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Uno Sguardo sull’Opera

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Presenza e dissoluzione… l’alchimia del mordançage nell’opera di Eugenio Sinatra

Eugenio Sinatra, fotografo e sperimentatore, è un autore che da sempre indaga i confini più sensibili e poetici della fotografia analogica. La sua ricerca si muove tra tecnica e intuizione, tra rigore di laboratorio e abbandono emotivo, facendo della materia stessa dell’immagine – l’emulsione, la luce, il tempo di sviluppo – un linguaggio espressivo. In ognuno dei suoi lavori emerge chiaramente la sua passione per i processi artigianali e la propensione verso una fotografia che sia gesto creativo e trasformazione.

In questo lavoro, un nudo femminile di intensa eleganza, Eugenio Sinatra adotta la tecnica del mordançage, processo di camera oscura inventato da Jean-Pierre Sudre e reso celebre in epoca contemporanea da Elisabeth Opalenik, considerata la “regina” di questa pratica. Proprio la Opalenik, che ha guidato e ispirato Sinatra con preziosi consigli, descrive il mordançage come “a darkroom process where the silver emulsion is lifted from the photographic paper in the shadow areas, then removed or rearranged. The floating veils of silver emulsion are my contribution to this process. Each image is unique.”

Un procedimento in cui l’emulsione d’argento, sollevata e quasi “strappata” dalla carta fotografica, viene poi ricomposta, lasciando sospesi veli e lacerti di materia che trasformano l’immagine in un corpo vivo, vulnerabile e irripetibile.

In questo lavoro, il nudo si libera da ogni tentazione descrittiva per assumere una forma di presenza rarefatta. La pelle, da semplice superficie, diventa un vero e proprio campo di trasformazione: un luogo dove la materia fotografica si solleva, lasciando affiorare frammenti, incisioni e lembi di luce. È come se l’emulsione, sottoposta alla forza del mordançage, restituisse visivamente la memoria di un contatto, la vibrazione di un passaggio tra presenza e dissoluzione. La figura femminile si manifesta come impronta, come residuo di un’apparizione che non si concede del tutto, sospesa in una dimensione di fragile eternità.

Il risultato è un’immagine sospesa tra fotografia e scultura, tra gesto alchemico e rivelazione poetica — un’opera in cui la materia fotografica si fa pelle, e la pelle diventa linguaggio.

 

A testimonianza della sua rilevanza artistica, questo lavoro è stato scelto per la pubblicazione nel prossimo numero di ContempoArte Magazine, in uscita a novembre 2025.

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Vermeer in doppia visione – Il mistero delle due Guitar Player a Londra

 

Vermeer in doppia visione


Il mistero delle due Guitar Player a Londra

 

A Kenwood House, a Londra, si è aperta una mostra dal titolo Double Vision: Vermeer at Kenwood che sta già facendo parlare critici e appassionati. Per la prima volta in oltre tre secoli, due versioni quasi identiche del dipinto The Guitar Player, attribuite al celebre pittore olandese Johannes Vermeer, vengono esposte una accanto all’altra, offrendo uno spettacolo visivo e intellettuale di rara intensità.

L’opera conservata abitualmente al Philadelphia Museum of Art, solitamente lontana dai riflettori, è stata prestata per l’occasione e si confronta con quella custodita da sempre a Kenwood House, considerata l’originale. Quest’ultima è firmata, in condizioni migliori e universalmente riconosciuta come autentica. Fin qui nulla di straordinario. Ma la novità arriva dalle analisi tecniche in corso, che stanno suggerendo un’ipotesi tanto affascinante quanto destabilizzante: la versione americana potrebbe non essere né una copia di bottega né un falso, bensì una autocopia eseguita dallo stesso Vermeer.

L’idea che l’artista olandese, noto per il suo catalogo limitato a sole 37 opere autenticate, possa aver dipinto due versioni dello stesso soggetto apre una serie di interrogativi intriganti. Era una pratica che usava abitualmente o si tratta di un caso eccezionale? La seconda versione fu realizzata per una commissione, o nacque da un’esigenza personale, come esercizio artistico o riflessione intima sul tema?

Oltre alla portata scientifica, la mostra colpisce anche per la sua forza poetica. Il pubblico può osservare da vicino entrambe le tele, cogliendo minime differenze nel tocco, nella luce, nella postura della figura femminile che suona la chitarra. In un’epoca in cui l’autenticità viene spesso affidata agli algoritmi, Double Vision ci ricorda che lo sguardo umano, sensibile e soggettivo, è ancora un potente strumento di analisi.

 

 

L’esposizione vuole sì rendere omaggio a Vermeer, ma al tempo stesso invita a interrogarsi sul senso dell’“originale”. Se entrambe le tele fossero state concepite dall’artista, la questione non riguarderebbe più soltanto l’autenticità, bensì la nostra idea di unicità e di valore nell’opera d’arte. Forse è proprio nella loro duplicità che si rivela una nuova forma di preziosità, un enigma che sfida categorie e certezze.

Double Vision è un itinerario nell’ignoto della creazione, e non una semplice mostra, un confronto silenzioso tra due immagini speculari che, pur simili, custodiscono variazioni sottili e cariche di significato. Un’occasione irripetibile per accostarsi al mistero di uno dei maestri più elusivi della pittura europea.

La versione del Philadelphia Museum of Art

 

 

La mostra è aperta fino all’11 gennaio 2026 presso Kenwood House, Londra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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La piccola danzatrice di Degas – Grazia e scandalo

 

La piccola danzatrice di Degas
Grazia e scandalo

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |07|Luglio|2025|

 

Tra le opere più affascinanti e controverse di Edgar Degas vi è senza dubbio La Petite Danseuse de Quatorze Ans, la scultura della giovane ballerina che, alla fine del XIX secolo, suscitò scalpore e meraviglia in egual misura. A differenza dei quadri più noti dell’artista, che ritraggono ballerine colte in gesti di danza e quotidiani, questa figura scolpita in cera sembra cristallizzare in eterno un momento di fragile attesa.

 

La modella si chiamava Marie van Goethem, aveva davvero quattordici anni ed era un’allieva dell’Opéra di Parigi. Proveniva da una famiglia povera, la madre era lavandaia, le sorelle anch’esse coinvolte nel mondo del teatro e dei servizi domestici. Come molte delle cosiddette petites rats de l’Opéra, Marie viveva in un ambiente difficile, in bilico tra disciplina artistica e insidie sociali. Era frequente che queste giovani ballerine attirassero l’attenzione di uomini ricchi in cerca di compagnia più che di arte.

 

 

 

Degas, con sguardo più analitico che sentimentale, decise di scolpire Marie non come un’icona idealizzata di grazia, ma come una ragazza reale, colta in un momento di concentrazione e rigidità. La scultura, alta circa un metro, fu realizzata in cera, un materiale allora inusuale per un’opera di tale rilievo. Ma fu l’uso di elementi veri, il tutù in tulle, le scarpette da ballo, il nastro nei capelli, a sconvolgere il pubblico del Salon del 1881. Alcuni critici parlarono con disprezzo di “una scimmia vestita da ballerina”, trovando il volto della giovane troppo marcato, quasi animalesco. Altri furono turbati dal realismo spietato con cui Degas ritraeva non solo il corpo, ma anche il destino incerto di queste ragazze.

 

Un dettaglio curioso è che Degas non vendette mai la scultura né la espose nuovamente. La tenne nel suo studio per decenni, come un frammento intimo del mondo che amava osservare con occhio lucido e implacabile. Solo dopo la sua morte venne deciso di fonderla in bronzo: oggi ne esistono 29 copie in musei prestigiosi di tutto il mondo, tra cui il Musée d’Orsay a Parigi, il Metropolitan Museum di New York e la National Gallery di Washington.

 

 

 

Oggi, La Petite Danseuse è considerata un’opera di straordinaria forza emotiva. Un concreto omaggio alla danza, ma anche un ritratto silenzioso della vulnerabilità e della dignità dell’adolescenza, colta nel suo momento più incerto e più vero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Alberto Granata “ Il dolore degli altri” Etiopia 2020

L’ArteCheMiPiace – Uno sguardo sull’opera 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |26|Aprile|2025|
 

 

 

Non c’è distanza. Non c’è filtro. Le fotografie di Alberto Granata non stanno lì per essere guardate, ti vengono addosso. Sono pezzi di mondo che respirano ancora.

 

Un viso scavato, un corpo disfatto, una stanza vuota che odora di fine. Non chiede permesso, la sua camera: entra. E quando entra, non torna più indietro. Alberto non racconta storie. Le porta in superficie. Le strappa dal fondo. È come se la macchina fotografica non fosse un mezzo, ma una ferita aperta, una lente che assorbe dolore e lo sputa fuori, nudo. Niente compiacimento, nessun estetismo da salotto. Solo realtà che brucia, e che continua a bruciare anche dopo lo scatto. 

 

Non fotografa la povertà. Non fotografa la droga. Non fotografa la malattia. Fotografa ciò che resta. I resti. Gli avanzi di umanità che nessuno vuole vedere. E lo fa da dentro, senza indossare i guanti. Perché non puoi evocare la solitudine se non ci sei stato dentro. Non puoi parlare di morte se non ti ha sfiorato la pelle. 

 

I suoi lavori sono fermi immagine che non stanno fermi. Ti seguono, si infilano sotto la pelle, ti svegliano alle tre del mattino. Sono ritagli, sì… ma ritagli che sanguinano. Ogni scatto è un mondo, ma è un mondo che crolla. Il reportage, per lui, non è cronaca. È corpo a corpo.

 

L’arte, quella vera, nasce quando smetti di osservare e cominci a sentire. E Alberto Granata sente tutto: il silenzio, la disperazione, persino quel minimo barlume di resistenza che a volte rimane incollato agli occhi dei suoi soggetti. Quello che non si lascia morire. 

 

Fotografare, per lui, non è rappresentare. È restituire. Dare indietro qualcosa a chi è stato preso. Ridare peso a chi è stato reso invisibile. Non c’è retorica. C’è verità. Una verità che fa male. C’è poesia, sì. Ma è una poesia ruvida, ferita. Una poesia che cammina scalza sul bordo del mondo, e decide di restarci. Di non voltarsi. Di non arretrare.

 
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