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Arte

ArteDivagazioni sull’arte

Studi d’artista: viaggio nelle stanze segrete dell’arte

Studi d’artista: viaggio nelle stanze segrete dell’arte

In un mondo che corre veloce e che spesso consuma le immagini d’arte con uno scroll distratto, c’è ancora chi sceglie di rallentare e desidera aprire porte reali, non solo virtuali. Per fortuna c’è chi ama ancora sedersi accanto agli artisti, dentro i loro studi, per ascoltarli mentre raccontano la propria visione, il proprio percorso, le proprie fragilità.

Da questo desiderio di incontro e di sguardo autentico che nasce “Studi d’artista“, la rubrica curata da The Art Post Blog, che da anni racconta l’arte contemporanea attraverso le voci dei suoi protagonisti. Una serie di interviste intime e appassionate che portano il lettore dentro gli atelier, ma anche dentro le vite di chi crea: pittori, illustratori, street artists, incisori, autodidatti e professionisti affermati, provenienti da tutta Italia (e non solo).

Ogni incontro è un viaggio unico, fatto di colori, parole, storie personali e geografie interiori. C’è chi ha trasformato un angolo del soggiorno in un laboratorio, chi ha scelto di non mostrare più le proprie opere online, chi usa la materia come memoria viva, chi dà voce al dolore, alla bellezza, al corpo.

Dove nasce davvero l’arte

L’arte nasce lontano dalle luci delle gallerie, lontano dai feed social in perenne aggiornamento, l’arte continua a nascere ogni giorno dentro spazi reali, vissuti, imperfetti. Studi ricavati in soggiorni di casa, laboratori condivisi, vecchie officine trasformate in atelier: è lì che prende forma quella materia fragile e potente che chiamiamo arte.

Con la rubrica Studi d’artista possiamo entrare proprio in questi luoghi, fisici ed emotivi, per incontrare chi crea con passione, fatica e libertà, ma dove scopriamo anche chi l’arte la promuove in forme diverse.

Si tratta di una mappa sentimentale dell’arte di oggi, fatta di storie che non cercano la spettacolarizzazione, ma la verità del fare. Uno spazio in cui gli artisti si raccontano senza filtri, davanti al proprio cavalletto o accanto a una stampa ancora fresca, tra pigmenti, silenzi, entusiasmi e dubbi.

Le interviste raccolte in questa serie non sono semplici domande e risposte.
Sono incontri, racconti in prima persona, voci che parlano di tecnica ma anche di vita. C’è infatti chi ha fatto della pittura una forma di resistenza, chi lavora tra le montagne, chi trasforma la sofferenza in materia, chi dipinge in soggiorno e chi in una vecchia officina. C’è chi non mostra più le proprie opere online, perché crede che l’arte si debba vedere dal vero.

L’intervista come incontro

Ogni articolo della serie è un’intervista in profondità, ma si legge come un racconto. Nessuna domanda preconfezionata, nessuna risposta di circostanza. Solo parole vere, nate dal confronto, dal tempo e dall’ascolto.

C’è chi ha trovato nell’arte una via di salvezza, chi lavora con materiali di recupero, chi racconta il proprio territorio, chi esplora il dolore, la memoria, l’identità.

In un’intervista recente, ad esempio, Mauro Patta ci ha raccontato il suo legame con la Sardegna e il senso profondo dei suoi murales. Come lui, tanti altri artisti hanno condiviso riflessioni, esperienze, cambi di rotta e processi creativi che raramente trovano spazio altrove.

Un invito a rallentare

In un panorama digitale sempre più veloce e distratto, Studi d’artista invita a rallentare, osservare, ascoltare. Ogni intervista è un’occasione per riscoprire la dimensione umana dell’arte, per sentire la voce di chi crea e per tornare al valore del gesto, del segno, della materia.

Che si tratti di un giovane autodidatta o di un artista già esposto in galleria, poco importa: quello che conta è la verità del fare, quella che si respira solo entrando davvero in uno studio.

Ogni intervista è una finestra aperta, un piccolo ritratto umano, una mappa emotiva della creatività di oggi.

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ArteRubrica di Alessio Musella

Collezionare Emozioni o Valori? L’Eterno Dilemma del Collezionista Moderno

Arte Collezionismo Finanza

 

Acquistare opere d’arte per puro piacere è sempre consigliabile, ma la domanda e l’offerta di prodotti e accordi che abbiano anche un ritorno economico sono ormai all’ordine del giorno.

Se parliamo di compravendita di giovani nomi dall’alto potenziale speculativo – e rischio proporzionale – problemi non ci sono.

È ormai nella normalità del mercato dell’arte, e rimane nei suoi confini.

Quando, però, il discorso verte su altri termini e le promesse sono di vendite con riacquisti a tassi di rendimento fissi e sicuri, la situazione si complica.

Se, infatti, gli operatori del mercato dell’arte cominciano a vendere prodotti finanziari travestiti da dipinti, entrano nella sfera regolamentata dei mercati finanziari.

Detto questo, il legame tra arte e mercato è uno snodo cardine per analizzare e capire un sistema complesso come quello dell’arte contemporanea.

Alessio Musella, Art Promoter attualmente a Dubai
 

Ed il mercato non è solo quello delle aste o di pochi nomi internazionali che si spartiscono la fetta più grande della torta, ma sono anche collezionisti capaci di instaurare un rapporto diretto con gallerie, curatori ed artisti, o ancora realtà aziendali che non mirano alla mera speculazione, ma sono interessate a costruire un tessuto culturale e una visione imprenditoriale ampia e multidisciplinare.

L’intreccio tra denaro e arte è profondamente radicato nella storia. Dal Cinquecento in poi, tra mecenatismo, committenza, collezionismo e speculazione, la dimensione finanziaria dell’arte si modula in molti modi e secondo tempi diversi, in un intreccio che si è fatto oggi, in tempi di globalizzazione particolarmente fitto e complesso.

Una delle caratteristiche distintive del mercato dell’arte è il suo andamento generalmente decorrelato rispetto ai mercati finanziari tradizionali. Mentre azioni, obbligazioni e immobili spesso subiscono forti oscillazioni dovute ai cicli economici e alle crisi finanziarie, l’arte tende a mantenere una certa stabilità o addirittura incrementare il suo valore in periodi di turbolenza economica.

Quando inizi il dialogo con un potenziale nuovo ” collezionista” non bisogna limitarsi nell’offrire solo suggerimenti d’acquisto, ma sviluppare un planning su misura. «Ogni collezionista è diverso: ci sono quelli che collezionano per passione, chi vuole fare filantropia e chi considera l’arte come un investimento,»

A seconda delle motivazioni, è necessario adottare un approccio specifico: a partire dalla scelta delle opere.

Importante da ricordare è che l’acquisto di opere d’arte è fatta soprattutto di relazioni e contatti, elementi cruciali per fare le scelte giuste. «Il mondo dell’arte è un microcosmo dove non è così difficile scoprire la reputazione di un art advisor o di un gallerista.» Conoscere le persone giuste è importante non solo per ottenere buone opportunità, ma anche per evitare errori comuni, soprattutto per chi si avvicina a questo settore per la prima volta.

Un consiglio che mi sento di dare per chi vuole intraprendere per la prima volta un percorso legato all’acquisto di opere d’arte è conoscere meglio il mercato prima di fare un acquisto importante, visitando case d’asta, e incontrando galleristi, curatori e gli stessi artisti per meglio comprendere ogni aspetto dell’investimento.

Dopo l’ondata di acquisti durante la pandemia, stiamo assistendo a una fase di stallo» Le guerre, l’instabilità economica e i tassi di interesse elevati hanno rallentato il mercato, ma questo contesto storico non rappresenta necessariamente una minaccia per il mercato dell’arte. «I collezionisti oggi possono avere più tempo per fare ricerche e valutare con calma le opere che desiderano davvero.

Ogni rapporto nasconde, però, controversie ….

Molti artisti e critici sostengono che la crescente mercificazione rischi di compromettere l’autenticità creativa, spostando il focus dall’espressione personale al valore monetario. Altri, al contrario, vedono nella finanza uno strumento essenziale per sostenere e valorizzare la creatività artistica, permettendo agli artisti emergenti di trovare il supporto necessario per sviluppare la propria carriera.


Oggi, arte e finanza vivono un momento di simbiosi più profondo che mai: il collezionismo è visto sempre più come una strategia di diversificazione dei portafogli di investimento, mentre l’arte continua a rappresentare un elemento distintivo, capace di conferire prestigio, unicità e una forte valenza culturale ed emozionale.

Il legame tra arte e finanza non è solo una questione di numeri e quotazioni , ma è un legame destinato a evolversi continuamente, segnando il passo di due mondi che continueranno a influenzarsi, arricchirsi e sfidarsi reciprocamente.

Volendo tornare “romantico” concludo con il sostenere che chiunque voglia avvicinarsi al mondo dell’arte deve essere preso per mano per fargli comprendere che non è necessario essere esperti o avere patrimoni milionari per amare l’arte. “Basta la curiosità e la voglia di scoprire, perché l’arte è soprattutto questo: esplorare nuovi mondi e vivere”

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ArteArtisti

Custodire la presenza dell’arte – Mario Stefano e la sua visione, perché questo artista non mostra più le opere terminate su internet

 

Custodire la presenza dell’arte

Mario Stefano e la sua visione, perché questo artista non mostra più le opere terminate su internet

 

 

 

Ci sono artisti che scelgono di rincorrere la visibilità, affidando alle piattaforme digitali il compito di moltiplicare le immagini delle loro opere. E poi ci sono scelte opposte, radicali, che riportano l’arte alla sua essenza.

 

Mario Stefano, artista con cui ho avuto modo di collaborare e di sostenere nel percorso di divulgazione, ha deciso di compiere un passo coraggioso: rimuovere le proprie opere dalla rete e bandire la pubblicazione integrale dei suoi quadri.
Un gesto che può sembrare controcorrente in un’epoca di sovraesposizione, e che rappresenta una scelta personale dell’artista, non necessariamente condivisa da tutti, ma sicuramente degna di rispetto perché guidata dall’intento di restituire all’arte la sua natura viva, intima e irripetibile.

 

A spiegare le ragioni di questa scelta è lo stesso artista, con parole che diventano manifesto di una nuova idea di presenza artistica.


Mario Stefano - Artista -
L’artista Mario Stefano

 

Perché ho deciso di non pubblicare le mie opere intere, ma soltanto dei dettagli? Perché credo che l’opera d’arte debba essere incontrata da vicino, nella sua interezza. Non attraverso uno schermo, ma dal vivo, dove lo sguardo possa spostarsi liberamente da un punto all’altro del quadro, lasciandosi guidare dalla contemplazione. Vedere un’opera è un’esperienza immersiva: richiede tempo, silenzio, attenzione.

Ho scelto i dettagli non per proteggere me stesso, ma per proteggere l’opera. La pittura ha bisogno di spazio, di un ritmo lento, di uno sguardo che non scivoli via in tre secondi. Quando un’opera si compie, essa chiede di essere guardata con presenza, di essere colta nella sua essenza.

Non mostro i miei lavori finiti perché non sono semplici immagini, ma presenze. L’arte, quella autentica, non cerca visibilità: cerca verità. Non vuole esposizione, ma incontro. In un tempo che mostra tutto, io sento il bisogno di custodire.

Viviamo in un’epoca che produce immagini sintetiche: io, con la pittura, cerco di generare presenze. Le mie opere non appartengono ai feed dei social, non si lasciano catturare da uno screenshot, non nascono per la velocità. Sono fatte di stratificazioni, di errori, di gesti ripetuti e intuizioni cercate. Sono fatte di mani, di testa, di cuore. E anche di spirito.

Ogni quadro è un corpo, un evento: ha peso, respiro, silenzio. E come ogni corpo vivo merita distanza, attenzione, intimità.

Per questo non pubblico le mie opere finite. Perché pubblicarle significherebbe snaturarle, ridurle a immagini quando invece sono presenze, trasformarle in contenuti quando in realtà sono contenitori di senso. In un tempo che chiama tutto “visibilità”, io scelgo la visione.”


 

 

 

 

La scelta di Mario Stefano è senza dubbio forte e radicale. È una visione personale che non tutti gli artisti condividono, perché ognuno trova il proprio modo di mettere in relazione l’opera con il pubblico. Ciò che conta, però, è la coerenza e il coraggio con cui un artista decide di custodire la propria arte.
 

 

Presto avremo modo di ospitarlo per un’intervista, in cui potrà approfondire meglio questo approccio e raccontarci da vicino cosa significhi, oggi, restituire all’arte la sua dimensione più autentica.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Arte

COLORE, FORMA, SPAZIO E SILENZIO

 

 

 

 

COLORE, FORMA, SPAZIO E SILENZIO 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |28|Agosto|2025|

 

L’arte minimalista inganna l’occhio e la mente. Essa si presenta come un linguaggio essenziale, privo di ridondanze, ma dietro quella apparente semplicità si nasconde un processo creativo tra i più complessi e rigorosi. 

 

Senem Oezdogan Abstract Minimal Art

 

 

 

Creare un’opera minimale non significa sottrarre senza criterio, ma trovare il punto esatto in cui ogni segno, ogni spazio, ogni ritmo visivo diventa indispensabile.

Paul Grand – “Three girls running” 2012

 

 

La difficoltà sta nell’equilibrio sottile tra il “troppo poco” e il “troppo”. Se la composizione resta eccessivamente scarna, rischia di apparire vuota, priva di tensione e di senso. Se invece si eccede, anche di poco, si perde la purezza del gesto e con essa la forza intrinseca dell’opera. È un campo in cui la misura non è numerica, ma sensibile, un atto di ascolto costante tra l’artista e lo spazio che egli stesso costruisce.

 

La tela bianca, in questo contesto, diventa ancora più intimidatoria perché non offre rifugi né orpelli. Ogni intervento, anche il più piccolo, si espone nudo e definitivo, rivelando la lucidità o l’incertezza di chi lo compie. L’artista minimalista non può nascondersi dietro alla complessità decorativa, egli è chiamato a una chiarezza radicale, a una disciplina interiore che si traduce in precisione formale.

 

Fernando Zobel – Minimal Abstract Expressionism

 

 

Per questo l’arte minimale non è mai un “facile esercizio di sottrazione”, ma un raffinato esercizio critico. È un’arte che chiede all’autore di fermarsi al momento giusto, di accettare il silenzio come parte integrante della composizione, e di fidarsi del proprio istinto senza indulgere nell’eccesso.

 

In fondo, la sua difficoltà coincide con la sua grandezza… nel poco, deve vibrare l’essenziale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

Il Blog L’ArteCheMiPiace da l’opportunità ad artisti emergenti ed affermati di usufruire di una vetrina in cui proporre il proprio talento, operando per la promozione e la valorizzazione degli stessi.

 

Ogni progetto promozionale diffuso sulle pagine di L’ArteCheMiPiace, compreso l’intervista, è soggetto a selezione e comprende approfondimento dei materiali forniti con consulenza, ricerca, redazione e diffusione.

 

 

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ArteMy Favourites

Galleria Sciarra Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 
 

Galleria Sciarra


Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |29|Luglio|2025|

 

 

La Galleria Sciarra è uno dei gioielli nascosti di Roma, situata nel cuore del centro storico, a pochi passi da via del Corso e Piazza Venezia. Nonostante si trovi in una zona centralissima, è poco conosciuta dai turisti, il che la rende ancora più affascinante.

La Galleria è un passaggio pedonale coperto, costruito tra il 1885 e il 1888 dall’architetto Giulio De Angelis su commissione del principe Maffeo Sciarra Colonna di Carbognano. Doveva fungere da elegante collegamento tra via Marco Minghetti, Piazza dell’Oratorio e via delle Muratte, e far parte di un più ampio progetto di rinnovamento urbanistico e commerciale.

 

 

 

 

La Galleria è decorata in stile Liberty (o Art Nouveau), e ciò che la rende davvero straordinaria sono i suoi affreschi spettacolari, i quali rappresentano un unicum nell’arte decorativa di fine Ottocento a Roma.

Essi furono realizzati tra il 1885 e il 1888 dal pittore Giuseppe Cellini, un artista attivo nel periodo della transizione tra l’eclettismo ottocentesco e il Liberty italiano. La decorazione pittorica fu ispirata da una visione idealizzata e moraleggiante della donna borghese, molto cara al committente, Maffeo Sciarra, aristocratico conservatore e fervente sostenitore dei valori della famiglia tradizionale.

 

 

L’intero ciclo pittorico è un omaggio alla femminilità borghese, vista come cardine dell’equilibrio sociale. Le figure femminili, elegantemente vestite secondo la moda del tempo, rappresentano una sorta di “manifesto morale” visivo.

Le principali virtù rappresentate sono:

La Pudicizia (Modestia), La Fedeltà coniugale, La Fortezza, La Maternità, La Discrezione, La Sobrietà, La Grazia, La Carità domestica

 

Ogni scena è accompagnata da motti e sentenze in italiano, latino e greco antico, scritti in stile lapidario, come se fossero precetti scolpiti nel marmo del vivere borghese. Ad esempio:

 

“La bellezza non è ornamento, ma luce dell’anima.”

 

 

 

“La donna è l’angelo della famiglia.”

 

 

 

 

Gli affreschi si sviluppano su tutti e quattro i lati della corte interna, disposti su più livelli, tra lesene, archi e balconcini, come se fossero quadri viventi inseriti in una scenografia teatrale.

Il tratto di Cellini è elegante e decorativo, con linee morbidecolori tenui, e una cura minuziosa dei dettagli nei tessuti, nelle acconciature, negli sfondi floreali e architettonici. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera quasi sospesa, idealizzata e mitica, pur parlando della quotidianità borghese.

 

 

Una delle peculiarità meno note è che le figure non rappresentano donne mitologiche o sante, ma donne reali, impegnate in attività quotidiane come leggere, educare i figli, cucire, ricevere ospiti, o passeggiare. Questa scelta rende gli affreschi straordinariamente moderni, nel senso che ritraggono la donna non solo come oggetto estetico, ma come soggetto morale e sociale.

Gli affreschi sono specchio della cultura di fine Ottocento: patriarcale, idealista, moralizzante, ma al tempo stesso rivelano anche un certo rispetto per la donna come custode del decoro sociale. Oggi possono essere letti anche in chiave critica, ma restano una testimonianza visiva affascinante di come l’arte interpretasse (e imponeva) i ruoli femminili nella società post-unitaria italiana.

 

Una delle curiosità più interessanti riguarda proprio l’intento originario della Galleria: il principe Sciarra aveva progettato questo spazio per essere un centro commerciale d’élite, con negozi di lusso al piano terra e gli uffici della sua rivista, “La Cronaca Bizantina”, ai piani superiori. La rivista, tra l’altro, fu uno dei primi esempi di giornalismo moderno in Italia, e si concentrava su arte, cultura e società.

Un altro dettaglio curioso: la Galleria, pur essendo proprietà privata, è aperta al pubblico durante il giorno, e molti romani la usano come scorciatoia elegante e tranquilla nel cuore caotico della città.

 

Se cercate un angolo di Roma lontano dal frastuono turistico, ma capace di sorprendervi con una bellezza intima e inaspettata, la Galleria Sciarra è una tappa imperdibile. È uno di quei luoghi magici dove il tempo sembra essersi fermato: appena varcato l’ingresso, vi ritroverete immersi in un mondo silenzioso e raffinato, avvolti dalla grazia delle figure femminili dipinte, dai colori morbidi degli affreschi e dalla luce che filtra delicatamente attraverso il soffitto in vetro e ferro battuto. Una piccola pausa poetica nel cuore della città eterna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ArteArtisti

Il lascito silenzioso di Arnaldo Pomodoro

 

 

 

Il lascito silenzioso di Arnaldo Pomodoro

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |24|Giugno|2025|

 

 

Il mondo dell’arte piange una delle voci più autorevoli e visionarie del Novecento. Ma le sue opere troneggiano nelle piazze, nei musei, continuando a parlare, a scuotere e ispirare le generazioni future.

 

Arnaldo Pomodoro è morto il 22 giugno 2025, nella sua casa di Milano, proprio alla vigilia del suo 99º compleanno.

Scultore di fama mondiale, amato per le sue “sfere ferite” in bronzo, levigate all’esterno da una perfezione formale che si aprono, all’interno, a una simbologia complessa e intensa

 

Nato il 23 giugno 1926 a Morciano di Romagna, egli conservava nella memoria della sua infanzia un’immagine quasi sospesa nel tempo che era quella di un bambino solitario e visionario, come lui stesso amava definirsi. Le giornate scorrevano lente sulle rive del fiume Conca, dove la natura gli offriva il suo primo materiale creativo: l’argilla.

 

Era lì, tra l’acqua e la terra, che le sue mani cominciarono a dar forma a un immaginario fuori dal comune. A differenza di ciò che altri bambini avrebbero costruito con quel materiale, semplici castelli o animali, dalle sue dita nascevano invece strutture sorprendenti e strane, che egli stesso chiamava “case kafkiane”; e già in quel nome si avvertiva un presentimento d’artista.

 

Queste prime forme, create con l’istinto e la libertà del gioco, raccontavano un mondo interiore ricco di fantasia e di visioni già allora lontane dal consueto. Era l’inizio di un viaggio che lo avrebbe portato, decenni dopo, a scolpire materia e simbolo nei più grandi spazi del mondo.

 

Arnaldo seguì le orme artistiche del fratello minore, Giò Pomodoro, anch’egli scultore. La loro dimensione familiare restò un legame costante, con due voci complementari nel panorama della scultura contemporanea italiana.

 

Nel 1995 Arnaldo Pomodoro realizzò per Fendi, a Milano, una straordinaria installazione sotterranea di 170 m²: un’opera immersiva, fatta di stanze scultoree, bassorilievi, porte rotanti e segni arcaici incisi nella materia, come se il tempo stesso vi avesse lasciato tracce da decifrare. Un vero e proprio viaggio simbolico nel cuore della scultura, dove spazio e pensiero si intrecciano in un racconto senza parole.

 

Emblema della sua poetica più intensa, questo spazio sospeso è tornato a vivere davanti al pubblico proprio a marzo 2025, pochi mesi prima della scomparsa del Maestro. Oggi, alla luce della sua perdita, quell’opera assume un valore ancora più intenso. Essa ci dà l’impressione di un testamento visivo, un dialogo aperto capace di restituirci la voce di un artista che ha saputo scolpire la materia inafferrabile del tempo.

 

La storia di “Sfera con Sfera” inizia nel 1966, quando Pomodoro fu incaricato di realizzare per l’Esposizione Universale di Montréal una maestosa sfera in bronzo del diametro di oltre 3,5 metri, frutto della sua tecnica di fusione a cera persa e già allora pensata per dialogare con lo spazio pubblico in modo dinamico.

 

Dietro l’apparente perfezione del guscio esterno si nasconde un nucleo complesso, quasi esploso, come spiegava lo stesso artista:

 

Una sfera è un oggetto meraviglioso, dal mondo della magia… riflette tutto ciò che la circonda, creando contrasti tali da trasformarsi, diventare invisibile, lasciando solo il suo interno, tormentato ed eroso, pieno di denti.” 

 

 

Negli anni successivi l’artista moltiplicò le versioni di questa opera in luoghi simbolici, fino al 1996, quando l’Italia ne donò una copia alle Nazioni Unite di New York. Un globo liscio che esplode dall’interno, presentato come “promessa per la rinascita di un mondo meno travagliato e distruttivo” 

Oggi, disseminata in cortili e piazze di tutto il mondo, la “Sfera con Sfera” è diventata un chiaro emblema della dialettica tra integrità e frattura, tra creazione e distruzione, riflesso delle tensioni del nostro tempo. Un’immagine potente che, in questi giorni segnati da guerre, crisi e incertezze, ci invita a una presa di coscienza sulle tensioni che turbano il nostro presente.

 

La Fondazione Arnaldo Pomodoro, istituita dal Maestro nel 1995, nasce come “luogo attivo e vivo di elaborazione culturale”, dedito a documentare, preservare e promuovere l’arte contemporanea in continuo dialogo con la sua eredità. Le sue imponenti sfere punteggiano piazze come il Cortile della Pigna nei Musei Vaticani, il cortile ONU a New York, la Farnesina a Roma, il Trinity College di Dublino, il campus di Stanford, il De Young di San Francisco e molte altre città, rendendo tangibile il suo sguardo universale.

 

Oggi, ovunque si ergano le sue sfere, che siano intatte o segnate da crepe, esse ci accompagnano come testimoni silenziosi di un’eredità che invita a guardare con una necessaria speranza oltre la forma e a cogliere la bellezza nata dall’incontro tra materia e spirito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ArteSegnalazione Eventi

Patir 2025 – Un cammino condiviso verso l’armonia tra culture

 

 

 

Patir 2025

 

Un cammino condiviso verso 

l’armonia tra culture

 

 

 

 

 

di Redazione |21||Maggio|2025|

 

 

Un fine settimana immersivo, tra riflessione e creatività, prende forma con il Weekend Esperienziale – Open Lab Patir, un’officina di idee, incontri e visioni che, in questa nuova edizione, pone al centro il tema della pace e della spiritualità. In un tempo segnato da tensioni globali e smarrimento individuale, l’evento si fa spazio condiviso dove il pensiero si apre, il dialogo si rinnova e la ricerca interiore si intreccia con il sentire collettivo. Un’occasione per vivere il territorio come una intensa esperienza trasformativa e non come semplice luogo fisico.

 

 

 

Con l’inaugurazione ufficiale presso la prestigiosa sede della Galleria Nazionale di Cosenza, prende vita Patir 2025, un progetto che si propone come simbolico e concreto punto d’incontro tra Oriente e Occidente. L’iniziativa rappresenta un passaggio innovativo per la Calabria, e in particolare per le città di Cosenza e Corigliano-Rossano, che per la prima volta si uniscono in una visione culturale comune capace di valorizzare il patrimonio regionale e di generare un nuovo approccio allo sviluppo locale.

Al centro di questa visione c’è l’idea di pace intesa come armonia profonda, con sé stessi, con l’altro e con la terra. Un concetto che si ispira fortemente alle parole di Papa FrancescoLa Pace non è solo assenza di guerra, ma armonia con se stessi, la natura e gli altri“. 

È questa l’anima che anima Patir, un nome che già di per sé richiama un luogo carico di significato, il Monastero del Patire, simbolo della convivenza tra identità diverse, punto di contatto tra mondo greco e latino, tra spiritualità orientale e cultura occidentale. 

 

 

 

 

 

«Con Patir 2025 abbiamo cercato di ricomporre una proposta culturale spesso dispersa in iniziative scollegate», ha spiegato Alessandra Mazzei, presidente dell’associazione Rossano Purpurea, durante la presentazione. «La sfida è stata quella di creare un momento condiviso che potesse essere riconosciuto da tutti come proprio, come espressione autentica del territorio e delle sue molteplici anime».

Patir si configura così come uno spazio mentale e fisico dove la memoria storica incontra la contemporaneità, dove il passato diventa strumento per leggere e costruire il futuro. È un invito al dialogo, alla cooperazione e alla riscoperta della bellezza che nasce dall’incontro tra le differenze.

 

 

 

L’edizione 2025 segna attraverso l’avvio di un evento culturale, anche l’apertura di un cammino collettivo, un ponte di senso, un atto di fiducia nella capacità della cultura di essere motore di unità, crescita e pace autentica. 

In questo contesto prende forma Arte en Plein Air, un evento previsto per il 25 maggio a partire dalle ore 10:00, coordinato dall’architetto Antonio Cimino. L’iniziativa porta l’arte fuori dagli spazi convenzionali, restituendola al paesaggio, alla luce, al respiro della natura.

Nel cuore del Complesso Monastico Basiliano di Santa Maria del Patire, artisti del territorio daranno vita a un’esperienza condivisa, intrecciando con sensibilità la loro creatività con l’ambiente e la memoria spirituale del luogo.

 

Un appuntamento che sottolinea il legame profondo tra l’essere umano e il paesaggio, suggerendo nuove forme di ascolto, relazione e consapevolezza.

 

Gli artisti partecipanti sono: Mariella Arcuri, Alfonso Caniglia, Annalisa De Marco, Giuseppina Irene Groccia, Anna Lauria, Eliana Noto, Mirella Renne, Chettina Straface, Pino Savoia, Luisa Zicarelli.

 

 

Un’esperienza che ha come scopo quello di generare un dialogo aperto tra arte, natura e spiritualità, come invito a coltivare bellezza, consapevolezza e armonia nei luoghi e nelle relazioni che abitiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ArteIntervisteSegnalazione Eventi

Verso il vernissage di “Il riscatto della brutta psiche” Intervista doppia a Maurizio D’Andrea e Carla Pugliano

L’ArteCheMiPiace – Segnalazione Eventi/ Interviste

 

 

 

Verso il vernissage di “Il riscatto della brutta psiche” 

 

Intervista doppia a Maurizio D’Andrea e Carla Pugliano

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |06|Maggio|2025|

 

 

 

 

Cresce l’attesa per Il riscatto della brutta psiche, la mostra personale di Maurizio D’Andrea, artista internazionale e fondatore del Movimento Artistico Introversico Radicale, che inaugurerà il 10 maggio presso la CathArt Gallery di Varese. L’esposizione si preannuncia come un viaggio visivo potente e introspettivo, capace di dare forma alle tensioni emotive più profonde e ai paesaggi interiori spesso dimenticati.

A conferire ulteriore prestigio all’evento sarà la presenza di Daniele Radini Tedeschi, tra i più autorevoli critici d’arte contemporanea, già più volte Curatore e Commissario della Biennale di Venezia. Il suo intervento critico offrirà una lettura profonda e articolata del lavoro di D’Andrea, valorizzando il senso e l’urgenza espressiva di una mostra che nasce per scuotere e interrogare.

La sua partecipazione rappresenta un’occasione preziosa non solo per l’artista, ma anche per il pubblico presente, che potrà confrontarsi con una lettura lucida e autorevole del percorso espositivo.

Per anticipare i temi e lo spirito di questa mostra così particolare, abbiamo raccolto le voci dei suoi protagonisti: Maurizio D’Andrea, che ci guida all’interno della sua ricerca artistica, e Carla Pugliano, artista a sua volta e fondatrice della CathArt Gallery, che per la prima volta apre i suoi spazi a un progetto curatoriale esterno.
 

 

Un dialogo a due voci per scoprire cosa si cela dietro l’ideazione, la preparazione e il significato profondo di un evento che promette di lasciare il segno.
 
 
 
 
 

 

Carla, come nasce l’idea di ospitare proprio Maurizio
D’Andrea con la mostra “Il riscatto della brutta psiche”? Cosa l’ha colpita del
suo lavoro e cosa l’ha spinta a dedicargli uno spazio nella sua galleria?

 

 

Ho conosciuto Maurizio D’Andrea durante la Triennale Internazionale di Venezia,
dove entrambi siamo stati premiati con il Leone d’Oro. Da subito sono rimasta
colpita dalla coerenza e profondità del suo percorso artistico: il suo lavoro
scava nell’inconscio umano con coraggio e lucidità, dando forma visiva a
dinamiche interiori che spesso rimangono silenziose. La sua capacità di fondere
arte visiva, psicologia e teatro mi è sembrata perfettamente in linea con la
missione della CathArt Gallery, ovvero promuovere un’arte autentica,
trasformativa, che non abbia paura di affrontare anche le zone d’ombra della
psiche. Ospitarlo è stato un passo naturale.

 

 

 

 

 

 

La CathArt Gallery è nata inizialmente come
spazio dedicato alle sue opere. Questa è, se non sbaglio, la prima mostra
“esterna” che ospita. Come ha vissuto questa esperienza?

È stato un passaggio complesso ma estremamente stimolante. Mettere a
disposizione il mio spazio per altri artisti è, in fondo, un’estensione del mio
stesso linguaggio: offrire un luogo dove l’arte possa generare consapevolezza.
Occuparsi di un altro artista, conoscerlo ed entrare nel suo mondo significa
uscire da sé, ascoltare profondamente la sua voce e creare le condizioni
migliori affinché il suo messaggio venga colto in tutta la sua forza. Non si
tratta solo di esporre opere, ma di contribuire a creare una narrazione
coerente, uno spazio mentale oltre che fisico. Con D’Andrea ho sentito questa
continuità di visione.
In particolare, sono rimasta colpita dal progetto che mi ha proposto. “Il
riscatto della brutta psiche” non è semplicemente una mostra, ma un’esperienza
a più voci: con un monologo teatrale, una performance pittorica e la successiva
esposizione vera e propria. Ogni fase è stata pensata come parte di un rituale
collettivo di svelamento e catarsi.
Quando si lavora con un altro artista si crea, inevitabilmente, un rapporto di
fiducia, di stima e anche di amicizia. È un arricchimento profondo, che
permette di cogliere, toccare e analizzare un linguaggio espressivo diverso dal
proprio. E questo apre nuove prospettive interiori: ci si sente meno soli nel
proprio cammino creativo, ci si sente davvero parte di una comunità che parla,
in modi diversi, un’unica lingua: quella dell’arte.

 



 

All’inaugurazione sarà presente anche Daniele
Radini Tedeschi, uno dei critici più autorevoli della scena contemporanea. Può
raccontarci qualcosa, cosa significa per lei averlo in questo evento?



Ho conosciuto Daniele Radini Tedeschi in occasione della mia personale al Sacro
Monte di Varese
, sito UNESCO. Era presente al vernissage con un suo intervento
critico. Ricordo che ero piuttosto agitata per la sua presenza, ma fin da
subito ha saputo mettermi a mio agio, dimostrando una capacità rara: quella di
entrare nel mondo dell’artista, coglierne l’essenza più autentica e restituirla
con lucidità e rispetto.
Le sue osservazioni, mai scontate, mi hanno profondamente arricchita. Ha saputo
offrirmi una visione più ampia, dandomi consigli preziosi che porto ancora con
me. Ho una grande stima per Daniele Radini Tedeschi, che si è consolidata nel
tempo: la sua lettura critica è sempre profonda, acuta, capace di illuminare i
legami più nascosti tra estetica, pensiero e società.
Averlo oggi alla CathArt Gallery rappresenta per me non solo un onore
personale, ma anche un importante riconoscimento al progetto di questa mostra
portata avanti con passione. Il fatto che sia lui a introdurre la mostra di
Maurizio D’Andrea non fa che rafforzare il valore intellettuale e culturale di
tutto l’evento.
D’Andrea stesso, fin dai primi confronti sul progetto, non ha avuto alcun
dubbio: era proprio Daniele Radini Tedeschi il critico e storico dell’arte che
desiderava coinvolgere per accompagnare questa esposizione. La sua presenza
conferma l’ambizione e la profondità di questa mostra, che si muove su un piano
estetico, psicanalitico e concettuale.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

Maurizio, come nasce il progetto “Il riscatto
della brutta psiche”? C’è stato un momento preciso o un’urgenza interiore che
ha fatto scattare questa narrazione artistica così potente?

 

Il progetto “Il riscatto della
brutta psiche” nasce da un’urgenza viscerale supportata da studi e riflessioni
sin dall’adolescenza, da un bisogno interiore maturato nel tempo in seguito a
una lunga e radicale esplorazione dell’inconscio. Questo percorso si alimenta nel
confronto continuo tra il regno delle pulsioni di Freud e l’ombra junghiana e rappresenta
una parte della mente che la società vorrebbe nascondere sotto il velo della
bellezza artificiale. O vorrebbe ignorare! La psiche, nella sua forma più
cruda, è caotica, irrisolta, dolorosa, forse brutta, ed è proprio questo caos che
la performance vuole raccontare. Il taglio della tela, momento chiave del
progetto, ne è simbolo e detonatore: lo squarcio che rompe l’illusione
dell’armonia e ci restituisce alla verità dell’essere. L’urgenza non era quella
di raccontare una storia bella, ma quella di mostrare l’infranto, l’imperfetto,
il rimosso e di riscattarlo attraverso l’arte, catalizzatrice del riscatto.

 

 
 

 

La sua mostra unisce pittura,
teatro e psicoanalisi. In che modo questi linguaggi dialogano nella performance
e cosa spera che il pubblico possa attraversare emotivamente durante l’evento?

 

Pittura, teatro e psicoanalisi non
sono linguaggi separati, ma arrivano dello stesso corpo concettuale. Il teatro,
attraverso il monologo narrativo, diventa rito di iniziazione e confessione,
uno specchio emotivo in cui il pubblico è chiamato a guardare senza filtri. La
pittura, con le sue tele “brutte” e stratificate, incarna visivamente le
profondità dell’inconscio, rifiutando ogni estetica rassicurante. La
psicoanalisi fornisce il supporto teorico e simbolico attraverso cui leggere
questa esperienza. Freud, Jung e Lacan sono presenti in filigrana nel tessuto
della performance: l’ombra, il caos, il dolore rimosso, il riscatto,  sono i protagonisti silenziosi dell’evento.
L’emozione che si spera di attivare nel pubblico è duplice: uno smarrimento
iniziale, simile all’angoscia del sogno disturbante e, successivamente, una
catarsi. L’obiettivo non è consolare, ma inquietare, smuovere, aprire spiragli.
Ogni quadro svelato è una ferita, ma anche un varco. L’esperienza è pensata
come un viaggio psichico, dove l’osservatore è messo di fronte a se stesso, e
chiamato a scegliere se continuare a fuggire dal proprio caos o attraversarlo
per arrivare al riscatto.

 

 

 

Esporre alla CathArt Gallery,
spazio fondato da un’artista come Carla Pugliano, le ha offerto un contesto
particolare. Com’è nato questo incontro e cosa ha significato per lei essere
ospitato in questo spazio?

 

Esporre alla CathArt Gallery,
fondata da Carla Pugliano, artista straordinaria, non sarà un semplice evento
espositivo, ma un incontro profondo tra visioni affini. Carla, artista
sensibile e coraggiosa, ha creato uno spazio che accoglie l’arte come necessità
esistenziale, non come ornamento. Questo ha permesso di concepire “Il riscatto
della brutta psiche” non come una mostra tradizionale, ma come un’esperienza
totalizzante, una performance immersiva dove il confine tra autore e spettatore
si dissolve. L’incontro con Carla è avvenuto alla Triennale di Venezia dove
abbiamo vinto entrambi il Leone d’oro, e ho subito capito di avere conosciuto
un artista portatrice di una nuova arte. Il suo supporto mi ha offerto la
libertà di osare, di squarciare davvero il velo della convenzione estetica e
accogliere il rischio del disordine psichico come valore artistico. La CathArt Gallery
non è solo una galleria, ma uno spazio culturale vivo che ha saputo,
magicamente, vibrare insieme all’urgenza del mio progetto.

 

La presenza di Daniele Radini
Tedeschi aggiunge un forte peso critico e simbolico all’evento. Cosa
rappresenta per lei il confronto con la sua lettura del suo lavoro?

 

Daniele Radini Tedeschi, critico e
storico dell’arte riconosciuto a livello internazionale, con la sua statura
critica e la profondità del suo sguardo analitico, rappresenta una figura
fondamentale in questo evento. Ha sempre posto l’attenzione anche sulla
dimensione esistenziale e psichica dell’arte, e il suo confronto con questo
progetto porta il discorso a un livello di riflessione ancora più acuto. Il suo
sguardo non si ferma alla superficie della pittura, ma ne esplora le radici
simboliche, i richiami filosofici, i risvolti antropologici. La possibilità di
vedere la mia opera attraversata dalla sua interpretazione è un dono critico
che accende nuove prospettive. È uno specchio, ancora una volta, ma stavolta
esterno e colto, che mi obbliga a un ulteriore esercizio di consapevolezza. Non
si tratta di ricevere conferme, ma di abitare il dubbio con più strumenti, e in
questo, la lettura di Radini Tedeschi è un alleato prezioso.

 

Nelle sue opere si avverte una
forte tensione tra introspezione e linguaggio pittorico. In che modo il suo
percorso personale – umano e artistico – ha influenzato questa ricerca sul ‘non
detto’ della psiche?

 

Tutta la mia opera nasce da una
tensione irrisolta, dalla volontà di dare forma all’informe, di rendere
visibile ciò che per sua natura resta sepolto: il ‘non detto’ della psiche. Tutta
la mia opera nasce anche dal dubbio che si genera e prende forma. Il mio
percorso personale, segnato da studi scientifici e psicologici, dalla continua
esplorazione dell’inconscio e dal contatto diretto con la materia viscerale
dell’esistenza, ha generato un linguaggio pittorico che non cerca mai la
bellezza consolatoria, ma l’espressione autentica. L’uso delle mani, delle
spatole, dei gesti violenti, è il frutto di una necessità più che di una scelta
estetica: è la materia che chiede di emergere. Le influenze di Freud, Jung, Lacan,
si fondono con un vissuto profondamente umano, fatto di fragilità, paure,
solitudini. Ogni tela è un diario emotivo, un campo di battaglia tra ciò che
vorrebbe essere detto e ciò che non può esserlo, se non attraverso il
linguaggio del colore, del taglio, della distorsione. La mia arte è linguaggio.
È una lotta per dare voce a ciò che è stato silenziato. È, in ultima analisi,
una ricerca instancabile di verità e di riscatto

 

 

 

 

L’incontro tra la visione radicale e introspettiva di Maurizio D’Andrea, la sensibilità curatoriale di Carla Pugliano, qui per la prima volta nel doppio ruolo di artista e curatrice ospitante, e la lettura lucida e autorevole di Daniele Radini Tedeschi non è semplicemente una collaborazione, ma un esempio concreto di come la tensione tra pratiche differenti possa generare una mostra stratificata, colta e necessaria.
È da queste convergenze, rare e non scontate, che nasce un evento capace di oltrepassare la superficie dell’esposizione per farsi luogo di riflessione critica e confronto autentico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Informazioni sull’evento:

 

• Inaugurazione: Sabato 10 maggio 2025, ore 18:30

• Luogo: CathArt Gallery, Piazza Giovanni XXIII, 11 – Varese (Ingresso da Via Salvo D’Acquisto)

• Ingresso: Libero

• Apertura: da martedì a venerdì dalle 16:30 alle 19:00 – sabato dalle 10:00 alle 12:30 e 15:00 alle 19:30 / Domenica dalle 15:30 alle 18:30  

 

Per prenotazioni prendere contatti diretti.

 

 

Per saperne di più sull’Artista:

Contatti della Galleria:

• Email: myartcharlotte@gmail.com

• Telefono: 392 8081554

• Facebook: https://www.facebook.com/carla.pugliano/

• Instagram: https://www.instagram.com/cathart_gallery/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Arte

L’arte secondo Francesco carezza, profezia e misericordia

 

 

 
 
 
 

 

 

L’arte secondo Francesco


carezza, profezia e misericordia

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |21|Aprile|2025|

 

 

Oggi, mentre il mondo intero si raccoglie nel silenzio e nella memoria per la scomparsa di Papa Francesco, mi piace ricordarlo anche attraverso uno degli aspetti più intimi e meno istituzionali del suo pontificato, ossia il suo profondo e umanissimo legame con l’arte.

Per Papa Francesco, l’arte non è mai stata un semplice ornamento o privilegio riservato a pochi. È sempre stata, piuttosto, una carezza per l’anima, un linguaggio universale capace di parlare a tutti, anche a chi si sente lontano dalla fede. Nei suoi incontri con gli artisti, nelle sue parole e nei suoi gesti, traspariva una convinzione non comune… l’arte consola, risveglia, interroga e cura. È un varco misterioso attraverso il quale si può intravedere Dio, soprattutto quando le parole non bastano.

Come amava ripetere, “l’arte ha la capacità di aprire orizzonti, di rompere gli schemi, di raccontare la speranza anche nel dolore”. Parole che oggi risuonano con una delicatezza nuova, mentre si compone il suo ritratto più umano, più spirituale.

La sua sensibilità per l’arte nasceva dal basso, dalla sua amata Buenos Aires. Già da cardinale, aveva collaborato con l’artista argentino Alejandro Marmo, portando l’arte nei luoghi più umili, nelle fabbriche abbandonate, le periferie, le comunità dimenticate. Con Marmo nacque il progetto “Arte en las Fábricas”, un sogno condiviso per trasformare la ruggine e gli scarti in opere di bellezza, come parabola vivente del Vangelo.

 

 

Da quel sogno nacquero le imponenti sculture del Cristo Lavoratore e della Vergine di Luján, realizzate con ferro di recupero, oggi esposte nei Giardini Vaticani. Un gesto dirompente e poetico che fa entrare la spiritualità popolare nei cuori del Vaticano facendo nascere la bellezza dalle ferite.

 

 

Durante il suo pontificato, Papa Francesco ha voluto rafforzare il dialogo tra la Chiesa e l’arte contemporanea, sostenendo mostre, incontri e nuovi linguaggi visivi capaci di leggere il tempo presente. Lontano da ogni nostalgia, ha invitato gli artisti a non temere il dubbio, la crisi, la frattura, perché anche lì può germogliare una luce nuova.

Nei suoi discorsi, l’arte diventava spesso una metafora viva: la vita come scultura tra le mani di Diol’anima come tela in continua trasformazionela fede come restauro silenzioso della bellezza originaria.

 

Nel 2017 Papa Francesco ha affidato al libro La mia idea di arte scritto in dialogo con Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, una delle espressioni più dirette e profonde del suo pensiero artistico. Lontano dalle elucubrazioni accademiche o da un’estetica di maniera, il testo si presenta come una piccola mappa del cuore, in cui l’arte diventa eco del Vangelo e specchio della misericordia.

Il Papa vi seleziona personalmente undici opere o progetti artistici, tutti presenti nei Musei Vaticani, che per lui incarnano una visione precisa. L’arte deve servire la persona, deve aprire, accogliere, sollevare. Bellezza, per Francesco, non è sinonimo di lusso, ma gesto di vicinanza, strumento di evangelizzazione, forma di giustizia poetica.

 

 

 

Clicca sulla copertina se desideri acquistare il libro

 

 

Tra le opere scelte compaiono i progetti del Treno dei Bambini, le sculture di Alejandro Marmo realizzate con ferro di scarto, ma anche capolavori come la Pietà di Michelangelo, colta nella sua grandezza formale, ma soprattutto nella sua capacità di esprimere compassione, dolore, tenerezza.

Scrive Papa Francesco:

“L’arte che non mette al centro l’uomo e il suo bisogno di speranza diventa sterile. È la bellezza che ci fa respirare, che ci fa guardare oltre, che ci aiuta a vivere.”

In questo piccolo volume, si percepisce con forza la sua convinzione che l’arte debba tornare tra la gente, nei luoghi di cura, nelle periferie, nelle scuole, nei margini. Non arte da museo intoccabile, ma arte come alleata della misericordia, come via d’incontro.

“La mia idea di arte” è una riflessione mistica e una testimonianza pastorale. Un modo per ricordare che la bellezza vera è sempre solidale, inclusiva, umana. E forse, proprio per questo, anche divina.

 

 

In un mondo fratturato, Francesco ha saputo offrirci parole che scaldano, gesti che insegnano, silenzi che parlano. Anche l’arte, nelle sue mani, è diventata una forma di tenerezza pastorale, spazio di respirolinguaggio dell’animatregua e profezia.

Ma al di là di tutto, ciò che resta più forte è la sua umanità disarmata, il modo in cui ha abitato il papato come un fratello tra fratelli, con le scarpe consumate del pastore e il cuore acceso di Vangelo.

 

 

Nel ricordo di questo papa gentile, che ha saputo camminare accanto al mondo senza mai imporsi sopra di esso, resta viva non solo la sete di bellezza, ma anche quella di giustizia, di compassione, di pace.

Un’eredità silenziosa e potente, che ci affida al futuro con il coraggio di chi sa che ogni gesto d’amore è già preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Luce e Dubbio…. L’Incredulità di San Tommaso secondo Caravaggio

  • Luce e Dubbio

L’Incredulità di San Tommaso secondo Caravaggio

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |20|Aprile|2025|

 

Uno dei capolavori più intensi del primo Seicento, “L’Incredulità di San Tommaso” di Michelangelo Merisi da Caravaggio, nasce tra il 1600 e il 1601, probabilmente su richiesta del raffinato collezionista e mecenate Vincenzo Giustiniani, figura di spicco dell’aristocrazia romana. In questa tela straordinaria, Caravaggio mette in scena un momento cruciale del Vangelo di Giovanni: l’incontro tra il Cristo risorto e l’apostolo Tommaso, che fatica a credere nella resurrezione senza toccare con mano le piaghe del suo Maestro.

L’artista coglie con brutale sincerità il gesto di Tommaso, intento a inserire il dito nella ferita del costato di Gesù, come se volesse verificare empiricamente l’impossibile. Accanto a lui, altri due apostoli scrutano con attenzione quasi scientifica, inclinati in avanti, affamati di verità. È un momento sospeso, in cui la fede si confronta con il bisogno umano di prove tangibili.

 

 

Caravaggio abbandona ogni idealizzazione: i corpi sono solidi, segnati dal tempo e dalla fatica, e l’umanità di Cristo non è celata ma esposta con disarmante naturalezza. Lo sguardo del Risorto è sereno, quasi indulgente, mentre guida la mano del discepolo nell’atto che trasforma il dubbio in fede.

L’illuminazione, tagliente e teatrale, proviene da un’unica fonte laterale — tratto distintivo dello stile caravaggesco — che scolpisce i volti e le mani, ponendo l’accento proprio sull’atto fisico dell’indagine, trasformato così in un gesto di rivelazione. La luce non solo mostra, ma rivela; è simbolo del divino che irrompe nel buio dell’incredulità umana.

 

 

Questo dipinto è una scena evangelica, una riflessione sull’essenza stessa della fede, che nella prospettiva di Caravaggio non esclude il dubbio, ma lo attraversa per giungere alla verità. In questo senso, l’opera diventa una potente meditazione pasquale. Il Risorto non si impone con potenza, ma si offre al tocco, alla ricerca, alla fatica dell’uomo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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