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Rouen e il suo Musée des Beaux-Arts – Un viaggio tra capolavori

 

 

Rouen e il suo Musée des Beaux-Arts

 

Un viaggio tra capolavori

 
 
 
 
 
di Giuseppina Irene Groccia |04|Ottobre|2025|
 
 

Il Musée des Beaux-Arts di Rouen è senza dubbio una delle tappe culturali imprescindibili della Normandia. Fondato per volontà di Napoleone Bonaparte nel 1801, testimonia la lungimiranza del grande condottiero che, con un decreto, rese la città normanna custode di un patrimonio artistico di livello internazionale. L’attuale edificio, progettato dall’architetto Louis Sauvageot e completato nel 1888, domina oggi l’Esplanade Marcel Duchamp, ed è stato rinnovato nel 1994 per accogliere al meglio visitatori e collezioni.

Il museo conserva una delle più ricche raccolte pubbliche di provincia in Francia, con opere che spaziano dal XV al XX secolo. Pittura, scultura, arti decorative e disegni convivono in un percorso che attraversa Rinascimento, Barocco, Romanticismo, Impressionismo e arte moderna.

 

 

 

Tra i nomi che impreziosiscono le sale figurano giganti della storia dell’arte: Caravaggio, Rubens, Velázquez, Veronese, Poussin, Fragonard, David, Ingres, Géricault, Delacroix, Degas, Monet, Sisley, Renoir, Modigliani, i fratelli Duchamp, fino a Dubuffet e Dufy. L’elenco è talmente impressionante da sembrare quasi una parata in carne e ossa di maestri che hanno segnato la storia dell’arte europea. Non mancano capolavori meno noti ma straordinari, come La Vergine tra le vergini di Gerard David o le delicate raffigurazioni di François Clouet.

 

Una menzione speciale spetta all’Impressionismo, di cui il museo custodisce una delle più grandi collezioni francesi, resa possibile grazie alla donazione del collezionista François Depeaux nel 1909. Monet, con la sua celebre Serie della Cattedrale di Rouen, ma anche Sisley, Renoir, Pissarro e Caillebotte, sono i protagonisti di una stagione artistica che proprio in Normandia trovò la sua culla naturale.

Oltre alla pittura, il museo ospita una ricca collezione di sculture, dalle opere barocche di Pierre Puget ai moderni lavori di Jacques Lipchitz e Raymond Duchamp-Villon. A completare il percorso, preziosi disegni, una raccolta di icone russe e splendidi esempi di arti decorative.

 

L’esperienza di visita è resa ancora più piacevole dalla presenza del Giardino delle Sculture, un bellissimo spazio all’aperto ma al contempo protetto, dove il verde dialoga con opere tridimensionali esposte en plein air. È un luogo di pausa e di contemplazione, che consente di vivere l’arte in continuità con la natura. Qui si trova anche il ristorante del museo, ideale per concludere la visita con un momento di relax.

 

Entrare al Musée des Beaux-Arts di Rouen significa dunque intraprendere un vero viaggio tra maestri immortali, sorprese nascoste e spazi che respirano cultura. Eppure, nonostante la sua grandiosità, il museo riesce a trasmettere un senso di accoglienza, quasi domestico. Lo dimostra la vivacità dei laboratori e delle attività dedicate ai più piccoli, che imparano a leggere i segreti delle tele con entusiasmo e curiosità.

 

 

Passeggiando tra le sue sale luminose, il visitatore percepisce subito la ricchezza e la varietà del patrimonio custodito.
Ma c’è una stanza che cattura ogni sguardo, un luogo in cui il tempo sembra fermarsi, ed è quella che ospita La Flagellazione di Cristo di Caravaggio. Davanti a questo capolavoro non si può restare indifferenti. La forza drammatica della scena, il contrasto tra luce e ombra, l’intensità dei corpi e dei volti, tutto parla con la potenza unica dell’arte italiana, vero orgoglio e vanto del nostro Paese.
 
 
Caravaggio, più di chiunque altro, emerge come un gigante, non c’è paragone, non c’è rivale che tenga. Il suo linguaggio diretto e struggente ti afferra con forza e ti trascina oltre la tela, dentro la carne viva della scena. È in quel preciso istante che si avverte il rischio di cadere nella cosiddetta sindrome di Stendhal, non più intesa come semplice smarrimento, ma come autentica vertigine estetica. Un cortocircuito tra percezione sensibile e coscienza critica, in cui la bellezza si manifesta in modo tanto assoluto da risultare quasi insostenibile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

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Galleria Sciarra Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 
 

Galleria Sciarra


Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |29|Luglio|2025|

 

 

La Galleria Sciarra è uno dei gioielli nascosti di Roma, situata nel cuore del centro storico, a pochi passi da via del Corso e Piazza Venezia. Nonostante si trovi in una zona centralissima, è poco conosciuta dai turisti, il che la rende ancora più affascinante.

La Galleria è un passaggio pedonale coperto, costruito tra il 1885 e il 1888 dall’architetto Giulio De Angelis su commissione del principe Maffeo Sciarra Colonna di Carbognano. Doveva fungere da elegante collegamento tra via Marco Minghetti, Piazza dell’Oratorio e via delle Muratte, e far parte di un più ampio progetto di rinnovamento urbanistico e commerciale.

 

 

 

 

La Galleria è decorata in stile Liberty (o Art Nouveau), e ciò che la rende davvero straordinaria sono i suoi affreschi spettacolari, i quali rappresentano un unicum nell’arte decorativa di fine Ottocento a Roma.

Essi furono realizzati tra il 1885 e il 1888 dal pittore Giuseppe Cellini, un artista attivo nel periodo della transizione tra l’eclettismo ottocentesco e il Liberty italiano. La decorazione pittorica fu ispirata da una visione idealizzata e moraleggiante della donna borghese, molto cara al committente, Maffeo Sciarra, aristocratico conservatore e fervente sostenitore dei valori della famiglia tradizionale.

 

 

L’intero ciclo pittorico è un omaggio alla femminilità borghese, vista come cardine dell’equilibrio sociale. Le figure femminili, elegantemente vestite secondo la moda del tempo, rappresentano una sorta di “manifesto morale” visivo.

Le principali virtù rappresentate sono:

La Pudicizia (Modestia), La Fedeltà coniugale, La Fortezza, La Maternità, La Discrezione, La Sobrietà, La Grazia, La Carità domestica

 

Ogni scena è accompagnata da motti e sentenze in italiano, latino e greco antico, scritti in stile lapidario, come se fossero precetti scolpiti nel marmo del vivere borghese. Ad esempio:

 

“La bellezza non è ornamento, ma luce dell’anima.”

 

 

 

“La donna è l’angelo della famiglia.”

 

 

 

 

Gli affreschi si sviluppano su tutti e quattro i lati della corte interna, disposti su più livelli, tra lesene, archi e balconcini, come se fossero quadri viventi inseriti in una scenografia teatrale.

Il tratto di Cellini è elegante e decorativo, con linee morbidecolori tenui, e una cura minuziosa dei dettagli nei tessuti, nelle acconciature, negli sfondi floreali e architettonici. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera quasi sospesa, idealizzata e mitica, pur parlando della quotidianità borghese.

 

 

Una delle peculiarità meno note è che le figure non rappresentano donne mitologiche o sante, ma donne reali, impegnate in attività quotidiane come leggere, educare i figli, cucire, ricevere ospiti, o passeggiare. Questa scelta rende gli affreschi straordinariamente moderni, nel senso che ritraggono la donna non solo come oggetto estetico, ma come soggetto morale e sociale.

Gli affreschi sono specchio della cultura di fine Ottocento: patriarcale, idealista, moralizzante, ma al tempo stesso rivelano anche un certo rispetto per la donna come custode del decoro sociale. Oggi possono essere letti anche in chiave critica, ma restano una testimonianza visiva affascinante di come l’arte interpretasse (e imponeva) i ruoli femminili nella società post-unitaria italiana.

 

Una delle curiosità più interessanti riguarda proprio l’intento originario della Galleria: il principe Sciarra aveva progettato questo spazio per essere un centro commerciale d’élite, con negozi di lusso al piano terra e gli uffici della sua rivista, “La Cronaca Bizantina”, ai piani superiori. La rivista, tra l’altro, fu uno dei primi esempi di giornalismo moderno in Italia, e si concentrava su arte, cultura e società.

Un altro dettaglio curioso: la Galleria, pur essendo proprietà privata, è aperta al pubblico durante il giorno, e molti romani la usano come scorciatoia elegante e tranquilla nel cuore caotico della città.

 

Se cercate un angolo di Roma lontano dal frastuono turistico, ma capace di sorprendervi con una bellezza intima e inaspettata, la Galleria Sciarra è una tappa imperdibile. È uno di quei luoghi magici dove il tempo sembra essersi fermato: appena varcato l’ingresso, vi ritroverete immersi in un mondo silenzioso e raffinato, avvolti dalla grazia delle figure femminili dipinte, dai colori morbidi degli affreschi e dalla luce che filtra delicatamente attraverso il soffitto in vetro e ferro battuto. Una piccola pausa poetica nel cuore della città eterna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IntervisteMy Favourites

Viktor Sheleg – Un Dialogo Silenzioso con la Tela… Riflessioni sull’Arte, il Caos e l’Armonia

 

Viktor Sheleg

 

Un Dialogo Silenzioso con la Tela  

 

Riflessioni sull’Arte, il Caos e l’Armonia

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |12|Aprile|2025|

 

 

Viktor Sheleg è uno di quegli artisti che non hanno mai cercato riparo sotto le strutture rassicuranti dell’accademia, anzi: fin dall’inizio del suo percorso ha sentito l’urgenza di liberarsi da ogni regola precostituita, di tradire le attese, di tradurre il mondo non secondo la logica del visibile, ma attraverso quella più sottile e bruciante del percepito. Nato nel 1962, in Lettonia, Sheleg è cresciuto tra colori e silenzi, scoprendo la pittura come atto necessario già da bambino. Fu sua madre, un’artista mancata, a consegnargli la prima scatola di colori a olio: un piccolo gesto che si rivelò fondativo, quasi rituale, come il passaggio di un fuoco sacro.

Il suo percorso artistico non si è mai piegato a una sola cifra espressiva. La sua pittura, piuttosto, si adatta come una pelle viva all’emozione del momento. La tela diventa così un campo di tensione in cui convivono figurazione e astrazione, forma e dissoluzione, concretezza e sogno. Non è importante se ciò che appare sia riconoscibile dall’occhio o appartenga all’indefinito: ciò che conta è la verità del sentire, la fedeltà a una vibrazione interiore che guida il gesto, e che trasforma l’atto pittorico in rivelazione.

 

Nel lavoro di Viktor Sheleg, l’astrazione non è un linguaggio scelto, ma un’urgenza interiore, un modo inevitabile di esistere sulla tela. La sua pittura si sottrae ai dettami della forma e del soggetto, per abbracciare invece una grammatica emotiva, istintiva, profondamente viscerale. L’uso del colore – mai ornamentale, mai scontato – si rivela come gesto rivoluzionario: non risponde a un’estetica codificata, ma nasce da una tensione interna, da una vibrazione autentica che scardina ogni schema.

Nel suo universo pittorico, l’osservatore non è guidato da un ordine gerarchico tra colore, tratto e figura. Al contrario, viene travolto d’improvviso da un turbine cromatico che precede ogni riconoscibilità, da linee che sembrano tracciate in uno stato di ascolto profondo, come se la mano dell’artista rispondesse a un richiamo interiore più che a un progetto. In Sheleg, l’astrazione è respiro, è pelle, è carne. È lo spazio stesso che diventa emozione.

Ogni sua opera si fa quindi atto di ricerca, indagine incessante di un altrove pittorico dove il segno non descrive ma evoca, dove il gesto non rappresenta ma svela. La composizione si apre così a nuove dimensioni percettive, dove l’equilibrio nasce dal rischio, e la bellezza si manifesta nella collisione tra energia e mistero. In questo modo, Viktor Sheleg non dipinge l’astratto: lo vive, lo abita, lo attraversa.

 

L’artista non ha mai dipinto per piacere o per mestiere: ha sempre dipinto per necessità. Per questo motivo, si avvicina alla tela solo quando ne percepisce l’urgenza, quando sente dentro di sé quell’energia irrazionale e potente che cerca una via per uscire. Ogni sua opera è un incontro, quasi carnale, con l’invisibile. Spesso il volto di una donna emerge da un mare di segni e cromie, come un’apparizione che si impone con dolcezza e autorità insieme. La figura femminile non è mai oggetto decorativo, ma soggetto dominatore, epifania simbolica dell’interiorità.

Così, il suo linguaggio pittorico si fa liquido, cangiante, irregolare, e proprio per questo autentico. Sheleg accorda la narrazione visiva allo stato emotivo, come un musicista improvvisa sul tema del giorno, come un poeta che trascrive un sogno senza rileggerlo. In un’epoca che esige definizioni, categorie, etichette, Sheleg risponde con l’ambiguità dell’arte vera, quella che non si lascia spiegare, ma solo vivere. E forse è proprio qui, in questa assoluta fedeltà a se stesso, che risiede il segreto della sua forza: nel coraggio di non chiedere il permesso, né all’occhio né alla mente, ma solo al cuore.

 

 

 

 

A completamento di questo ritratto intenso e appassionato, aggiungiamo le parole dello stesso artista, che in questa intervista ci accompagna dentro il suo universo creativo, rivelando visioni, impulsi e pensieri che animano la sua pittura.

 

 

 

 

 

Hai detto che quando crei un’immagine, sei guidato dalle emozioni e dall’energia. Puoi raccontarci di più su questo processo creativo?

 

Questo è un caso in cui mostrare è più facile che spiegare. La mia opinione soggettiva è che ci siano artisti che riescono a dare vita a un oggetto inanimato (un dipinto) e altri a cui non è dato. Un artista può possedere un elevato livello di tecnica, una grande esperienza e una diligenza invidiabile, ma i suoi quadri non hanno magnetismo, sono privi di vitalità, pur essendo altamente professionali. Un altro esempio è quando guardi un dipinto e non riesci a distogliere lo sguardo, sebbene l’artista non abbia un’alta professionalità.

Non mi avvicino alla tela quando sono emotivamente vuoto e non considero la pittura un lavoro. Per me un dipinto è come una partner con cui dialogare. Mi addormento pensando a ciò che non abbiamo concordato e, al risveglio, corro a dirle qualcosa di importante.

Potrei descrivere questo processo a lungo, ma non so spiegare da dove provenga questa corrente. 

 

Come emerge l’armonia dal caos di colori, macchie, linee e schizzi nelle tue opere?

È semplice e complesso allo stesso tempo. Bisogna saper individuare elementi di bellezza nel caos e incorporare l’improvvisazione attorno a questo concetto.

 

 

 

Le tue opere spesso raffigurano donne in modo affascinante e complesso. Cosa ti ispira in queste rappresentazioni?

 

Per me non c’è mai stata una scelta tematica. Qualunque cosa dipinga, è sempre una donna. Scherzo. 

Sono fondamentalmente un’astrattista, ma nella cacofonia dell’assenza di soggetto inizio a vedere l’immagine femminile. Di norma, l’immagine femminile occupa tutto lo spazio sulla tela e non rimane nulla di astratto.

 

 

Hai mai sperimentato altri media oltre alla pittura?

 

La ricerca infinita di mezzi di espressione e materiali! Metallo, filo metallico, carta, carta kraft, giornali, tessuti, schiuma, ecc.

 

 

Le tue opere ci invitano a mettere in discussione il conformismo e le norme sociali. Come si riflette questo concetto nei tuoi dipinti?

 

Accolgo con favore il teppismo nella pittura perché non si può andare contro la propria natura, ma mi piace anche quando è bello.

 

 

Quale messaggio vuoi trasmettere attraverso la tua arte?

 

È difficile da giudicare. Se c’è qualcosa del genere, lo spettatore lo vede, non lo so. Il mio messaggio non è urlare, non stringere le mani, non insegnare, forse è come un bacio a fior di labbra.

 

 

I tuoi insegnanti ti hanno consigliato di non proseguire gli studi accademici per preservare il tuo stile unico. Come hai vissuto questa scelta?

 

Sì, ho avuto una cosa del genere nella mia vita. Non direi che fossero insegnanti, ma per me erano persone autorevoli nel campo delle arti visive.

Un giovane con modesti risultati era contento di sentire parlare della sua individualità. Non capivo di cosa stessero parlando. Cos’è l’individualità? Volevo davvero studiare, affinare le mie competenze professionali, far parte di un team composto dalle stesse persone, ma alla fine ho seguito la mia strada, imparando i segreti della maestria attraverso l’autoformazione.

 

 

 

Quali sono stati i momenti più significativi della tua carriera artistica?

 

Forse è successo quando avevo 12 anni e mi sono imbattuta in una scatola di colori a olio. Mia madre mi ha detto che quei colori le erano stati comprati molto tempo prima, anche lei voleva diventare un’artista, ma qualcosa non ha funzionato. Forse puoi farcela, mi ha detto.

 

 

Hai esposto in numerosi paesi e partecipato a importanti fiere d’arte. In che modo queste esperienze hanno influenzato il tuo percorso artistico?

 

Francamente, non ha influenzato in alcun modo la mia creatività, piuttosto dovremmo parlare di benessere materiale. Certo, quando i tuoi quadri vengono acquistati, c’è un incentivo a dedicarsi solo alla creatività, non alla distrazione dovuta al guadagno.

 

 

 

C’è un’opera d’arte in particolare a cui ti senti più legata? Se sì, perché?

 

Da giovanissimo, vidi all’Hermitage un dipinto di Kees Van Dongen, “Donna con cappello nero”. In questo dipinto rimasi colpito dalla lumeggiatura turchese sul volto della ragazza. Sembrava in contrasto con la cromia generale, ma allo stesso tempo costituiva un accento importante per l’intera opera. In seguito ci furono Van Gogh, Gauguin, Toulouse Lautrec, ma questa fu la mia prima impressione.

 

 

Qual è il tuo rapporto con i collezionisti e il mercato dell’arte contemporanea?

 

I rapporti con i collezionisti possono essere definiti armoniosi. Loro amano la mia arte e io amo la loro. Il mercato dell’arte contemporanea è un concetto metafisico, e bisogna adattarsi. Non c’è amore in esso, solo opportunismo, ma bisogna sempre essere se stessi.

 

 

 

Quali artisti, passati o contemporanei, hanno influenzato il tuo lavoro?

 

Ne ho già parlato in precedenza, potrei aggiungere Valentin Serov, Feshin, I. Repin, Kandinsky, Rembrandt, Picasso, Kathe Kollwitz, anche se ce ne sono molti altri…

 

 

Se potessi collaborare con un artista di qualsiasi epoca, chi sceglieresti e perché?

 

Forse René Magritte o Antoni Tàpies. È difficile dire perché questi artisti in particolare, è più una questione di intuito.

 

 

 

Come vedi il futuro della pittura in un mondo sempre più digitale?

 

Non ci penso, vivo e lavoro oggi.

 

 

Qual è la tua opinione sull’arte astratta e sulla sua evoluzione nel tempo?

 

La mia opinione soggettiva è che l’astrazione sia un’arte molto leggera. È molto piacevole praticarla, chiunque ha questa opportunità, a volte anche gli animali. Non credo che cambierà. La cromoterapia ha un effetto positivo sulle persone e, nell’interiorità, la pittura astratta è un accento insostituibile.

 

 

 

Pensi che l’arte debba avere un ruolo sociale o debba essere semplicemente un’espressione estetica?

 

Personalmente, sono a favore dell’estetica nella pittura in presenza di espressione. È positivo quando un dipinto ha un impatto sullo spettatore.

 

 

Che consiglio daresti ai giovani artisti che vogliono affermarsi nel panorama dell’arte contemporanea?

 

Se un giovane non ha talento come pittore, è meglio fare qualcos’altro, e se c’è talento, più lavoro, non avere fretta di dichiararsi al mondo

Contatti
 

Viktor Sheleg è un artista contemporaneo di origine lettone, la cui opera si distingue per una straordinaria forza espressiva e una visione artistica profondamente personale. Nato nel 1962, vive e lavora attualmente in Lettonia, dove continua a sviluppare la propria ricerca artistica.

Il talento di Viktor Sheleg è emerso fin dalla giovane età. Quando si presentò il momento di intraprendere un percorso accademico formale, furono gli stessi docenti dell’Accademia d’Arte a riconoscere la straordinarietà del suo stile già pienamente formato. A loro avviso, un’istruzione convenzionale avrebbe potuto limitare l’originalità della sua visione artistica; per questo gli venne consigliato di seguire la propria vocazione, dando pieno spazio a un linguaggio espressivo autonomo e distintivo.

La produzione artistica di Sheleg si caratterizza per un profondo senso di libertà e per una riflessione critica sulle convenzioni sociali e il conformismo. Le sue opere invitano lo spettatore a mettere in discussione le norme che regolano la nostra quotidianità, celebrando al contempo la bellezza dell’individualità e dell’autenticità umana. In particolare, i suoi intensi e affascinanti ritratti femminili sono testimoni della sua capacità di cogliere e rappresentare la complessità dell’esistenza umana con rara sensibilità.

L’opera di Viktor Sheleg ha varcato i confini geografici, raggiungendo un pubblico internazionale attraverso la partecipazione a numerose e prestigiose fiere d’arte in tutto il mondo. La sua arte, apprezzata per l’unicità e la forza evocativa, ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama artistico contemporaneo, ispirando critici e appassionati a osservare il mondo attraverso una lente più profonda e poetica.

Oltre alla sua carriera artistica, Viktor Sheleg è sposato con Alla ed è padre di due figli, Maksim e Natasha.

 

Viktor Sheleg is one of those artists who never sought refuge under the reassuring structures of academia. On the contrary, from the very beginning of his artistic journey, he felt the urgency to break free from every pre-established rule, to defy expectations, and to translate the world not through the logic of the visible, but through the subtler and more searing logic of the perceived. Born in 1962 in Latvia, Sheleg grew up surrounded by colors and silences, discovering painting as a necessary act from early childhood. It was his mother, an artist who never had the chance to pursue her path, who gave him his first box of oil paints—a small gesture that proved to be foundational, almost ritualistic, like the passing of a sacred flame.

His artistic path has never been confined to a single expressive identity. Rather, his painting adapts like living skin to the emotion of the moment. The canvas becomes a field of tension where figuration and abstraction coexist, where form and dissolution, concreteness and dream intermingle. It doesn’t matter whether what appears is recognizable to the eye or belongs to the undefined: what matters is the truth of feeling, the fidelity to an inner vibration that guides the gesture and transforms the act of painting into revelation.

In Viktor Sheleg’s work, abstraction is not a chosen language, but an inner urgency, an inevitable way of existing on the canvas. His painting escapes the dictates of form and subject, instead embracing an emotional, instinctive, and deeply visceral grammar. The use of color—never ornamental, never predictable—becomes a revolutionary gesture: it does not respond to a codified aesthetic, but arises from an internal tension, from an authentic vibration that dismantles every scheme.

In his pictorial universe, the observer is not guided by a hierarchical order of color, stroke, and figure. On the contrary, they are suddenly swept away by a chromatic whirlwind that precedes any recognizability, by lines that seem drawn in a state of deep listening, as if the artist’s hand were responding to an inner call more than to a plan. In Sheleg’s work, abstraction is breath, is skin, is flesh. It is space itself becoming emotion.

Each of his works thus becomes an act of exploration, a tireless investigation of a pictorial elsewhere where the mark does not describe but evokes, where the gesture does not represent but reveals. The composition opens to new perceptual dimensions, where balance is born from risk, and beauty manifests in the collision between energy and mystery. In this way, Viktor Sheleg does not paint the abstract—he lives it, inhabits it, crosses it.

The artist has never painted for pleasure or as a profession: he has always painted out of necessity. For this reason, he approaches the canvas only when he feels the urgency, when he senses within himself that irrational and powerful energy seeking a way out. Each of his works is a near-carnal encounter with the invisible. Often, the face of a woman emerges from a sea of signs and colors, like an apparition that asserts itself with both gentleness and authority. The female figure is never a decorative object, but a dominating subject, a symbolic epiphany of interiority.

Thus, his pictorial language becomes liquid, changeable, irregular—and precisely for this reason, authentic. Sheleg aligns visual narration with emotional states, like a musician improvising on the theme of the day, like a poet transcribing a dream without rereading it. In an era that demands definitions, categories, and labels, Sheleg responds with the ambiguity of true art—art that cannot be explained, only experienced. And perhaps this is where the secret of his strength lies: in the absolute fidelity to himself, in the courage not to ask permission—from the eye, nor from the mind, but only from the heart.

 

Giuseppina Irene Groccia

 

 

 

To complete this intense and passionate portrait, we add the words of the artist himself, who in this interview accompanies us into his creative universe, revealing visions, impulses and thoughts that animate his painting.

 

 

 

 

You have said that when you create an image, you are guided
by emotions and energy. Can you tell us more about this creative process?

 

This is a case where
showing is easier than explaining. My subjective opinion is that there are
artists who can animate an inanimate object (painting), and there are those who
are not given it. An artist can possess a high set of technical methods, have a
great experience and enviable diligence, but his pictures have no magnetism,
they are lifeless although they are highly professional. Another example is
when you look at a painting and can not tear your eyes away, although the
artist and does not have a high school of professionalism.

I do not go to the canvas when emotionally empty and do not
treat painting as a job. For me a painting is like a partner with whom I am in
dialogue. I fall asleep thinking about what we haven’t agreed and waking up I
run to tell her something important.

I can describe this process for a long time, but I can’t
explain where this current comes from.

 

 

How does harmony emerge from the chaos of colors, stains,
lines, and splashes in your works?

 

 It’s both simple and
complex at the same time. 
You have to be able to pick out beautiful pieces from the
chaos and incorporate improvisation around that concept.

 

 

 

Your artworks often depict women in a fascinating and
complex way. What inspires you in these representations?

 

For me there has
never been a choice of topic . No matter what I paint, it’s always a woman.
Just kidding. I’m basically an abstractionist, but in the cacophony of the
subjectless I start to see the female image. As a rule, the female image takes
up all the space on the canvas and there’s nothing left of abstraction.

 

 

Have you ever experimented with other media besides
painting?

 

The endless search
for means of expression and material! Metal, wire, paper, kraft, newspaper,
textiles, foam, etc.

 

 

 

Your work invites us to question conformity and social
norms. How is this concept reflected in your paintings?

 

I welcome hooliganism
in painting because you can’t go against your nature, but I also like it when
it’s beautiful.

 

 

What message do you want to convey through your art?

 

That’s hard to judge.
If there is something like that, the viewer sees it, I don’t know about it. My
message is not shouting, not clasping hands, not teaching, maybe it’s like an
air kiss.

 

 

 

Your teachers advised you not to pursue academic education
in order to preserve your unique style. How did you experience this choice?

 

Yes, I had such a thing in my life. I wouldn’t say they were
teachers, but they were authoritative people in the visual arts for me. 
A young man with modest achievements was pleased to hear
about his individuality. I didn’t understand what they were talking about. What
is individuality? I really wanted to study, master professional skills, be in a
team of the same people, but in the end I went my own way, learning the secrets
of mastery through self-education.

 

 

 

 

What have been the most significant moments of your artistic
career?

Maybe it happened when I was 12 and I came across a box of
oil paints. My mom said that these paints were bought for her a long time ago,
she also wanted to become an artist, but something didn’t work out. Maybe you
can do it, she said.

 

 

You have exhibited in
numerous countries and participated in important art fairs. How have these
experiences influenced your artistic journey?

 

Frankly speaking, it did not affect my creativity in any
way, rather, we should talk about material well-being. Of course, when your
paintings are bought, there is an incentive to engage only in creativity, not
distracted by making money.

 

 

 

Do you have a particular artwork that you feel most
connected to? If so, whу?

 

When I was very
young, I saw a painting by Kees Van Dongen, “Woman in a Black Hat”, in the
Hermitage. In this painting, I was struck by the turquoise highlight on the
girl’s face. It seemed to be at odds with the overall color scheme, but at the same
time it was an important accent of the entire work. Later, there were Van Gogh,
Gauguin, Toulouse Lautrec
, but this was my first impression.

 

 

What is your
relationship with collectors and the contemporary art market?

 

Relations with collectors can be called harmonious. They
love my art and I love theirs. 
The contemporary art market is a metaphysical concept, and
you have to adjust to it. There is no love in it, only expediency, but you
always have to be yourself.

 

 

 

 

Which artists, past or contemporary, have influenced your
work?

 

I have already
written about it earlier, I can add Valentin Serov, Feshin, I. Repin,
Kandinsky, Rembrandt, Picasso, Kathe Kollwitz,
although there were many
more….

 

 

If you could collaborate with an artist from any era, who would
you choose and why?

 

Maybe René Magritte
or Antoni Tàpies .It’s hard to say why these particular artists, it’s more of an
intuitive.

 

 

 

 

How do you see the future of painting in an increasingly
digital world?

 

 I don’t think about
it, I live and work today.

 

 

What is your opinion on abstract art and its evolution over
time?

 

My subjective opinion
is that abstraction is a very lightweight art. It is very pleasant to do it,
any person has such an opportunity, and sometimes animals too. I don’t think that’s
going to change. Color therapy has a good effect on people, and in the interior
abstract painting is an irreplaceable accent.

 



 

Do you think art should have a social role, or should it
simply be an aesthetic expression?

 

Personally, I’m in
favor of aesthetics in painting in the presence of expression. It’s good when a
painting has an impact on the viewer.

 

 

What advice would you give to young artists who want to
establish themselves in the contemporary art scene?

 

If a young man has no
talent as a painter, it is better to do something else, and if there is talent,
more work, do not rush to declare themselves to the world.

 

 

 

 

 

Contacts

 

Web Site www.artsheleg.com

Viktor Sheleg is a contemporary Latvian artist whose work is distinguished by its expressive power and deeply personal artistic vision. Born in 1962, he currently lives and works in Latvia, where he continues to pursue his artistic exploration.

Viktor Sheleg’s talent was evident from an early age. When the time came to pursue formal academic training, the professors at the Academy of Art recognized the exceptional quality of his already well-formed artistic style. They advised him to forgo conventional education in favor of cultivating his distinctive and independent creative voice.

Sheleg’s artistic output is characterized by a profound sense of freedom and a critical reflection on social conventions and conformity. His work invites viewers to question the norms that shape our everyday lives, while celebrating the beauty of individuality and authenticity. Particularly striking are his intriguing depictions of women, which stand as a testament to his remarkable ability to capture and convey the complexity of human existence.

Viktor Sheleg’s art has transcended geographical boundaries, gaining international recognition through participation in numerous prestigious art fairs around the globe. His unique and evocative style has left an indelible mark on the contemporary art scene, inspiring critics and art enthusiasts alike to view the world through a more poetic and introspective lens.

In addition to his artistic career, Viktor Sheleg is married to Alla and is the father of two children, Maksim and Natasha.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

Il Blog L’ArteCheMiPiace da l’opportunità ad artisti emergenti ed affermati di usufruire di una vetrina in cui proporre il proprio talento, operando per la promozione e la valorizzazione degli stessi.

 

Ogni progetto promozionale diffuso sulle pagine di L’ArteCheMiPiace, compreso l’intervista, è soggetto a selezione e comprende approfondimento dei materiali forniti con consulenza, ricerca, redazione e diffusione.

 

 

Invia la tua candidatura alla seguente email: gigroart23@gmail.com

 

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My Favourites

MAC/CCB Museum of Contemporary Art

 

MAC/CCB Museum of Contemporary Art

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia  |24|Ottobre|2024|

 

In una mattinata di settembre, mentre Lisbona si presentava avvolta da una leggera nebbia che scivolava sulle acque del fiume Tago, mi sono imbattuta in un luogo di straordinaria bellezza proprio nel mentre cercavo il Museo Coleção Berardo, che si rivelava piuttosto difficile da individuare.  

 

Nei pressi della LXFactory, avevo trovato il Berardo Museum of Art Deco, ma ho presto capito che non era la destinazione che cercavo in quanto  è esclusivamente dedicato alle collezioni di Art Nouveau e Art Déco del suo fondatore, Joe Berardo.

 

 

 

Continuando la mia ricerca, ho scoperto che il Museo Coleção Berardo, riconosciuto come il principale museo di arte moderna e contemporanea in Portogallo e ospitante una straordinaria collezione accumulata dal suo fondatore nel corso di vent’anni, è stato integrato ad ottobre del 2023, insieme ad altre prestigiose collezioni, all’interno di un vasto centro culturale situato nell’affascinante area di Belém.

 

 

 

Questo complesso, chiamato Fondazione Centro Cultural de Belém, è la più grande istituzione culturale del Portogallo e propone un’ampia gamma di discipline artistiche. Al suo interno, è possibile assistere a spettacoli di balletto e opera, partecipare a conferenze, e usufruire di caffè e ristoranti. Inoltre, ospita negozi d’arte e incantevoli giardini, con il Museo d’Arte Contemporanea MAC/CCB che funge da struttura espositiva di grande rilevanza.

 

 

 

 

Il Museo d’Arte Contemporanea MAC/CCB, è il frutto della fusione di due istituzioni, il Centro Cultural de Belém e il Museo Berardo. Questa integrazione ha portato alla creazione di un’entità unica e dinamica, capace di attrarre visitatori da tutto il mondo. Questa nuova struttura ospita importanti capolavori provenienti da prestigiose collezioni private, tra cui appunto la Collezione Berardo, la Collezione Ellipse e la CACE – Collezione di Arte Contemporanea dello Stato. Oltre alle collezioni permanenti, il museo organizza mostre temporanee che offrono una prospettiva storica sull’arte contemporanea, favorendo una comprensione più profonda e un’esperienza estetica immersiva. Queste esposizioni potenziano il dialogo tra arti visive, architettura e arti performative, presentando opere di artisti contemporanei e arricchendo il panorama culturale con nuove visioni artistiche. Il tutto si colloca nel contesto globalizzato dell’arte contemporanea, rendendo il MAC/CCB un importante punto di riferimento culturale. 

 

Andy Warhol

 

La Collezione Berardo è riconosciuta a livello internazionale per il valore delle sue opere emblematiche. Con circa 900 opere di oltre 500 artisti, essa rappresenta una straordinaria gamma di circa 70 tendenze artistiche, tra cui il cubismo, il dadaismo, il surrealismo, l’espressionismo astratto, il neodadaismo, il Nouveau Réalisme e la pop art. Questa ampia selezione dimostra il forte carattere museale e didattico della collezione, rendendola una vera e propria piattaforma per l’osservazione e la riflessione su un secolo di storia dell’arte.

 

 

 

 

All’interno dei suoi spazi, il percorso espositivo si snoda attraverso i principali movimenti artistici, rappresentati dalle opere degli artisti più emblematici e rinomati. Ogni sala è dedicata all’approfondimento di una specifica corrente artistica, mettendo in luce le figure chiave che ne hanno segnato lo sviluppo. Queste figure, fondamentali per l’evoluzione dell’arte moderna e contemporanea, permettono al pubblico di intraprendere un viaggio attraverso il tempo, offrendo una comprensione più approfondita dei contesti culturali, sociali e politici in cui tali movimenti sono nati e si sono sviluppati.

 

 


Video del 
percorso espositivo che si snoda attraverso i principali movimenti artistici, rappresentati dalle opere degli artisti più emblematici e rinomati.

 

 

Pablo Picasso

 

Nomi di spicco come Pablo Picasso, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Piet Mondrian, Joan Miró, Max Ernst, Francis Bacon, Andy Warhol, Yves Klein, René Magritte, Frank Stella, Gerhard Richter, Robert Rauschenberg, Jim Dine, Roy Lichtenstein, Gérard Deschamps, Christo, Louise Bourgeois, Jackson Pollock, Man Ray, Franz Kline, Balthus, Paula Rego, Maria Helena Vieira da Silva, Fernand Léger, Equipo57, Donald Judd, Bruce Nauman, Joan Mitchell e Cindy Sherman, tra molti altri, vengono presentati all’interno dei movimenti artistici che le loro opere hanno contribuito a definire. 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Lucio Fontana

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Giorgio De Chirico

 

Tra questi, spiccano anche numerosi artisti italiani, Giorgio De Chirico, Lucio Fontana, Amedeo Modigliani, Giorgio Morandi, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Emilio Greco, Mimmo Rotella, Renato Guttuso e Piero Manzoni, i quali offrono un contributo di grande rilevanza alla narrazione artistica.

Per me è stata un’emozione straordinaria poter ammirare dal vivo capolavori di maestri come Lucio Fontana, Mimmo Rotella e molti altri, le cui opere incarnano l’essenza delle avanguardie italiane e internazionali.

 

 

 

 

In questi spazi, in cui l’arte si fa esperienza condivisa, ci ricordiamo che la bellezza può trascendere le parole e contagiare il cuore. Un’opera d’arte, in fondo, è un ponte tra le anime, un invito a sognare insieme, a dare vita a conversazioni che si intrecciano nel silenzio, a lasciarci ispirare da ciò che ci è estraneo ma che, allo stesso tempo, ci sembra intensamente nostro. 

 



 

Concludo la visita portando con me non solo le immagini delle opere, ma una sensazione di rinnovata vitalità, un ricordo di come la bellezza possa trasformare momenti di vita in esperienze indimenticabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ernesto Neto Nosso Barco Tambien Terra

 L’ArteCheMiPiace – Favourites

 

 

 

Ernesto Neto

 

Nosso Barco

Tambien Terra 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |03|Ottobre|2024|

 

 

 

Ernesto Neto, tra i più rinomati artisti brasiliani a livello internazionale, propone attualmente presso il MAAT di Lisbona, un’installazione immersiva che esplora l’interazione tra culture di diversi continenti.

 

 

A cura di Jacopo Crivelli Visconti, “Nosso Barco Tambor Terra” [la nostra terra di tamburi e barche] è una delle opere più monumentali create da Neto. 

L’installazione nasce da un intenso lavoro di mesi, durante i quali l’artista ha dialogato con l’architettura del MAAT e il contesto storico circostante, profondamente legato al passato marittimo delle caravelle che partirono verso il Nuovo Mondo. 

 

 

 

La mostra interattiva di Ernesto Neto offre un’esperienza sensoriale che coinvolge completamente il visitatore, stimolando tatto, udito e movimento. Nei giorni scorsi ho avuto l’opportunità di visitare la mostra e, ancor prima di varcare la soglia del Museo di Arte, Architettura e Tecnologia, sono stata accolta dal ritmo ipnotico di tamburi e percussioni, che creava un’atmosfera rituale e coinvolgente. Questo suono avvolgente mi ha accompagnata mentre mi avvicinavo alla grande sala ovale del museo, dove si svelava l’universo artistico di Ernesto Neto.

Le opere occupano l’intero spazio, trasportando chi le osserva in una dimensione sospesa tra arte e architettura. Le installazioni, realizzate in chintz, un tessuto di cotone comunemente utilizzato in Brasile, si distinguono per i colori vivaci e le texture lavorate all’uncinetto. Il tessuto, tagliato in strisce e intrecciato con abilità, forma strutture imponenti e morbide al contempo, che invitano il visitatore a toccare, esplorare e lasciarsi avvolgere.

L’opera di Neto è visiva, ma allo stesso tempo fisica e immersiva. Camminare a piedi scalzi attraverso queste strutture è parte integrante dell’esperienza, un modo per entrare in contatto diretto con i materiali e lo spazio circostante. Ogni passo, ogni gesto è accompagnato dal suono costante delle percussioni, che riempie l’aria e accentua la sensazione di connessione con l’ambiente. La tecnica utilizzata dall’artista, perfezionata nel suo studio a Rio de Janeiro, l’atelienave, si riflette nella complessità e nella delicatezza delle opere, che raccontano storie di collettività e cooperazione.

 

 

 

Ernesto Neto rappresenta uno degli artisti più emblematici nel panorama dell’arte contemporanea, in grado di fondere estetica e esperienza in un percorso che ama spingersi verso il multisensoriale. Al centro della sua opera c’è una continua ricerca dell’unità tra ciò che è apparentemente separato: corpo e mente, natura e cultura, individuo e collettivo. L’arte di Neto è profondamente relazionale, essa unisce il visitatore all’opera in un rapporto simbiotico e mutualistico, dove l’atto del toccare e dell’essere toccati diventa parte fondamentale del processo artistico.

 



 

In un mondo in cui spesso la dimensione fisica è trascurata a favore di quella intellettuale, Neto invita a riscoprire l’interazione sensoriale con il corpo e con la materia. Le sue installazioni interattive richiedono la partecipazione attiva dello spettatore, che viene incoraggiato a esplorare attraverso i sensi. Le dita, i piedi, persino l’udito, sono strumenti di percezione che stabiliscono un dialogo diretto con le opere, come accade qui, in questa mostra allestita al MAAT di Lisbona.

La fisicità non è mai fine a sé stessa: ogni materiale utilizzato – dal chintz brasiliano alle strutture tattili lavorate all’uncinetto – porta con sé una carica simbolica e culturale, che si nutre della tradizione e della manualità artigianale. In questo senso, l’arte di Neto diventa “multinaturale”, un concetto che riconosce con forza la molteplicità dei significati della natura, favorendo la pluralità di connessioni possibili tra esseri viventi e materiali. Non è una visione gerarchica o dualistica, ma una rete interdipendente, dove ogni elemento esiste in relazione con l’altro.

Negli ultimi anni, Ernesto Neto ha ampliato il suo repertorio artistico, dedicandosi anche al mondo delle percussioni. Questo nuovo interesse è al centro della sua più grande installazione realizzata fino a oggi, dove la musica diventa parte integrante dell’esperienza sensoriale. Questa opera che incorpora una varietà di strumenti, si anima periodicamente attraverso un programma musicale orchestrato da musicisti e gruppi provenienti da ogni angolo del globo. In particolare, l’installazione dà risalto ai ritmi delle diaspore africane e asiatiche, esplorando la potenza ancestrale della musica come forma di espressione collettiva. Questo dialogo tra suono e spazio è un  accompagnamento,un elemento essenziale che trasforma l’opera in una vera esperienza interattiva. I visitatori sono invitati a prenderne parte attivamente, immergendosi in un mondo di vibrazioni e battiti, dove ogni ritmo evoca storie, tradizioni e legami culturali che attraversano confini geografici e temporali. Neto riesce così a creare un ponte tra arte visiva e musicale, esplorando il potere unificante del suono in una dimensione che va oltre il linguaggio verbale.

La musica, con i suoi ritmi ancestrali, viene utilizzata come accompagnamento e come strumento vibrante che risuona nell’installazione. Il tamburo, il caxixi, il flauto, la maraca e il canto creano un ambiente sonoro che amplifica l’esperienza, agendo come una forza collettiva che unisce i partecipanti. La musica si trasforma così in una sorta di collante invisibile, che incarna l’energia vitale condivisa tra uomo e natura.

 

 

 

L’installazione diventa quindi un luogo di interazione, di condivisione, dove ogni individuo, pur nella propria unicità, è parte di un tutto. Neto sembra dirci che nell’arte, così come nella vita, esiste un equilibrio delicato tra indipendenza e interdipendenza. I visitatori, camminando scalzi tra i materiali naturali e lasciandosi avvolgere dai suoni, si connettono all’opera, così come all’intero sistema vivente, diventando parte di una comunità sensoriale temporanea.

In un’epoca di distacco crescente tra uomo e ambiente, l’arte di Ernesto Neto ci invita a rallentare, a percepire e ad ascoltare ciò che ci circonda. Non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo e con il cuore, riattivando una sensibilità che la modernità ha spesso anestetizzato. Questa sua opera immersiva è un richiamo a vivere l’arte e la vita come esperienze profonde di scambio, in cui tutto è connesso e niente esiste in isolamento.

 

 

 

La mostra, aperta fino al 7 ottobre 2024, invita il visitatore a vivere un’esperienza profondamente immersiva, dove corpo, spazio e ritmo si fondono in un dialogo armonico. Un percorso che supera la contemplazione visiva, trasformandosi in un coinvolgente scambio sensoriale. Ogni interazione all’interno della mostra diventa un’opportunità per esplorare nuove forme di consapevolezza e senso. L’arte, in questo caso, non è più solo un oggetto da contemplare, ma un’esperienza da vivere intensamente. Il percorso coinvolge a tal punto da trasformare ogni passo in un viaggio interiore che lascia una traccia duratura, in grado di connettere il visitatore al mondo in modi inaspettati e significativi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato nel 1964 a Rio de Janeiro, dove tutt’ora vive e lavora, Ernesto Neto ha studiato presso la Escola de artes visuais do Parque Lage di Rio dal 1994 al 1997, frequentando contestualmente il Museo di Arte Moderna di San Paolo.

La ricerca artistica di Ernesto Neto, conosciuto per le sue grandi installazioni realizzate con la tecnica dell’uncinetto, garze, spezie e pietre, trae ispirazione da un’ampia varietà di fonti: da tradizioni moderniste dell’astrazione biomorfica, l’Arte Povera ed il Minimalismo Americano, fino alle recenti eredità del Neoconcretismo brasiliano, riuscendo ad unire influenze apparentemente disparate in un linguaggio coerente ed armonioso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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My Favourites

Jago Il Rinascimento Contemporaneo

L’ArteCheMiPiace – My Favourites

 
 
 
 
 
Jago
 
Il Rinascimento Contemporaneo 
 
 
 
 
 
di Giuseppina Irene Groccia  |22|Agosto|2024|
 

 

Jago!
Un nome altisonante nel contesto dell’arte contemporanea. Un artista capace di attraversare
i confini della tradizione e della modernità in un abbraccio che utilizza il
marmo e i digitali mitologici della nostra era come mai prima! Che cosa dire di
lui? Egli incarna una sintesi espressiva potente, osmosi di passato e futuro.
Alla stregua di un fantomatico Michelangelo che, grazie alla macchina del tempo,
rivive in un’epoca in cui il pubblico non si accontenta più della
contemplazione silenziosa, ma cerca un’interazione diretta e «corporale» con
l’artista.

Jago nasce a Frosinone
nel 1987. Egli incarna una nuova generazione di artisti che non disdegnano i
valori delle tecniche tradizionali, riuscendo a rielaborarle in virtù di un
adeguamento al quotidiano reale nel contesto sociale contemporaneo. Egli
dimostra quanto il marmo e la sua
«unicità» nel panorama dei
materiali nella storia dell’arte, sia in grado di instaurare un dialogo attivo
nella rappresentazione delle problematiche contemporanee.

Il suo background
formativo presso l’Accademia di Belle Arti può essere intravisto come quel seme
che gli ha consentito l’ispirazione di opere di straordinaria intensità. Già nelle
sue prime esposizioni come quella iconica al Palazzo Venezia durante la
Biennale di Venezia nel 2009, si avverte l’aspirazione a superare i confini
convenzionali della scultura, trasformando il marmo in un autentico mezzo di
analisi approfondite. Ad esempio la scultura di Papa Benedetto XVI, premiata
con la Medaglia Pontificia, è un manifesto della sua capacità di coniugare
tradizione e innovazione.

 

Il Guardian lo ha definito
come “il nuovo Michelangelo”: un artista che ha saputo dare un ruolo che
appariva smarrito, alla scultura del ventunesimo secolo. Le opere di Jago pur
rimanendo ancorate alle raffinate tecniche del Rinascimento italiano vogliono
stabilire un dialogo autentico con la quotidianità contemporanea. La scultura è
disciplina nobile ma troppo spesso percepita come un linguaggio superato e
inaridito, finalmente trova in lui una rinascita sorprendente. Al marmo considerato
un materiale
«imperturbabile», egli riesce a
conferire vita e movimento, consentendo all’opera di riacquistare una vitalità ben
immersa nel presente. Questo atto creativo trascende il tempo e fa dialogare la
solidità della pietra con i profondi stati d’animo e le poetiche attuali. È il
merito della sua visione innovativa e del talento straordinario che questa
forma d’arte ha trovato una nuova linfa vitale e un rinnovato
significato. 

 

Jago – “David” 2021

Attraverso l’uso di
tecniche tradizionali fuse con un approccio contemporaneo Jago riesce a
reinterpretare e riconsiderare la scultura, ponendo attenzione non solo
all’aspetto estetico, ma anche a quello interattivo. Ogni sua opera
diventa un invito per lo spettatore a riflettere e a immergersi in un universo
in cui il passato convive armoniosamente con il presente, dove il marmo si
trasforma in un veicolo narrativo capace di raccontare storie di umanità e sensibilità,
rendendo la scultura una affascinante esperienza esistenziale. Il suo sguardo
attento e magnetico si dedica a un’analisi meticolosa dei dettagli, dando vita
a sculture che palpitano di una profonda vita interiore, di autentiche ellissi
di umanità. In questo modo egli ricolloca l’anatomia umana – volti, mani, corpi
– al centro di una narrazione che mescola sapientemente il sacro e il profano.

 

Jago – “Narciso” 2023

Jago concepisce ogni
sua creazione come un ponte comunicativo che collega l’artista con il pubblico.
Le sue opere diventano veri e propri dialoghi tra culture, generazioni e
storie, invitando tutti a una condivisione di esperienze e significati che
vanno oltre il tempo e lo spazio. Ogni scultura diventa un canale attraverso il
quale trasmettere idee e riflessioni.

 

Jago Museum by Tommaso Zijno

In questo processo, l’artista
sfrutta il vasto spazio multimediale e del web. Non a caso è universalmente
noto come “The Social Artist” per le innate capacità comunicative e il grande
successo che riscuote sui social. Nel contesto attuale caratterizzato dalla
rapidità e dalla superficialità dei mezzi di comunicazione, l’artista ha saputo
trasformare i social network in un’estensione del suo studio, condividendo il
processo creativo e instaurando un dialogo diretto con il pubblico. Un pubblico
che lo ama e lo ricompensa con una vincente interazione da fare invidia alle
rockstar più acclamate.

 

Jago – “Apparato circolatorio” 2017

Ed è in questa cornice che
il dibattito si infittisce. La critica è radicalmente divisa: da un lato c’è
chi riconosce in Jago un talento sensibile dal rinnovato virtuosismo;
dall’altro quelli che si distinguono per il loro snobismo accademico,
liquidando il suo impegno come mera operazione di marketing e tacciandolo come un
fenomeno social che al contrario non vuole rendersi conto di quello che sta
accadendo: il suo è un logico percorso di un’evoluzione naturale
dell’arte! Se Michelangelo avesse avuto accesso a strumenti simili, non li
avrebbe utilizzati per amplificare la propria visione artistica? Se
Michelangelo avesse avuto i social media sarebbero diventati uno strumento
naturale nelle sue mani, amplificando la sua voce e la sua creatività in modi
che oggi possiamo solo immaginare! 

 

 

Jago – “Pietà” 2021

A partire dal maggio
2023, la Chiesa seicentesca di Sant’Aspreno ai Crociferi situata nel cuore del
rione Sanità di Napoli ha intrapreso una nuova vita, grazie allo spazio
prestato come museo permanente dedicato alle maestose sculture di Jacopo
Cardillo, in arte Jago. Il giovane scultore vanta un curriculum
prestigioso per le sue partecipazioni alla Biennale d’arte di Venezia fino alle
installazioni esposte in città come Roma e New York. Attualmente, l’artista sta
vivendo un periodo particolarmente proficuo: tra le sue opere più celebri si
annoverano Il Figlio VelatoLa PietàHabemus
Hominem
 (che presenta un busto di Papa Benedetto XVI spogliato) e
opere come DavidVenere e Aiace &
Cassandra
.

Il suo operato
artistico è un’affermazione di grande impatto in grado di stimolare riflessioni
critiche su temi contemporanei. Ogni sua creazione è intrisa di significati,
una fusione tra abilità tecnica con un forte messaggio simbolico. In una delle
sue opere più provocatorie, Monumento al Libero Pensiero,
realizzata nel 2016 e conservata nel Castello di Poppi, Jago ha scelto la
ghigliottina come simbolo del potere oppressivo in riferimento alla figura del
poeta Tommaso Baldassarre Crudeli, il quale ha pagato un prezzo altissimo per
le sue idee. La ghigliottina materiale in legno, marmo e acciaio diventa così
un monito decisivo in merito alla questione fondamentale della libertà di
espressione: proprio la sua distruzione ha ulteriormente reiterato il dibattito
sulla vulnerabilità dell’arte rispetto ai contesti socio-culturali e alle
reazioni pubbliche.

 

 

 

Jago – “Muscolo minerale” 2017

Al contrario, Muscolo Minerale, attualmente esposto
nello Jago Museum, si distingue per una accortezza poetica diversa. In questo
caso Jago esplora il concetto di vulnerabilità e resistenza attraverso il marmo
e il sasso di fiume, creando un cuore scavato che sembra pulsare dentro la
durezza del materiale. Questa riflessione sull’anima umana intrappolata in una
corazza di pietra è un invito a contemplare la delicatezza della vita, rendendo
l’arte un rifugio di forte commozione.

 

 

Jago – “Donald” 2018

Con Donald,
esposta per la prima volta al The Armory Show di New York nel 2018, Jago si lancia
nel campo della critica sociale attraverso un soggetto controverso: un bambino
con l’iconica pettinatura di Donald Trump. L’opera solleva interrogativi sul
potere e sull’innocenza, suggerendo una connessione tra l’infanzia e la
politicizzazione precoce della società contemporanea. La scelta del soggetto permette
a Jago di affrontare il tema della manipolazione dell’identità fin dalla
giovane età.

 

 

Jago – “Venere” 2018

Un altro aspetto
cruciale del lavoro di Jago è il suo approccio innovativo riguardo alla
creazione e alla
«condivisione» dell’arte. Nella
realizzazione della “Venere”, presentata al Museo Carlo Bilotti e
successivamente a New York, egli ha portato il suo pubblico all’interno del
processo creativo, mostrando in diretta e attraverso i social media, i
progressi della scultura: egli rispondendo ai commenti e invitando i suoi
follower a diventare parte dell’esperienza artistica ha dimostrato la
flessibilità comunicativa del gesto artistico. Questa apertura al pubblico
tramite la tecnologia ridefinisce il ruolo di Jago come scultore
«veramente»
contemporaneo,
trasformandolo in un narratore interattivo.

 

Jago – “Venere” (Dettaglio) 2018

La “Venere”
di Jago rappresenta una potente reinterpretazione del concetto classico di
bellezza, capovolgendo le tradizionali aspettative estetiche legate alla
perfezione e giovinezza. In questa scultura sfida apertamente gli stereotipi
convenzionali, incarnando una bellezza che risiede non nella superficie liscia
e impeccabile di un corpo ideale, ma nella profondità e autenticità dell’anima.
La sua Venere è una donna anziana, i cui segni del tempo non sono mascherati,
ma anzi esposti con orgoglio: rughe, pieghe della pelle e imperfezioni
diventano qui testimonianze della vita vissuta, di un corpo che porta con sé la
memoria del passato. L’opera perde la semplice rappresentazione fisica,
divenendo un racconto scolpito in marmo. Le membra che si mostrano affaticate
dal tempo non sono simbolo di declino, ma di resistenza, di una grazia che
persiste proprio perché radicata nella realtà di ciò che è stato. Egli riesce a
catturare l’energia emotiva del tempo che passa, rendendo la decadenza un
simbolo di una bellezza più profonda, fatta di ricordi, esperienze e vita
vissuta. Un dettaglio particolarmente significativo è lo sguardo della Venere.
Gli occhi della scultura sembrano seguire lo spettatore, invitandolo a un
dialogo silenzioso ma intenso. Questo elemento crea un’interazione intima e
magnetica, in cui la scultura non è solo osservata, ma diventa un interlocutore
che racconta una storia, stimolando riflessioni su temi universali come la
mortalità, il trascorrere del tempo e l’essenza della bellezza. Gli occhi della
Venere carichi di vita sono il gesto più eloquente nel trasmettere
vulnerabilità e forza contrapposte.

 

Jago – “Venere” (Dettaglio) 2018

Realizzata con il
prezioso marmo Bianco Lasa/Covelano “Vena Oro”, proveniente dalle Alpi della
Val Venosta, la Venere di Jago beneficia di un materiale che ne amplifica
l’espressività. Questo marmo, noto per la sua grana fine e il colore bianco
traslucido, conferisce alla scultura una luminosità calda e raffinata. Le sue
venature dorate presenti nella variante “Vena Oro” aggiungono un ulteriore
livello di preziosità e suggeriscono una qualità quasi mistica al corpo
scolpito. Il marmo diventa non solo un supporto fisico, ma anche un elemento
narrativo che dialoga con la forma, contribuendo a esaltare il contrasto tra la
durezza del materiale e la delicatezza emotiva che l’opera trasmette.

 

Jago – “Habemus Hominemm” Spoliazione 2009/2016

Habemus Hominemm
è l’opera che ha lanciato la carriera di Jago e ha lasciato un segno nel
panorama artistico contemporaneo. Attraverso il busto di Papa Benedetto XVI
l’artista ha unito reverenza e provocazione, culminando in una performance di
“spoliazione” che rispecchia il tema della vulnerabilità dell’autorità: egli
crea un dialogo sull’ideale religioso messo a confronto con la realtà
contemporanea. L’opera iniziata nel 2009 come un ritratto di Papa Benedetto XVI
ispirato alle celebri opere di Adolfo Wildt si è caratterizzata per forza
evocativa in seguito all’abdicazione del Papa nel 2013. Il giovane scultore si
è spinto al di là delle venerate sembianze papali: in realtà si celava un uomo
da liberare nella sua potente immagine iconica. Questa metamorfosi da Habemus
Papam
 a Habemus Hominem non è semplicemente un cambio
di titolo, ma di prospettiva. Jago invita il pubblico a una riflessione più
profonda sul significato dell’umanità, incarnata in chi detiene il potere. Il
marmo, materiale
«stabile
e all’immortale
»
,
diventa la prigione di una figura che, nonostante la sua imponenza, è intrisa
di vulnerabilità.

 

Jago – “Habemus Hominemm” Spoliazione 2009/2016

L’importanza dell’opera
è stata riconosciuta fin dalle prime esposizioni, in particolare con la
presentazione alla Biennale di Venezia, dove Jago ha esposto alla presenza dell’autorevole
figura di Vittorio Sgarbi. Questo importante evento ha rappresentato una
vetrina fondamentale per l’artista, che ha rivendicato con vigore la sua
presenza sulla scena artistica internazionale, consacrandosi come uno dei
principali protagonisti della scultura contemporanea. Il valore dell’opera è
stato ulteriormente convalidato dal riconoscimento del Papa, il quale ha
conferito a Jago la Medaglia del Pontificato. Un attestato di valore artistico
che evidenzia il dialogo tra arte e spiritualità, un elemento valoriale
artistico che continua a caratterizzare il lavoro dell’artista.

 

Jago – “Il Figlio Velato” 2019

La scultura Figlio
velato
 di Jago rappresenta una potente riflessione sulla morte degli
innocenti nel nostro tempo, incapsulando un messaggio di profonda attualità
all’interno di un’opera dallo straordinario impatto visivo. Scolpita da un
unico blocco di marmo l’immagine del fanciullo coperto da un velo evoca
immediatamente il celebre Cristo Velato di Giuseppe
Sammartino, ma la reinterpretazione di Jago porta il dialogo artistico in una
direzione decisamente al passo con i nostri tempi. Invece di celebrare il
sacrificio di un individuo per la collettività, Figlio velato ci
invita a riflettere sulla fragilità dei più innocenti e sul dolore che spesso
ignoriamo. La scelta di fissare nel marmo una rappresentazione così carica di
significato sociale costringe lo spettatore a confrontarsi con una realtà che,
seppur presente nei dibattiti contemporanei, tende tuttavia a insabbiarsi
nell’indifferenza collettiva.

 

Jago – “Il Figlio Velato” (Dettaglio) 2019

Il lungo processo
creativo che ha condotto Jago lavorare tra New York e Long Island testimonia la
rilevanza della collocazione di tale opera nel contesto del rione Sanità. Si
tratta di una impegnata opera d’arte che lancia un monito, una chiamata al
risveglio delle coscienze e a non voltarsi dall’altra parte di fronte alle
ingiustizie del nostro tempo. Con la sua intensità egli riesce a trasformare il
marmo in un invito al confronto sul proprio ruolo nella società. L’opera Look
Down
concepita durante il lockdown rappresenta simbolicamente l’innocenza
perduta e la fragilità umana in un momento di crisi globale. 

 

Jago – “Look Down” 2020

Si tratta di un’idea
che si configura come un potente grido d’allarme di fronte a una delle realtà
più strazianti della nostra società: la presenza dei senzatetto. Ispirata da
una sua personale esperienza durante una visita a New York nel 2018, l’artista
ha creato una scultura che comunica con immediata incisività l’innocenza e la debolezza
del bambino addormentato, una figura che emerge in contrasto drammatico con la
durezza della vita di strada. L’artista italiano ha recentemente presentato la
sua scultura “Look Down” al Thomas Paine Park di New York, un evento
che ha suscitato grande interesse sia per il valore artistico dell’opera, che
per la presenza di una personalità di rilievo: Caryn Elaine Johnson meglio
conosciuta come Whoopi Goldberg. 

 

 

 

 

In anteprima mondiale al Tribeca Film Festival 2024 “Jago Into the White”

La celebre attrice, doppiatrice e produttrice
cinematografica ha presentato in quell’occasione anche il primo film
documentario, JAGO: Into the White, durante il prestigioso Tribeca
Film Festival di New York. L’opera ha riscosso unanimi consensi.
Successivamente il docufilm è stato proiettato in Italia in due date uniche,
nel mese di giugno in sale cinematografiche selezionate. La partecipazione dell’attrice
e conduttrice televisiva ha aggiunto un elemento di prestigio all’evento,
enfatizzando il potere trasversale dell’arte nel connettere persone di origini
e background professionali differenti.

 

Jago e Whoopi Goldberg inaugurano “Look Down” a New York

Il 17 luglio 2024 infatti in
un clima di grande partecipazione collettiva si è svolta la cerimonia di
inaugurazione, alla quale hanno preso parte numerosi rappresentanti delle
istituzioni locali, artisti, e appassionati d’arte. In questa cornice Jago ha
avuto modo di raccontare il percorso che ha portato alla creazione di
“Look Down”, un’opera che sollecita una riflessione su temi di
giustizia sociale. L’opera in armonioso dialogo con il contesto urbano colpisce
per il suo impatto visivo, e si distingue come invito all’introspezione: vuole
suscitare nel pubblico una risposta che trascende la semplice osservazione
estetica e trasformarla in un’esperienza immersiva toccante. L’opera resterà
esposta fino a ottobre 2024 e offre ai visitatori l’opportunità di riflettere
sul suo profondo messaggio, che vuole essere un richiamo alla responsabilità
collettiva e alla compassione verso chi vive ai margini della società.

 

Jago – “Pietà” 2021

La “Pietà” di
Jago si impone invece come un’opera monumentale e capace di sprigionare una
forza visiva che tocca profondamente l’animo dello spettatore. La scultura,
lucida e finemente dettagliata come un capolavoro rinascimentale ritrae un
padre desolato che sostiene il corpo senza vita del suo giovane figlio. La
smorfia di dolore che traspare dal suo volto è straziante e capace di catturare
la pietà di ogni essere umano. Pur richiamando alla mente la celebre Pietà di
Michelangelo l’opera di Jago la rielabora attraverso le lenti di una realtà
contemporanea, evocando l’eco di un trauma moderno simile a quello di una
fotografia scattata in zona di guerra. Questo dolore universale sembra essere
pietrificato, ma al contempo emana una luminosità che contrasta con la tragedia:
si riflette sull’epidermide dei corpi e nella drammaticità del movimento dei
capelli del giovane morituro.

 

Jago – “Pietà” (Dettaglio) 2021

Jago è un artista che
sa esattamente quale messaggio intende comunicare: non si limita a rendere
omaggio all’eredità del passato, né accetta di osservarla da una distanza
museale. Al contrario la riattualizza, la arricchisce di nuovi significati che si
rivolgono e accendono la sensibilità contemporanea. La sua visione si configura
come una reinvenzione del barocco, nel tentativo di offrire un’opera intrisa da
un potente canto funebre che invita alla riflessione e all’empatia. Con
“La Pietà” Jago non offre solo una rappresentazione artistica del
dolore, ma presenta una meditazione sul valore della vita e sull’inevitabilità
della perdita, unendo la bellezza e la tragedia in un’unica, straordinaria
esperienza. Questo linguaggio artistico attraversa le barriere generazionali,
giungendo sia ai più dotti che alle nuove generazioni, grazie alla scelta
consapevole di rimanere vicino al suo pubblico, piuttosto che relegarsi negli
spazi asettici delle istituzioni museali. Lui non impone la sua arte, la
propone come una conversazione aperta, un’interazione che stimola domande e
suscita risposte.

 

La sua voce artistica
si distingue come imprescindibile in un mondo dove il dialogo tra arte e
società è più che mai essenziale. In un’epoca dominata dalla frenesia e dalla
superficialità, la sua opera invita a una riflessione profonda Rinnova e
arricchisce il patrimonio culturale con una freschezza che comunica in un
linguaggio universale. La sua arte è costantemente aperta alle leggi
dell’equilibrio e della forma che, nel loro insieme, configurano un progetto di
trasformazione della realtà: egli è finalmente divulgatore di principi etici
oltre che estetici.

 

 

 

 

 

 

 

Sito Web JAGO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

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Dietro il Velo della Divinità – Il Fascino del Cristo di Sanmartino

L’ArteCheMiPiace – Favourites

 

Dietro il Velo della Divinità
 
Il Fascino del Cristo 
di Sanmartino
 
 

di Giuseppina Irene Groccia |30|Marzo |2024|

 

Nel cuore della Cappella Sansevero di Napoli, un’atmosfera di sacralità avvolge l’osservatore di fronte al Cristo velato, un’opera che si distingue per la sua straordinaria bellezza e profondità emotiva. Realizzato nel 1753 da Giuseppe Sanmartino, questo capolavoro scultoreo rappresenta uno dei vertici dell’arte barocca e continua a suscitare ammirazione e meraviglia nei visitatori di ogni epoca.

 



 

L’origine del Cristo velato risale a un momento di grande fermento artistico e culturale a Napoli. Inizialmente commissionato ad Antonio Corradini, il compito passò a Sanmartino a seguito della prematura morte del primo artista. Questo cambio di mano, tuttavia, non fece che aumentare la grandezza dell’opera, portando alla creazione di un’immagine che ha conquistato il cuore di generazioni di spettatori.

L’attenzione ai dettagli è sorprendente: il Cristo morto è raffigurato sdraiato su un giaciglio, avvolto da un velo che sembra quasi pulsare di vita propria. Ai piedi della scultura, gli strumenti della Passione – la corona di spine, le tenaglie, i chiodi – sono disposti con precisione chirurgica, aggiungendo ulteriore drammaticità e realismo alla composizione.

 

 

La statua, con la sua espressione serena e distesa, sembra quasi trasmettere la sensazione di un sonno placido, anticipando forse la sua imminente risurrezione. Tuttavia, è il velo che avvolge il corpo del Cristo a catturare l’attenzione e ad alimentare l’immaginazione degli osservatori. Quel velo, sottile e etereo, sembra essere più di un semplice tessuto: sembra essere un confine, una separazione tra il divino e il terreno, tra il mondo spirituale e quello materiale. 

 



 

Questa separazione simbolica associa ulteriori concetti a questa meravigliosa opera, suggerendo la dualità dell’esistenza umana e la ricerca costante di unione con il divino. Il Cristo velato va oltre la semplice rappresentazione della Passione e della resurrezione di Cristo; esso si erge come una porta aperta alla contemplazione e alla riflessione più profonda sul significato dell’umanità e della fede.

 

 

 

La leggenda che circonda l’opera aggiunge fascino e interesse al suo già intrinseco mistero. Si racconta che il principe committente, Raimondo di Sangro, noto alchimista e studioso, abbia trasmesso a Sanmartino il segreto della trasformazione del marmo in cristallo. Questa suggestiva narrazione, sebbene affascinante, è stata smentita da analisi scientifiche che confermano la natura interamente marmorea dell’opera.

 



Il Cristo velato si distingue per la sua capacità di comunicare emozioni e riflessioni spirituali che vanno ben oltre la superficie dell’opera. Le ferite visibili sul corpo del Cristo, i segni dei chiodi sulle mani e sui piedi, sono rappresentazioni struggenti della sofferenza umana e del sacrificio divino. L’accorto ingegno di Sanmartino nell’esprimere queste tematiche universali attraverso la scultura lo colloca tra i più grandi artisti della sua epoca.

 

 

 

Celebri viaggiatori e artisti, come il rinomato Antonio Canova, hanno lodato l’opera, riconoscendo in essa un’espressione sublime dell’arte e della fede. La sua presenza nella Cappella Sansevero continua a commuovere coloro che hanno il privilegio di contemplarla, diffondendo un messaggio di speranza e redenzione che si estende oltre i confini del tempo, toccando l’animo di chiunque vi si avvicini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Giant Dandelion Fairies – Amy & Robin Wight

 

 
 

Giant Dandelion Fairies

Amy & Robin Wight

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia  |21|Agosto|2022|

 

 

 

 

Trentham Estate è un complesso di parchi di straordinaria bellezza presenti nella contea di Staffordshire in Inghilterra. Al suo interno sono ospitati i pluripremiati Trentham Gardens descritti da James Alexander Sinclair su The Telegraph, come “Il rifacimento del giardino del decennio”.

 

 

 

Questi spazi verdi contemporanei nascono dal fantasioso e innovativo genio di tre designer d’eccezione. Per i famosi giardini all’italiana è stato premiato con medaglia d’ oro il designer botanico Tom Stuart-Smith, stesso riconoscimento per l’olandese Piet Oudolf, progettista dei fiumi d’erba e del labirinto floreale e per Nigel Dunnett, autore delle piantagioni di fiori selvatici e dei prati boschivi.

 

 

 

Il parco ospita molte sculture e opere d’arte, tra cui le famose fate realizzate dall’artista locale Robin Wight. Si tratta di deliziose sculture, faticosamente create con filo zincato e acciaio, che si snodano lungo suggestivi sentieri naturalistici.

 

 

Nel cuore di Trentham Gardens c’è anche uno spettacolare lago costellato di piccole isole reso vivo dalle immagini e dai suoni di una meravigliosa varietà di animali selvatici. La passeggiata che porta dal parco verso il lago, offre una vista suggestiva sulla installazione artistica “Giant Dandelion” realizzata da Amy Wight, figlia di Robin. 

 

 

 

Queste imponenti sculture a forma di dente di leone, comunemente chiamati soffioni, stagliati nello sfondo paesaggistico di antichi prati e boschi di fiori selvatici, sono opere da vivere, non solo da guardare.

 

 

Nel loro sodalizio artistico, padre e figlia, trovano un’armonia capace di fondere arte, storia e paesaggio naturale. Non importa quanto sia affollata la giornata, c’è sempre una tranquilla macchia contemplativa di erba che invita i visitatori a sedersi, rilassarsi e tornare a immaginare e sognare.

 

 

 

Tutti sanno che le fate vivono in fondo ai giardini e qui non è diverso, esse dimorano tra boschi, labirinti e sentieri catturando l’immaginazione di tanti appassionati d’arte.

Le sculture immerse in vaste e magiche derive di prati e fiumi di erba offrono ai numerosi visitatori un’esperienza coinvolgente ed entusiasmante nel forte contatto tra arte e natura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
Il Tenthram Parco lo trovi QUI

 

 

 

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ArtistiMy Favourites

JEAN PAUL BOURDIER – Paesaggio e corpo come tela

 

JEAN PAUL BOURDIER – Paesaggio e corpo come tela

 

di Giuseppina Irene Groccia  |01|Gennaio|2021|

 

Jean Paul Bourdier combina paesaggio e carne come tela, senza l’uso della manipolazione digitale, per creare un’unione visiva, con tutte le immagini che sono state scattate sul posto tramite la tecnica della fotografia analogica.

 

Attraverso l’uso simultaneo di performance art, pittura e fotografia analogica, mette in scena situazioni che richiamano la magia dell’essere, della natura e della Luce.

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

 

Il suo lavoro si concentra sempre sulla bellezza e la geometria del corpo umano.

 

Le immagini che produce fungono da portale per rivendicare il nostro rapporto intimo con l’infinito. 

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

Ogni immagine è una scena unica – creata, messa in scena e catturata – di paesaggi naturali uniti alla forma umana, che esprimono bellezza, verità e meraviglia sul piano fisico, così come ciò che è nella nostra immaginazione.



Attraverso il corpo nudo dipinto con i colori della luce, riporta l’umanità alla sua natura fondamentale, scavalcando i soliti strati di identità, spazio e tempo, e ricontestualizzandola in essere.

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jean Paul Bourdier riesce a presentare il corpo in un modo del tutto surreale su un paesaggio infinito, in un universo in continua evoluzione, facendolo interagire in vari modi con la terra. 

Questo corpus di opere è una contemplazione degli esseri umani e della loro intima interrelazione con l’ambiente.

 

Bourdier mette da parte la necessità di creare immagini in movimento per dare vita alle sue fotografie, preferisce catturare il movimento nel fantastico mondo della performance, dell’espressione e del paesaggio onirico. Le sue opere sfidano l’occhio della mente, allargando l’immaginazione per abbinare il potenziale illimitato dietro gli esseri che popolano la sua personale visione artistica.

 

Le sue pluripremiate immagini fotografiche sono state esposte negli Stati Uniti e in Francia e fanno parte della collezione permanente di diversi musei.

 

 

Jean Paul Bourdier è professore di design, disegno e fotografia nel dipartimento di architettura della UC Berkeley.

 
 
 
 
 
 
 
 

 

Scenografo di sette film e co-regista di due film diretti da Trinh T. Minh-ha, ha anche pubblicato diversi libri, tra cui Vernacular Architecture of West Africa, uscito nel 2011 e tre libri di fotografia, Bodyscapes, pubblicato nel 2007, Leap intro the Blue (2013), Body Unbound (2017) e Body Mirror il suo ultimo lavoro uscito a Novembre 2020, dove ritorna ad unire la sua arte fotografica all’editoria.

 

Body Mirror - Fine Art Photography Book by Jean Paul Bourdier

 

Fine Art Photography Book “Body Mirror” Info sul libro qui

 

Puoi trovare “Body Mirror” su Amazon clicca qui

 



 

 

 

 

 

 

 

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ArteMy Favourites

RAIN ROOM – Quando acqua, arte e tecnologia si incontrano

  • Rain Room 

Fusione tra Arte e Tecnologia

 

di Giuseppina Irene Groccia |28|Dicembre|2020|

 

 

Il momento della “fruizione” di un’opera d’arte sembra raggiungere l’apoteosi nelle installazioni artistiche.

L’opera è viva, in movimento, la si attraversa, e si lascia fruire da noi stessi con infiniti sensi, quali vista, udito, olfatto e tatto, oltre che con il cuore e con la memoria di ciò che quell’opera ci farà sentire e sperimentare.

 

Oggi vorrei parlarvi di una delle mie preferite, presentata per la prima volta nel 2012, conquistando in seguito un enorme successo nell’ambito delle opere site specific.

 

Camminare sotto la pioggia senza bagnarsi?! Qualcuno l’ha reso possibile.

 

Si tratta del progetto “Rain Room” di Random International, collettivo di design con sede a Chelsea, fondato da Stuart Wood, Florian Ortkrass e Hannes Koch al Royal College of Art.

 

Un’imponente installazione consente ai visitatori di camminare direttamente attraverso una tempesta di pioggia simulata, senza bagnarsi.

 

Il progetto utilizza strumenti altamente tecnologici capace di interagire con le persone, quali piastrelle stampate a iniezione, elettrovalvole, regolatori di pressione e telecamere di tracciamento 3D per rilevare la posizione delle persone, attivando o disattivando di conseguenza ciascuno dei suoi singoli flussi di pioggia. Coprendo un’area di oltre 100 metri quadrati, utilizza quasi 220 litri d’acqua ogni minuto, con un meccanismo rapido di filtraggio e rimessa in circolo.

 

Guarda il video del progetto “Rain Room”

 

L’esperienza ha un fascino surreale e teatrale. Entrando nello spazio espositivo ci si trova immersi nell’oscurità, con una sola luce all’estremità della stanza. Questo conferisce una qualità magica ed argentea al campo di pioggia, che si riversa su una piattaforma rialzata.. un palcoscenico per l’esperienza dello spettatore. 

 

L’interazione del pubblico diventa parte cruciale dell’installazione, poiché la pioggia risponde alle loro reazioni attraverso specchi motorizzati, e in questo modo il pubblico diventa il soggetto dell’opera d’arte.

 

 

 

 

 

 

 

Quando i visitatori si avviano sul palco, queste identiche linee verticali di pioggia battente iniziano a essere respinte, come se ogni corpo emettesse una sorta di campo magnetico invisibile. Man mano che entrono, la pioggia si chiude intorno ad essi, avvolgendo ogni figura che si staglia in un perfetto vuoto cilindrico. Il visitatore si ritrova circondato dal rumore della pioggia e dalle particelle d’acqua in sospensione ma completamente asciutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’installazione Rain Room vede la luce per la prima volta nel 2012 presso il Barbican Centre di Londra. Successivamente l’opera è stata riproposta più volte, prima al MoMA di New York nel 2013, poi al Yuz Museum di Shangai nel 2015, infine al LACMA di Los Angeles nello stesso anno. 

Attualmente è ospitata all’interno del Jackalope Pavilion a St Kilda a Melbourne, e successivamente sarà trasferito nel nuovo Jackalope Hotel a Flinders Lane.

 

Durante l’esposizione di debutto del 2012 al Barbican Centre, la compagnia di danza di Wayne McGregor si è esibita sulle note del compositore contemporaneo Max Richter, interagendo con l’installazione e con i normali spettatori. Acqua, corpo e tecnologia riescono così a creare un’installazione unica, capace di rendere possibile il paradosso di danzare sotto la pioggia rimanendo completamente asciutti.

 

Guarda il video dell’esibizione 

 

 

Il collettivo Random International tratta ogni progetto come parte di un processo continuo di ricerca, sulla relazione tra le persone e le nuove tecnologie intelligenti, ed ha lavorato inoltre con lo scienziato cognitivo Philip Barnard per analizzare il comportamento delle persone.

 

 

 

 

 

RANDOM INTERNATIONAL sono:

 

Florian Ortkrass nato nel 1975 a Rheda-Wiedenbrück, Germania. Laureato alla Brunel University nel 2002 e al Royal College of Art nel 2005.

 

Hannes Koch nato nel 1975 ad Amburgo in Germania. Laureato alla Brunel University nel 2002 e al Royal College of Art nel 2004.

 

 

 

 

 

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