni,
percorsi e riflessioni condivise con Francesca Bice Ghidini e Alessandro Rinaldoni,
le due anime del duo FaRg²

 

 

 

 

 

 

Potete raccontarci com’è nato il vostro percorso artistico
comune? C’è stato un momento preciso in cui avete capito che unire le vostre
esperienze sarebbe stato qualcosa di più di una semplice collaborazione?

 

Alessandro: ‘’Francesca stava per pubblicare il suo terzo
libro di poesie, con mia sorpresa mi ha chiesto di collaborare per realizzare
la copertina, così è nato “La Ricerca dell’ Infinito“, il primo quadro del duo
FaRg², ci è subito stato chiaro che da quel momento per noi si presentava un
nuovo percorso artistico ricco di possibilità.‘’

 

 

 

 

Il vostro progetto nasce dall’incontro di due esperienze
artistiche forti e distinte. In che modo la vostra collaborazione ha
influenzato, o trasformato, il modo in cui ciascuno di voi affronta il
processo creativo?

 

Francesca: ‘’ Nessuna trasformazione, in quando entrambi
stiamo continuando a dipingere anche singolarmente. Diciamo più un
arricchimento, perché collaborare insieme alla realizzazione di un’opera ci
risulta particolarmente naturale. Alessandro prepara con la fluid paint gli
sfondi in libertà cromatica. Io appena li vedo, colgo elementi che mi ricordano
figure, che faccio ‘uscire’ alle curvature del colore, in modo molto naturale.
Tutta la composizione viene infine terminata con particolari da entrambi’’

 

Alessandro: ‘’Condividere e mettere a confronto i nostri
punti di vista e le nostre tecniche artistiche ha ampliato e potenziato la
creatività di entrambi, confrontarsi ci stimola e ci spinge a continuare e
ricercare soluzioni sempre nuove.”

 

 

 

 

Le vostre opere affrontano tematiche profonde come
l’identità, la fragilità umana e il mondo femminile, attraverso una ricca gamma
cromatica e materica. Come scegliete i soggetti e quali messaggi sperate
arrivino a chi osserva?

 

Francesca: ‘’Noi abbiamo una visione del mondo affine.
Questo facilita il nostro lavoro di artista perché vogliamo emozionare e
sensibilizzare lo spettatore su tematiche comuni. Inoltre aggiungiamo quel
pizzico di spensieratezza e speranza per fare in modo che le nostre opere siano
di conforto.”

 

 

 

Alessandro, hai trovato nella pittura una forma di rivalsa
personale e fisica dopo una prova importante. Francesca, per te l’arte è
strumento di speranza e positività. In che modo questi approcci individuali si
fondono nella vostra produzione comune?

 

 

 

Alessandro:’’ L’arte è diventata la mia risposta, la mia
sfida silenziosa ma potente contro la malattia invalidante che ha colpito il
mio corpo. Quando il fisico ha iniziato a impormi dei limiti, ho scelto di non
arrendermi. Ho deciso di esplorare ciò che restava libero: la mente,
l’immaginazione, la creatività.

Studiare, approfondire, sperimentare: ogni gesto artistico è
diventato un atto di resistenza, un modo per affermare che, nonostante tutto,
posso ancora creare bellezza, posso ancora comunicare, posso ancora lasciare un
segno.

L’arte mi ha dato una nuova identità, non definita dalla
malattia ma dalla mia capacità di trasformare il dolore in espressione, la
fatica in colore, la fragilità in forza. È così che ho trovato la mia strada:
nonostante le difficoltà, o forse proprio grazie ad esse, ho scoperto un
linguaggio che parla per me, che racconta la mia storia e che, spero, possa
ispirare anche altri.”

 

 

Francesca: ‘’L’Arte come Rinnovamento, Emozione e Speranza”

Per me, l’arte è un atto di rinnovamento continuo. È
emozione pura, è fiducia nel presente e speranza nel futuro. Ogni mia opera
nasce dall’istinto e si nutre di empatia: non progetto, sento. Lascio che siano
le emozioni a guidare la mano, che siano i colori a raccontare ciò che le
parole non riescono a dire.

Credo profondamente che l’arte possa aiutare il mondo. Chi
pensa come un artista coltiva la speranza, abbraccia l’innovazione e guarda al
futuro con stupore. È questo sguardo incantato, quasi infantile, che cerco di
restituire attraverso le mie figure fantasiose: creature nate
dall’immaginazione, simboli di un mondo possibile, più gentile e luminoso.

Il mio obiettivo è semplice ma potente: guardare il mondo
con gli occhi di un bambino felice. In questo sguardo c’è la chiave per
cambiare le cose, per costruire ponti, per ispirare.

Anche la beneficenza è parte integrante del nostro percorso
artistico. Con il duo FARG2, ci impegniamo concretamente a promuovere e
sostenere cause solidali, collaborando con la ONLUS dell’Ordine dei Cavalieri
di San Lazzaro. Perché l’arte, quando è autentica, non può che essere anche un
atto d’amore verso gli altri.

 

 

 

FaRg² non è solo arte visiva, ma anche impegno sociale e
umano. In che misura credete che l’arte debba farsi carico di una
responsabilità verso la collettività? E quali sono i prossimi passi del vostro
percorso in questa direzione?

 

Francesca: “FaRg² nasce da un profondo desiderio di
contribuire attivamente a un progetto di solidarietà e beneficenza, mettendo
l’arte al centro come strumento di connessione, ispirazione e cambiamento.
L’arte, infatti, ha il potere unico di parlare direttamente al cuore delle
persone, superando barriere linguistiche e culturali, e diventando un veicolo
potente per trasmettere messaggi di empatia, speranza e impegno sociale.
Attraverso le sue creazioni, FaRg² intende non solo sostenere cause meritevoli,
ma anche sensibilizzare il pubblico, stimolare riflessioni e promuovere una
cultura della condivisione e dell’altruismo.”…

 

 

 

Come descrivereste il vostro stile congiunto e in che modo è
cambiato o si è evoluto da quando avete iniziato a lavorare insieme come FaRg²?

 

Il nostro è uno stile che guarda in particolar modo alla
resa estetica e decorativa, offrendo spunti per messaggi semplici diretti e
chiari. Da quando è iniziata la nostra collaborazione stiamo sperimentando
tecniche e visioni inserendo nel nostro mondo creativo oltre alle opere su tela
composizioni che variano da prodotti brandizzati con le immagini da noi create
(come abiti, accessori, monili)

 

 

 

Come si sviluppa il vostro processo creativo a quattro mani?
Ci sono tecniche, fasi o rituali che seguite per armonizzare le vostre idee e
trasformarle in un’unica opera?

 

Francesca:’’ Nelle prime fasi Alessandro crea con la tecnica
della fluid art lo sfondo che impiega 3 o 4 giorni per asciugarsi, fatto questo
la tela passa a me per completare e ridefinire l’opera con soggetti
sentiti;  va detto che durante le fasi
creative nessuno dei due interferisce nel lavoro dell’altro.

 

 

 

 

Lavorare insieme implica un confronto costante. Trovate
ispirazione solo nella vostra sinergia o cercate anche stimoli da ambienti
collettivi come eventi, workshop o progetti condivisi con altri artisti?

 

È tutto molto spontaneo, nulla di forzato o complicato, ogni
evento rappresenta uno stimolo non si può mai dire da dove arrivi
l’ispirazione.

 

 

Che tipo di rapporto cercate di instaurare con il pubblico?
Le reazioni delle persone influenzano in qualche modo il vostro lavoro o i
vostri messaggi?

 

Noi FaRg² cerchiamo sempre di trasmettere al pubblico che
osserva le nostre opere l nostro messaggio per il sociale perché più persone
prendono la decisione di contribuire maggiore e il bene che si può fare. Cerchiamo
di instaurare con il pubblico un rapporto autentico, basato sull’ascolto, sul
dialogo e sulla condivisione. Non vogliamo limitarci a trasmettere un messaggio
unidirezionale, ma puntiamo a creare uno scambio, un’interazione viva che
arricchisca entrambe le parti. Il nostro obiettivo è far sentire le persone
coinvolte, comprese e, quando possibile, ispirate.

Le reazioni del pubblico sono fondamentali: ci aiutano a
capire se stiamo comunicando in modo efficace, se i nostri contenuti risuonano
con chi ci segue, e ci offrono spunti preziosi per evolverci. Non si tratta di
rincorrere il consenso, ma di rimanere in ascolto, pronti a ricalibrare il
nostro approccio quando necessario, mantenendo però saldi i nostri valori e la
nostra visione.

 

 

 

 

Qual è, secondo voi, il ruolo dell’arte nella società
contemporanea e in che modo sentite che il vostro progetto artistico possa
contribuire a questo dialogo sociale e culturale?

 

Francesca:’’ Il ruolo dell’arte nella società contemporanea
è, a mio avviso, quello di essere uno spazio di riflessione, di critica e di
connessione. In un mondo sempre più frammentato e veloce, l’arte ha la capacità
unica di rallentare il tempo, di porre domande invece di offrire risposte
immediate, e di creare ponti tra persone, culture e visioni del mondo
differenti. È un linguaggio universale che può parlare anche quando le parole
falliscono, e che può accendere consapevolezze, emozioni e dialoghi profondi.

Il mio progetto artistico si inserisce in questo contesto
come un tentativo di esplorare le tensioni tra identità individuale e
collettiva, tra memoria e presente, tra intimo e politico.”

 

 

Alessandro:
’Attraverso la nostra ricerca artistica, cerchiamo di dare forma visiva a
domande che riguardano tutti noi: chi siamo? Cosa ci unisce? Come possiamo
ascoltarci davvero?

Credo che l’arte non debba solo essere osservata, ma vissuta
e condivisa. Per questo motivo, il mio lavoro mira a coinvolgere il pubblico in
modo attivo, stimolando una partecipazione emotiva e intellettuale che possa
generare nuove prospettive. In questo senso, il mio contributo al dialogo
sociale e culturale è quello di offrire uno spazio aperto, inclusivo e
sensibile, dove le differenze non siano barriere ma occasioni di arricchimento
reciproco.’’

 

 

 

 

Quali difficoltà avete incontrato lungo il vostro cammino
come duo artistico, e come siete riusciti a superarle insieme?

 

Una delle sfide più grandi che abbiamo affrontato come duo
artistico è stata farci riconoscere come duo. Alcuni sostenevano che lavorare
insieme fosse inappropriato;  ci siamo
scontrati con dinamiche poco trasparenti: organizzatori di mostre poco
professionali, promesse non mantenute da presunti manager dell’arte, e
situazioni in cui il nostro lavoro veniva sottovalutato o sfruttato.

Queste esperienze ci hanno messo alla prova, ma ci hanno
anche reso più consapevoli e determinati. Abbiamo imparato a selezionare con
più attenzione le collaborazioni, a proteggerci e a credere ancora di più nella
nostra visione. Il sostegno reciproco è stato fondamentale: nei momenti di
delusione, ci siamo ricordati a vicenda perché abbiamo iniziato questo percorso
e quanto valore ha ciò che creiamo insieme.

Oggi possiamo dire che ogni ostacolo ci ha resi più forti,
più uniti e più autentici nel nostro modo di fare arte.”

 

 

Recentemente avete partecipato a Everland Art Percorsi di
Ricerca, il premio internazionale dell’associazione culturale Athenae Artis.
Com’è stata questa esperienza per voi? Cosa vi ha lasciato, sia a livello
personale che artistico? 

Partecipare a Everland Art – Percorsi di Ricerca, il
premio internazionale promosso dall’associazione culturale Athenae Artis, è
stata un’esperienza profondamente arricchente, sia dal punto di vista umano che
artistico.

 

A livello personale, ci ha dato l’opportunità di
confrontarci con artisti provenienti da contesti e percorsi molto diversi dal
mio, creando un dialogo autentico e stimolante. L’atmosfera di condivisione e
apertura che si è respirata durante l’evento ha rafforzato in me la convinzione
che l’arte sia uno strumento potente per costruire ponti tra le persone e le
culture.

 

Dal punto di vista artistico, è stata un’occasione preziosa
per mettere alla prova la nostra ricerca, ricevere feedback qualificati e
riflettere sul mio percorso creativo. Il confronto con le opere degli altri
partecipanti ci ha spinto a interrogarci su ciò che voglio comunicare e su come
possiamo evolvere ulteriormente.

 

In sintesi, Everland Art ci ha lasciato un senso di
gratitudine e una rinnovata motivazione a proseguire nella nostra ricerca, con
maggiore consapevolezza e apertura. Tutto questo grazie a Maria di Stasio, il
critico d’arte Mariangela Bognolo e alla Galleria il Leone che ci ha ospitati
facendoci sentire a casa.

 

 

 

 

Guardando al futuro, quali progetti avete in cantiere? 

Abbiamo molte idee nuove, che riguardano realizzazioni di oggetti di design,
prodotti brandizzati ed esposizioni. Stiamo lavorando sul nostro Messaggio, che
lega l’arte e la creatività al sociale e siamo membri della Onlus dell’ordine
Militare ed Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme.

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

 

Francesca Ghidini
Email fre3581@gmail.com
Phone 342 986 70 71
   

 

 

Alessandro Rinaldoni

Email alraynos@gmail.com
Phone 371 319 27 96

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Il Cuore del MUPA – Conversazione con il Direttore Piero Giannuzzi

 

Il Cuore del MUPA

 

Conversazione con il Direttore 

Piero Giannuzzi

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia  |13|Maggio|2025|

 

 

Ho conosciuto Piero Giannuzzi, direttore del MUPA, in occasione della mostra Percorsi, un progetto espositivo tenutosi presso il suo museo, al quale ho avuto il piacere di partecipare e collaborare attraverso il mio blog L’ArteCheMiPiace.

Da subito, mi ha colpito la sua accoglienza sincera e la visione nitida con cui conduce ogni iniziativa culturale: uno sguardo aperto, motivato, inclusivo, in grado di trasformare l’arte in esperienza condivisa. La sua determinazione è palpabile, così come la cura con cui affronta ogni aspetto organizzativo, capace di dare forma a eventi di grande qualità.

Professionista dell’immagine, fotografo per mestiere ma soprattutto per passione, Piero Giannuzzi ha saputo portare il linguaggio fotografico, insieme a molteplici espressioni artistiche, dalla pittura alla scultura, dall’arte digitale alla grafica, fino all’installazione e alla videoarte, dentro una realtà museale viva e dinamica, perfettamente integrata in un contesto storico di rara bellezza.

Il MuPa, ospitato in un elegante palazzo settecentesco restaurato nel cuore di Ginosa (TA), è oggi un punto di riferimento per l’arte contemporanea e la sperimentazione culturale, dove tradizione e innovazione si fondono armoniosamente.

Ma il MuPa è anche qualcosa di più profondo: è un omaggio sentito a una figura cara, alla quale è dedicato l’intero progetto.

Questa radice personale ne alimenta lo spirito, rendendolo sì un luogo di esposizione, ma anche di connessione, dialogo e appartenenza. Qui la cultura non si contempla da lontano, ma si vive, si condivide, si costruisce insieme.

In questa intervista, Piero Giannuzzi ci racconta la nascita e l’anima del MuPa, i valori che lo ispirano, le difficoltà del suo ritorno nella terra d’origine, e la sua instancabile volontà di dare futuro alla bellezza. 

Un dialogo che è, prima di tutto, un atto d’amore verso l’arte, il territorio e le persone.

 

 

 

 

 

 

 

Puoi raccontarci la storia della nascita del MuPa? Qual è stata l’idea iniziale che ha dato vita a questo museo?

 

Tutto è nato da un desiderio semplice, ma ambizioso: creare uno spazio in cui la cultura potesse essere davvero di tutti, e per tutti. Il MuPa non nasce come un “museo tradizionale”, ma come un polo culturale vivo, aperto, capace di abbracciare l’arte, la storia, la creatività e il dialogo sociale in tutte le loro forme. Fin dall’inizio, l’idea fondante è stata quella di costruire un luogo che potesse diventare un punto di riferimento per la comunità: non un contenitore statico, ma un cuore pulsante di esperienze condivise.

 

Ciò che rende unico il MuPa è la sua vocazione inclusiva. Non è stato pensato solo per raccontare, ma per accogliere: persone, idee, prospettive diverse. Ogni attività del MuPa ha un obiettivo chiaro: generare connessioni, creare appartenenza. Siamo in questo senso, un crocevia di linguaggi e visioni. Un luogo dove l’arte incontra il territorio, dove la memoria si intreccia con il futuro, dove la cultura non si visita, ma si vive.

 

Il MuPa ha una dedica speciale, in onore di una persona a cui tieni moltissimo. Ci puoi raccontare chi era e quale legame speciale ti ha ispirato a creare questa realtà museale?

Il MuPa porta dentro di sé una dedica speciale, forse la più importante: è nato da un’idea di mio suocero, Fernando Ria, padre, suocero, fratello, amico, ogni cosa. Una figura che ha lasciato un’impronta indelebile nella nostra comunità e nella nostra vita personale. Era una mente brillante, sempre un passo avanti rispetto al suo tempo, capace di vedere possibilità e connessioni dove gli altri vedevano solo ostacoli. Adesso che lui non è più tra noi, andiamo avanti anche per onorare la sua memoria. Ma ciò che lo rendeva davvero straordinario era il suo modo di mettere sempre gli altri al centro. Non c’era ambizione personale che venisse prima del bene comune, non c’era idea che non includesse un pensiero per chi aveva meno, per chi era ai margini. Il suo senso profondo di giustizia sociale, la sua capacità di ascolto e la sua visione inclusiva del futuro sono stati per me e per noi tutti una guida silenziosa ma costante. A lui dobbiamo molto, è andato via maledettamente troppo presto, ed il vuoto lasciato è enorme ma non lo colmeremo, non si può. 

Il MuPa, con la sua vocazione culturale aperta e partecipativa, con il suo desiderio di costruire legami e generare bellezza condivisa, è anche un modo per continuare il suo pensiero, per renderlo ancora vivo. Ogni progetto, ogni incontro, ogni sguardo curioso che entra nel nostro spazio culturale è, in un certo senso, un piccolo omaggio a ciò che lui ha seminato.
 
 

 

 

 

 

Quanto è stato importante il legame con il territorio nella creazione di questa realtà museale?

 

Il legame con il territorio è stato, fin dall’inizio, il cuore pulsante del MuPa. Amiamo profondamente questa terra, le sue radici, le sue storie, e sentiamo una responsabilità autentica nel prendercene cura. È proprio da questo amore che è nata la spinta a creare qualcosa che potesse restituire valore, che potesse dare nuova linfa alla nostra città, troppo spesso dimenticata o sottovalutata. Il MuPa è la risposta a un bisogno profondo: quello di far ripartire la città culturalmente parlando, non con grandi proclami, ma con piccoli gesti significativi che riaccendano il senso di appartenenza, la partecipazione, l’orgoglio di essere parte di un luogo che ha ancora tanto da raccontare. Ginosa, con la sua storia millenaria e la nostra Gravina, ne sono testimoni silenziosi e potenti. Il nostro territorio è la nostra radice e il nostro orizzonte. E se oggi il MuPa esiste, è perché crediamo che la cultura sia uno dei modi più potenti per far germogliare un futuro migliore, a partire da qui
 
 

 

 

 

Qual è la missione principale del MuPa e come si distingue da altre realtà museali?

 

Mi piace dire che il MuPa è un po’ come una vecchia osteria a conduzione familiare: un luogo autentico, dove ci si conosce per nome, dove si entra con curiosità e si esce con il cuore un po’ più pieno. Non ci interessano le etichette o le formalità: vogliamo toccare per mano i nostri ospiti, guardarli negli occhi, farli sentire accolti, ascoltati, coinvolti.

 

La nostra missione principale è l’inclusione sociale. Quella vera, non di facciata. Crediamo in una cultura che non isola, ma unisce. In un’arte che non seleziona, ma abbraccia. Il MuPa si distingue perché non mette le persone davanti a un’opera d’arte e basta, ma le invita a farne parte, a dialogare, a costruire insieme. Non vogliamo essere un “museo da visitare”, ma uno spazio da vivere. Al MuPa, la cultura non ha un piedistallo, ma una tavola imbandita, pronta ad accogliere chiunque abbia voglia di condividere.

 

 

 

Hai affermato che viviamo in un’epoca di “distruzione culturale”. In che modo il MuPa si pone come risposta a questa crisi e come può contribuire a un cambiamento positivo?

 

Sì, credo davvero che stiamo vivendo un’epoca di distruzione culturale. Un tempo in cui si parla tanto, ma si ascolta poco. In cui si guarda tutto, ma si osserva niente. In questo contesto svuotato di contenuti e di profondità, il MuPa vuole essere una piccola, ma concreta risposta. Un luogo in cui risvegliare coscienze assopite, soprattutto nei più giovani.

Vogliamo vedere i nostri ragazzi lasciare per un momento il cellulare, raddrizzare quella schiena ormai curva su uno schermo, e scoprire il piacere di perdersi dentro un libro, di emozionarsi davanti a un dipinto, di lasciarsi attraversare da una melodia o da una fotografia che racconta più di mille parole. Non perché siamo nostalgici del passato, ma perché crediamo nel potere trasformativo della cultura, quella vera. Quella che accende scintille.

 

 

 

Il MuPa offre ai visitatori esperienze immersive attraverso visori VR e contenuti cinematografici in realtà virtuale. Come è nata l’idea di integrare queste tecnologie e qual è la risposta del pubblico?

 

L’idea di integrare la realtà virtuale all’interno del MuPa è nata dal desiderio di rendere la cultura ancora più accessibile, emozionante e coinvolgente, soprattutto per le nuove generazioni. Viviamo in un mondo dove la tecnologia è parte integrante della quotidianità: invece di combatterla, abbiamo deciso di abbracciarla e usarla come ponte, non come barriera. Ad esempio poter visionare un posto lontano, piuttosto che le nostre chiese rupestri, magari inaccessibili, anche solo posizionando un visore sul volto beh, credo sia pura poesia. Magari chi non può “fisicamente” o “economicamente” affrontare viaggi di un certo tipo, viene qui, si accomoda e li vive, si, in modo differente, ma li vive.

 

Ci piace pensare al VR non come un semplice strumento “tecnologico”, ma come una nuova forma di narrazione, un modo per entrare dentro le storie, per viaggiare nel tempo e nello spazio, per vivere l’arte e la memoria con tutti i sensi. La risposta del pubblico ad oggi è stata sorprendente. Dai bambini agli anziani, vediamo nei loro occhi la meraviglia di chi riscopre la cultura in modo nuovo, immersivo, quasi magico. Molti ci dicono che grazie ai visori hanno “sentito” davvero ciò che stavano guardando. E per noi, questo è il segnale più bello: significa che stiamo riuscendo a far passare emozioni, non solo informazioni.

 

 

 

Le sei sale del MuPa sono dedicate a icone dell’arte italiana come Caravaggio, Fellini e Morricone. Qual è stato il criterio di scelta e come dialogano questi nomi con l’identità del museo?

 

La scelta di dedicare le sei sale del MuPa a figure come Caravaggio, Fellini, Morricone, Alighieri, Fracci e De Filippo non è stata casuale, né puramente celebrativa. Al contrario, è nata da un bisogno profondo: quello di costruire un dialogo tra passato e presente, tra eccellenza e quotidianità, tra genio e umanità, utilizzando i nomi di chi con la propria arte ha fatto in modo che il nome della nostra nazione fosse presente ovunque e per sempre. Abbiamo scelto queste icone perché incarnano valori che ci stanno a cuore: l’audacia creativa, l’originalità, la capacità di raccontare l’animo umano in tutte le sue sfumature. Caravaggio con la sua luce che scava nell’ombra, Fellini con il suo sguardo visionario sull’uomo, Morricone con la musica che diventa emozione pura e cosi via.

 

 

Dopo la tua formazione fuori, hai scelto di tornare e investire nella tua terra. Cosa ti ha spinto a questa decisione e quali sono le difficoltà e le soddisfazioni maggiori che hai incontrato?

Ho scelto di tornare e investire nella mia terra perché credo profondamente che lasciare le proprie radici sia un errore che non deve mai accadere, né mentalmente né fisicamente. Ginosa è una terra ricca di potenzialità, di storia, di cultura: può crescere, può fiorire, ma solo se siamo noi a crederci e a impegnarci per costruirne il futuro. Se andiamo tutti via, non accadrà mai. La decisione di tornare non è stata semplice: le difficoltà sono tante, dalla burocrazia lenta alla mancanza di infrastrutture, dalle resistenze al cambiamento alle sfide economiche quotidiane. Ma le soddisfazioni ripagano ogni sforzo: vedere i frutti del proprio lavoro sul territorio, creare opportunità per altri giovani, ridare valore a tradizioni e risorse locali è una gioia che non ha prezzo. E sapere di contribuire, anche nel mio piccolo, al riscatto della mia terra è la motivazione che ogni giorno mi spinge ad andare avanti.
 

 

 

 



 

Opere fotografiche di Piero Giannuzzi

 

 

La tua carriera di fotografo è ricca di esperienze significative. Ci puoi raccontare come è iniziato il tuo viaggio nel mondo della fotografia?

 

La fotografia mi ha affascinato da sempre. Fin da piccolo ero incuriosito da come fosse possibile fermare un’immagine, catturare un attimo che altrimenti sarebbe svanito. Da questa meraviglia nasce anche il nome del mio studio fotografico: Kaleidoscopio. Ho scelto questo nome perché rappresenta il mio modo di vedere il mondo, fatto di infinite combinazioni di colori, forme, prospettive. Mi ha sempre colpito pensare a come, già secoli fa, qualcuno come Niépce sia riuscito a immaginare e realizzare un mezzo per fissare ciò che si osservava, per renderlo eterno. È proprio da questa curiosità e da questo stupore che è iniziato il mio viaggio nel mondo della fotografia.

 

 

 

Il MuPa ha dimostrato un forte impegno nel coinvolgere giovani artisti attraverso iniziative come open call e mostre collettive. Quali strategie specifiche avete adottato per attrarre e supportare i giovani talenti, e come vedi il ruolo del museo nel facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel panorama artistico contemporaneo?

 

 

 

Il MuPa ha sempre creduto che il futuro dell’arte passi attraverso il sostegno ai giovani talenti. Per questo abbiamo adottato strategie mirate per attrarre e supportare i giovani artisti, a partire dalle open call accessibili e trasparenti, che permettono una selezione inclusiva e meritocratica. Abbiamo creato spazi dedicati a mostre collettive o workshop, offrendo non solo luoghi espositivi ma anche momenti di confronto, formazione e networking con artisti affermati e professionisti del settore. Crediamo che il museo debba essere più di un contenitore: deve diventare un incubatore di idee e progetti, un ponte tra le nuove generazioni e il panorama artistico contemporaneo. Il nostro obiettivo è dare ai giovani artisti gli strumenti e le opportunità per esprimersi, crescere e posizionarsi all’interno di un mercato complesso, senza snaturare la propria voce creativa. È una sfida continua, ma anche una grande responsabilità e un privilegio.

 

 

 

 

 

Quali sono i progetti in cantiere per il futuro del MuPa?

 

Il nostro obiettivo per il futuro del MuPa è continuare a crescere, alzare sempre più l’asticella e consolidarci come un vero e proprio polo culturale di riferimento. Vogliamo ampliare la nostra offerta, coinvolgendo un pubblico sempre più grande e diversificato, attraverso nuove mostre, eventi multidisciplinari, collaborazioni con artisti nazionali e internazionali, e attività educative rivolte a tutte le fasce d’età. Stiamo lavorando per rendere il MuPa un luogo vivo e dinamico, dove l’arte si intreccia con il territorio e con la comunità, capace di generare dialogo, confronto e crescita. È una sfida ambiziosa, ma siamo determinati a portarla avanti con passione e visione.

 

Il MuPa è anche il frutto di una rete di persone, imprese e realtà che hanno creduto nel progetto sin dall’inizio. Vuoi dedicarci un pensiero per ringraziare chi ha scelto di camminare accanto a te in questo viaggio culturale?
 
Una dedica speciale va a tutti coloro che ci sostengono continuando a credere nella cultura come luce che guida e radice che unisce, il nostro più profondo grazie. Professionisti ed imprese della nostra terra siete il respiro vivo di un sogno condiviso. Con voi, ogni pagina scritta ha più voce. State tenendo la mano ai nostri ragazzi, al loro futuro, ai loro sogni. Ogni fiducia data alla cultura è un seme piantato nei cuori delle nuove generazioni. Qualcuno deve pur farlo e se ci uniamo, possiamo rendere le cose meravigliose. 

 

Grazie a: AbaBio, Agri Ionica Srl, Alima Cooperativa Onlus, Arco Antico Ristorante, Autoservice Sannelli, AVIS Ginosa, Biffy Ristorante, Caffè 25, Cemab Srl, Cienne Autoricambi, Clan Pub, ClimaSat di Sante Bracciale, Drink Planet, Eclipse, Eden Spazio Bellezza, EdilArt s.c., Edil Maggi SRL, EdilLux Tamburrano SRL, Eurospin F. Ribecco, Farmacia Sangiorgio, Festa Allianz, Future Center di Patremia Paolo, Galante Consulenza e sviluppo Commerciale, Genera Innova Srl, Global Service Impianti, Graficam, Humana Life&Joy, Il Piccolo Principe Casa Vacanza, Il Praedio della Reale – Bio Agriturismo, Intelligere Moda, Jonica Bio, KaleidoscopioLab, La Pescarella Ristorante, Le Tre Civette B&B, Lignea74013, Linea Uomo Accontiature, Loforese Group SRL, Lomax Assicurazioni, Massanè Casa Vacanze, MZ Service, Nuova Luce Cooperativa Sociale, Pavone Montaggi, Pratoplà, PrencipEdil, Cantine Domenico Russo, RoyalFin Servizi Immobiliari, Sabry Tende, Sinergy, Studio Ria Stp, Tecnica Diesel, Tenuta Orsanese, Tertiam Viaggi, Rag. Fernando Ria, Ing. Alessandro Leccese, Avv. Deborah Panettieri, Rag. Domenico Gigante, Avv. Carmen Carlucci, Ing. Vito Parisi, Geom. Maurizio Napoli, Dr. Luca Calabria, Dr. Vito De Palma, Rag. Rossella Ria, Dr.ssa Grazia Ria, Dr. Cosimo Ria, Rag. Domenico Cazzetta, Dr. Paolo Costantino, Dr. Piero Giannuzzi e il Comune di Ginosa.

 

Aspettiamo tutti coloro che vorranno aggiungersi alla nostra grande Famiglia.

 

 

 

 

Invece in ambito personale c’è un progetto o un sogno artistico che ancora desideri realizzare?

 

Il mio progetto? Ma io non ho un progetto, io ho un’avventura! Io non voglio scattare foto, io voglio scattare vita! Desidero che la mia agenzia di comunicazione sia un carnevale, una festa perenne.

 

Come direbbe Benigni: “La vita non si spiega, si vive”. Ed io la voglio vivere tutta, fotografare con le mani, con gli occhi, col cuore, con le lacrime, con le risate, con i piedi, ah no, con i piedi no, avrebbe un altro significato!
Il mio sogno per la mia terra? Che i ragazzi non se ne vadano. Che restino. Che dicano: ‘Ma guarda quante cose belle possiamo fare qua!’ Perché la bellezza non sta nei grattacieli, ma nel sorriso della signora che ti vende il pane, nei muri scrostati che raccontano storie, nei vecchietti seduti al bar che parlano del tempo da quarant’anni!
E poi io voglio vivere, SERENO, si SERENO. Voglio vedere crescere le mie bimbe, i miei nipoti, guardarli e dire: ‘Ma che miracolo siete!’ Voglio star bene con la mia famiglia, sedermi a tavola, ridere, voglio ridere… sempre, perchè la vita corre troppo veloce.
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