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Giuseppina Irene Groccia

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Galleria Sciarra Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 
 

Galleria Sciarra


Il Tempio Liberty delle Virtù Femminili nel Cuore di Roma

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |29|Luglio|2025|

 

 

La Galleria Sciarra è uno dei gioielli nascosti di Roma, situata nel cuore del centro storico, a pochi passi da via del Corso e Piazza Venezia. Nonostante si trovi in una zona centralissima, è poco conosciuta dai turisti, il che la rende ancora più affascinante.

La Galleria è un passaggio pedonale coperto, costruito tra il 1885 e il 1888 dall’architetto Giulio De Angelis su commissione del principe Maffeo Sciarra Colonna di Carbognano. Doveva fungere da elegante collegamento tra via Marco Minghetti, Piazza dell’Oratorio e via delle Muratte, e far parte di un più ampio progetto di rinnovamento urbanistico e commerciale.

 

 

 

 

La Galleria è decorata in stile Liberty (o Art Nouveau), e ciò che la rende davvero straordinaria sono i suoi affreschi spettacolari, i quali rappresentano un unicum nell’arte decorativa di fine Ottocento a Roma.

Essi furono realizzati tra il 1885 e il 1888 dal pittore Giuseppe Cellini, un artista attivo nel periodo della transizione tra l’eclettismo ottocentesco e il Liberty italiano. La decorazione pittorica fu ispirata da una visione idealizzata e moraleggiante della donna borghese, molto cara al committente, Maffeo Sciarra, aristocratico conservatore e fervente sostenitore dei valori della famiglia tradizionale.

 

 

L’intero ciclo pittorico è un omaggio alla femminilità borghese, vista come cardine dell’equilibrio sociale. Le figure femminili, elegantemente vestite secondo la moda del tempo, rappresentano una sorta di “manifesto morale” visivo.

Le principali virtù rappresentate sono:

La Pudicizia (Modestia), La Fedeltà coniugale, La Fortezza, La Maternità, La Discrezione, La Sobrietà, La Grazia, La Carità domestica

 

Ogni scena è accompagnata da motti e sentenze in italiano, latino e greco antico, scritti in stile lapidario, come se fossero precetti scolpiti nel marmo del vivere borghese. Ad esempio:

 

“La bellezza non è ornamento, ma luce dell’anima.”

 

 

 

“La donna è l’angelo della famiglia.”

 

 

 

 

Gli affreschi si sviluppano su tutti e quattro i lati della corte interna, disposti su più livelli, tra lesene, archi e balconcini, come se fossero quadri viventi inseriti in una scenografia teatrale.

Il tratto di Cellini è elegante e decorativo, con linee morbidecolori tenui, e una cura minuziosa dei dettagli nei tessuti, nelle acconciature, negli sfondi floreali e architettonici. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera quasi sospesa, idealizzata e mitica, pur parlando della quotidianità borghese.

 

 

Una delle peculiarità meno note è che le figure non rappresentano donne mitologiche o sante, ma donne reali, impegnate in attività quotidiane come leggere, educare i figli, cucire, ricevere ospiti, o passeggiare. Questa scelta rende gli affreschi straordinariamente moderni, nel senso che ritraggono la donna non solo come oggetto estetico, ma come soggetto morale e sociale.

Gli affreschi sono specchio della cultura di fine Ottocento: patriarcale, idealista, moralizzante, ma al tempo stesso rivelano anche un certo rispetto per la donna come custode del decoro sociale. Oggi possono essere letti anche in chiave critica, ma restano una testimonianza visiva affascinante di come l’arte interpretasse (e imponeva) i ruoli femminili nella società post-unitaria italiana.

 

Una delle curiosità più interessanti riguarda proprio l’intento originario della Galleria: il principe Sciarra aveva progettato questo spazio per essere un centro commerciale d’élite, con negozi di lusso al piano terra e gli uffici della sua rivista, “La Cronaca Bizantina”, ai piani superiori. La rivista, tra l’altro, fu uno dei primi esempi di giornalismo moderno in Italia, e si concentrava su arte, cultura e società.

Un altro dettaglio curioso: la Galleria, pur essendo proprietà privata, è aperta al pubblico durante il giorno, e molti romani la usano come scorciatoia elegante e tranquilla nel cuore caotico della città.

 

Se cercate un angolo di Roma lontano dal frastuono turistico, ma capace di sorprendervi con una bellezza intima e inaspettata, la Galleria Sciarra è una tappa imperdibile. È uno di quei luoghi magici dove il tempo sembra essersi fermato: appena varcato l’ingresso, vi ritroverete immersi in un mondo silenzioso e raffinato, avvolti dalla grazia delle figure femminili dipinte, dai colori morbidi degli affreschi e dalla luce che filtra delicatamente attraverso il soffitto in vetro e ferro battuto. Una piccola pausa poetica nel cuore della città eterna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IntervisteLetteratura

FRANCO EMILIO CARLINO – UNA CONVERSAZIONE CON UN CUSTODE DEL TEMPO

 

FRANCO EMILIO CARLINO


UNA CONVERSAZIONE CON UN CUSTODE DEL TEMPO

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |08|Luglio|2025|

 

Ci sono personalità che, nel silenzio operoso di una vita spesa tra l’insegnamento, la scrittura e la memoria storica, riescono a restituire interi frammenti d’identità collettiva a territori spesso dimenticati. Franco Emilio Carlino è una di queste figure rare. Docente appassionato, studioso scrupoloso, narratore della Calabria più autentica, ha dedicato decenni alla valorizzazione della cultura locale, muovendosi con scrupolosa attenzione tra documenti d’archivio, genealogie nobiliari, tradizioni popolari e pagine scolastiche.

Nel suo lavoro, ogni borgo diventa racconto, ogni nome di famiglia traccia un albero di memorie, ogni fotografia restituisce dignità al tempo passato. Da Mandatoriccio, suo paese natale, fino a Rossano, sua città d’adozione, Carlino ha intrecciato saperi, emozioni e dedizione in una produzione culturale che oggi rappresenta un patrimonio vivo, utile non solo alla conoscenza, ma anche alla coscienza del presente.

 

 

 

In questa intervista, abbiamo voluto raccogliere la testimonianza del suo percorso, insieme a una riflessione più ampia sulla responsabilità di tramandare, l’importanza di educare e la necessità, mai come oggi, di raccontare per resistere all’oblio.

 



 

 

Lei ha sempre sostenuto l’importanza di valorizzare le esperienze
per renderle fruibili agli altri. In che modo questa filosofia ha guidato le
sue scelte professionali e culturali, e quali trasformazioni ha osservato in
chi ha potuto beneficiarne?

 

Provo a rispondere a questa prima
domanda, che mi richiama al valore dell’esperienza condivisa cercando di essere
il più esaustivo possibile. Ho sempre pensato, sin dall’inizio della mia
carriera professionale, che le esperienze fatte in qualunque campo, andassero partecipate
rendendole utili e accessibili agli altri. Come arrivarci e affinché tutto ciò
accadesse non è stato semplice. La prima occasione concreta, a incanalarmi su
tale filosofia, fu la mia esperienza ultradecennale alla guida Distretto
Scolastico N. 26 di Rossano, massimo Organo Collegiale della Scuola sul
Territorio di pertinenza, nella veste di Vice Presidente e Presidente.
Terminata questa positiva avventura ritenni giusto lasciare traccia e memoria
di quanto fatto, perché nulla andasse perduto. Decisi, pertanto, di raccogliere
l’esperienza, come testimonianza documentata, in un volume dal titolo: Il
Distretto Scolastico N. 26 di Rossano. Organi Collegiali e Partecipazione
. Il
progetto si rivelò una filosofia vincente in grado di valorizzare quanto prodotto e
realizzato sul campo rendendolo fruibile al personale della Scuola di ogni
Ordine e Grado. Una cronistoria di cui si forniscono le tante attività realizzate tra il 1988 e il 1997,
che mettono in risalto l’importanza e il ruolo degli Organi Collegiali e la partecipazione della
Comunità scolastica. Questo tipo di approccio, influenzò fortemente le mie
scelte culturali e professionali divenendo apripista per le esperienze future
confluite sempre in apposite pubblicazioni. Basti ricordare i successivi due
volumi: Dimensione Orientamento – Itinerario Teorico Pratico di ricerca e di
documentazione per la prassi dell’Orientamento nella Scuola
e Note di
Politica Scolastica nella Provincia di Cosenza (1997-2001)
.

Il primo raccoglie scritti e documenti sull’orientamento
formativo nella scuola italiana e setaccia la natura del tema, inteso come
consapevolezza di sé e capacità di scelta in ambito scolastico e professionale,
ma anche esistenziale. Al suo interno si possono trovare riferimenti normativi
significativi oltre che esperienze pratiche, insieme all’uso di diari personali
per gli studenti e l’analisi del mercato del lavoro. L’opera dibatte il ruolo
fondamentale degli insegnanti e dei distretti scolastici, sottolineando la
necessità di un orientamento continuo e integrato al curriculum, diretto a
sviluppare le competenze necessarie per affrontare i cambiamenti del mondo del
lavoro e della società complessa, proponendo strumenti e metodologie per la conoscenza
di sé, dei percorsi formativi, e delle professioni. Un lavoro realizzato
insieme al Centro di Orientamento scolastico e professionale di Cosenza in
tutte le Scuole Medie del Distretto Scolastico n. 26 di Rossano, diretto dal
Dott. Mario Pedranghelu. Il secondo volume, invece, presenta una compilazione
di documenti e articoli relativi alla politica scolastica nella provincia di
Cosenza tra il 1997 e il 2001 e documenta la mia esperienza nel massimo Organo
Collegiale della Scuola a livello provinciale, come componente della Giunta Esecutiva.

Relativamente alla seconda parte
della domanda, circa i cambiamenti
osservati
 in coloro che hanno beneficiato di questo
approccio, a distanza di anni posso dire che sono notevoli. Ancora oggi
quell’approccio di esperienza condivisa e quel lavoro di gruppo riescono in
molti casi, per la loro impostazione, a promuovere certamente il valore della
condivisione attraverso le esperienze attuate rimaste positivamente nella
storia della scuola distrettuale di Rossano per i numerosi valori promossi.   

 

Nel corso della sua lunga carriera nella scuola e negli Organi
Collegiali ha vissuto una fase cruciale della trasformazione dell’istruzione
pubblica. Cosa rimpiange di quel modello di partecipazione e cosa, invece,
crede possa essere ancora attualizzato oggi?

 

Questa seconda domanda mi invita ad una profonda riflessione sull’evoluzione
della scuola pubblica, da me vissuta in oltre 37 anni di carriera,
richiamandomi in modo particolare alla mia esperienza di partecipazione attiva ai cambiamenti del
sistema educativo attraverso la partecipazione agli Organi Collegiali. Come già
accennavo, la risposta sta nel primo volume dove sono raccolte e illustrate le
numerose e straordinarie iniziative e
progetti
 promossi dal Distretto, come corsi di formazione,
concorsi ambientali, attività sportive e seminari su temi sociali e pedagogici,
evidenziando la forte intesa e collaborazione
con enti locali del tempo e le associazioni
 per il
miglioramento dei servizi scolastici e il sostegno agli studenti. Iniziative
dalle quali emerge forte l’impegno del Distretto nel promuovere la partecipazione democratica e
come questo affrontò le sfide educative e sociali del territorio.

Per rispondere anche in questo caso
al suo secondo punto di domanda le dico che non posso nascondere che io stesso
rileggendo quel volume, ancora oggi vengo sollecitato dall’interrogativo se
quanto fatto in quegli anni, sostenuto da molti come una pagina scolastica
unica di grande valenza e interesse per tutta la scuola e la Comunità del
nostro territorio, possa ancora oggi, la stessa, essere ritenuta valida e come
punto di riferimento per la scuola di oggi, la risposta è decisamente sì. La riflessione
mi invita a rispondere che per molti versi, guardando l’evoluzione della scuola
di oggi, molti sono i rimpianti
relativi ai modelli di partecipazione passati, probabilmente
non sufficientemente valorizzati dalla stessa politica scolastica che ha
cercato a tutti costi di scardinare un settore che stava diventando un fiore
all’occhiello della scuola italiana e che via via si è perso per mancanza di
risorse ed anche perché alcuni spazi riservati alla scuola sono stati occupati
impropriamente dalla politica, entrata a gamba tesa nella Scuola anche
attraverso un processo di autonomia non propriamente condiviso dalle diverse
componenti scolastiche. Il mio pensiero vola al
clima di scontro sul tema della razionalizzazione della rete
scolastica e del dimensionamento instauratosi tra le rappresentanze della scuola
e il Consiglio Provinciale di Cosenza dove quest’ultimo fece prevalere la
logica dei numeri, attraverso le indicazioni che arrivavano dal Governo di Roma,
a discapito delle esigenze e le identità delle singole scuole sul territorio. In
quel periodo, se non ricordo male io stesso scrissi un articolo che descriveva
molto bene il nostro sentimento di malcontento, raccontando il senso di
smarrimento, di perdita di identità a causa di una fusione, che allora, ricordo,
riguardò la Scuola Media di Piragineti-Amica, e che ebbe un’amara conclusione
in quanto la logica dei numeri prevalse sulle persone.

 

 



 

Il suo impegno nell’UCIIM dimostra un legame profondo tra
educazione e valori. Come si può coniugare oggi, nella scuola laica, una
formazione che non rinunci all’etica, alla responsabilità e alla dimensione
spirituale del docente?

 

L’esperienza ultratrentennale nell’UCIIM,
mi ha portato a rivestire ruoli di fondamentale importanza come la presidenza
della Sezione di Mirto Rossano e la presidenza Provinciale nel territorio
cosentino. Sono stati anni densi di significato e di attività che hanno messo
in luce un modo nuovo di operare, forse non sempre adeguatamente apprezzato e
condiviso, ma che per quanto mi riguarda, portò a notevoli risultati. Molte
cose sono state fatte ed in particolare un allargamento della presenza
uciimina, su un territorio fino ad allora arido e non sufficientemente arato, che
portò alla fondazione di tre nuove sezioni: Cassano allo Jonio, San Marco
Argentano e Lungro. Un progetto ispirato da una filosofia di collaborazione
vera e non subalterna, che riuscì a legare significativamente il mondo
scolastico provinciale e l’associazionismo cattolico attraverso un costante
dialogo con la Chiesa e Vescovi dei territori coinvolti. Una scuola di laici
cattolici che chiedeva il supporto ai propri vescovi per condividerne il
progetto. Da questa interessante esperienza che diede  i suoi frutti in termini di numeri e di
qualità di servizio, venne come le precedenti, documentata in alcuni volumi: (Profilo
di una Sezione – 25 anni al servizio di una comunità scolastica (1978-2003) –
La memoria per progettare il futuro
, Grafosud, Rossano 2004; Percorsi –
Le attività della sezione giorno dopo giorno (2002-2007) – Bilancio e cronaca
di un sessennio
, Grafosud, Rossano 2007; Tutti i Soci della Sezione
(1978 -2008) – Attività di ricerca e documentazione,
Ferrari Editore,
Rossano 2009, altri volumi inediti e numerosissimi articoli) dai quali affiora
in maniera vincente l’importanza di essere
riusciti ad integrare etica,
responsabilità e spiritualità
 pilastri della formazione
del docente cattolico via via, per quanto possibile, trasferite nell’educazione
contemporanea. Inoltre, da laico, rispettoso dei valori dello Stato e contemporaneamente
cattolico, mi sono sempre interrogato su come la scuola laica potesse carezzare queste
dimensioni, essenziali per la formazione dei docenti. Devo dire che l’impegno dell’UCIIM,
nel nostro territorio è stato molto importante per la formazione di intere
generazioni di docenti ed è stato un esempio concreto di esperienza sul campo
che ha saputo unire educazione e
valori
. La questione centrale ora rimane come mantenere questo
positivo connubio venutosi a creare. Questo coinvolge la
formazione dei nuovi docenti cattolici
che devono, senza rinunciare all’etica, alla responsabilità e alla loro dimensione
spirituale, coniugare anche una loro

crescita personale e morale secondo
un nuovo modo di fare formazione in un contesto educativo centenario, che a me sembra, in questo momento, alquanto
problematico e inadeguato alla luce anche delle nuove sfide imposte
dall’intelligenza artificiale.

 

Negli ultimi anni la sua attività di ricerca ha fatto luce su
angoli poco esplorati della storia calabrese. Secondo lei, quale valore ha oggi
la microstoria e perché è fondamentale per la costruzione di un’identità
collettiva forte, specie nei piccoli centri?

 

La ringrazio per questa domanda,
perché mi offre l’occasione di affrontare concretamente la questione e
l’importanza della microstoria o come comunemente viene detta ‘storia locale’.
Entrando nel merito della domanda, anche in questo caso, devo dire che la
filosofia che mi ha spinto a fare ricerca su angoli poco esplorati della storia
calabrese poggia su due pilastri. Il primo è l’idea di un v
iaggio nella Storia, con finestre che si dischiudono
sui territori di pertinenza cercando di coglierne ogni minimo particolare. Spaccati
storici che descrivono e portano all’attenzione del lettore un enorme parte del
territorio calabrese comprendente le provincie, di Cosenza, Catanzaro e Crotone
nelle quali si riscontrano molti fili conduttori comuni, compreso l’idioma
dialettale. Il secondo pilastro sono le ragioni che mi hanno spinto a fare
ricerca seguendo alcune finalità principali.
La prima finalità riguarda il fine pedagogico essendo stato docente di
scuola media per circa 40 anni questa è influenzata e contaminata dalla
deformazione professionale. Infatti, le mie pubblicazioni privilegiano lo scopo
didattico narrativo e sono tutte finalizzate al coinvolgimento delle giovani
generazioni perché queste si avvicinino il più possibile alla propria storia e
alla riscoperta della propria identità culturale del territorio facendo tesoro
di quanto la stessa storia, in termini di avvenimenti, tradizioni, folklore,
religione, esperienze, monumentalità, arte, beni culturali, archeologia,
economia, agricoltura e altro ancora, ci ha tramandato, elementi fondamentali per la costruzione di quella
solida identità collettiva, specie nei piccoli centri, alla quale la sua
domanda mi richiama. In questo settore, come in quelli precedenti trattati,
numerose sono le pubblicazioni, che invito, per motivi di spazio di consultare
sul mio sito
www.francoemiliocarlino.it

Molte sono dedicate
al mio paese di origine, riguardanti la sua storia, le sue tradizioni, il suo
dialetto;  tante altre a Rossano ed altre
ancora al territorio della Sila Greca e del Reventino Savuto. 

La  seconda
finalità è quella di poter recuperare un spazio adeguato  alla storia locale che non trova nella scuola
di oggi nonostante sia consigliata. I docenti di storia continuano a preferire
l’insegnamento della storia tradizionale secondo i programmi ministeriali.
Spesso si continua a parlare di Fenici e Sumeri, popolazioni a noi lontane, che
si fa fatica a farle comprendere a ragazzi di 11 anni, quando invece dietro
l’uscio di casa nostra, aprendo la porta, abbiamo un mondo vastissimo da
esplorare. Basti pensare a popolazioni come i Greci e i Bruzi, ai nostri
territori ricchi di opere d’arte, di tanti siti archeologici a portata di mano.
Insomma per quanto mi riguarda penso si debba fare storia partendo da vicino
con la microstoria per arrivare lontano allargando via via l’orizzonte e preparando
la mente dei ragazzi a recepire discorsi più complessi. Questo eviterebbe il facile
disorientamento e la crescita di un maggiore amore per lo studio della storia e
il possibile recupero dell’identità nei piccoli centri.

 

 

Dalla storia locale alla genealogia delle famiglie nobili, lei
ricompone storie individuali in un mosaico più ampio. Che cosa può insegnare
oggi la riscoperta delle proprie origini a una generazione che sembra sempre
più sradicata?

 

La risposta a questa domanda è legata
fortemente a quanto sostenevo prima e la
ragione
non riguarda solo la mia persona ma quanti hanno il desiderio di conoscere le
proprie origini. Io credo sia desiderio di chiunque conoscere a fondo da dove
proveniamo, i nostri antenati, come pure le testimonianze, il viaggio che
abbiamo fatto, per mezzo di chi ci ha anticipato e dove siamo arrivati, oppure
quali sono stati i personaggi principali della nostra storia ed ancora chi
erano coloro che ci hanno organizzato come comunità e cosa facevano, quanto
hanno condizionato e segnato la nostra personalità, ed infine le vicende e le
influenze storiche che ci hanno riguardato. La voglia di apprendere, che
fondamentalmente è e rimane la sostanza della nostra ragione, non ci deve mai
abbandonare, anzi va sostenuta e alimentata continuamente allo scopo di fare
memoria comune del nostro passato per immaginare positivamente il nostro
futuro.

Detto ciò viene
da se che il passo dalla storia locale alla genealogia delle famiglie diventi passaggio
obbligato per lo studio e la ricerca poiché il tema della riscoperta delle origini personali e
il suo significato nel mondo contemporaneo assume un valore forte per tutti
singolarmente e per una comunità in generale. Sono passato dalla storia locale
alla storia biografica individuale e dalla storia locale alla genealogia
nobiliare in maniera naturale. In questo settore numerose sono state le mie
pubblicazioni, che ovviamente in questa sede non posso citare tutte, ma la loro
realizzazione mi ha permesso di ricostruire un mosaico molto ampio della nostra storia.
Si tratta di Biografia
e storia di alcuni Rossanesi illustri
, Consenso Iure Loquitur, Rossano 2020
e Vita e Opere di Autorevoli Figure Rossanesi, conSenso publishing,
Rossano 2023. Ricerche documentali finalizzate a fare luce sulla vita e le
opere di autorevoli figure rossanesi che nel tempo con le loro imprese, le
opere, l’eroismo, il talento, la testimonianza si sono distinti per merito e
credito, nelle armi, nelle scienze, nella medicina, nella letteratura, nella
religione, nella musica, nella politica, dando prestigio a Rossano, ragione per
la quale mi è sembrato doveroso continuarne a fare memoria. Un’opera dedicata
alle nuove generazioni della Città perché facciano tesoro e memoria
dell’insegnamento di questi grandi uomini, che hanno scritto molte pagine della
storia rossanese oltre che italiana. Relativamente alla genealogia interessanti
sono risultati i lavori di ricerca: La nobile famiglia Montalti di Rossano –
Storia e genealogia
, Grafosud in coedizione con la casa editrice Consenso
Publishing Edizione a tiratura limitata, Rossano 2019 e I Toscano Patrizi
Rossanesi – Storia, genealogia e feudalità
, Luigi Pellegrini Editore,
Cosenza 2020. Opere ovviamente importanti che nel corso della ricerca mi hanno interrogato continuamente sull’importanza di questa
riscoperta sempre finalizzata alla sollecitazione delle nuove generazioni, oggi sempre più percepite come generazioni
prive di radici
. Il passaggio conclusivo mi ha suggerito
che in quest’epoca così priva di veri modelli di riferimento far comprendere le
proprie radici possa risultare un prezioso insegnamento per il nostro mondo sradicato e smemorato.

 

Tra scrittura, fotografia e documentazione lei ha creato un
archivio vivo del suo territorio. Quali criteri segue nel selezionare cosa
merita di essere tramandato, e in che modo riesce a trasformare il passato in
racconto coinvolgente?

 

Interessante la sua domanda. Spero di
essere altrettanto esauriente con la risposta.
La discussione in oggetto  riguarda la modalità di aver attrezzato un voluminoso
e consistente archivio dinamico che
riesce a combinare tre elementi di trasmissione informativa: la scrittura, la fotografia
e la documentazione. Come dicevo nella precedente risposta è possibile trovare
tutto sul mio sito personale
www.francoemiliocarlino.it che tutti  possono consultare e nel quale è presente
tutta la mia vita professionale. In questo è possibile navigare nelle mie quasi
sessanta pubblicazioni, una rubrica nella quale sono catalogati e disponibili
per la lettura circa 500 articoli dal 1988 al 2025, i numerosi eventi
realizzati nel Distretto Scolastico, nel Consiglio Provinciale, nell’UCIIM, una
interessante rassegna fotografica, le diverse escursioni  fatte, alcune pagine
dedicate alla mia Mandatoriccio, altre a Rossano tutte le locandine degli
eventi realizzati che dimostrano lo straordinario impiego di energie durante la
vita professionale e culturale. Un sito costruito artigianalmente ma funzionale
a una semplice consultazione a disposizione di tutti allo scopo di preservare
la storia e la memoria
territoriale
. In quanto catalogato non ci sono criteri
particolari di selezione, ma quanto realmente realizzato con i commenti e la
rassegna stampa relativa ad ogni evento. Tutto, per quanto mi riguarda, merita
di essere tramandato e questo è opportunità di crescita per quanti vorranno
avvicinarsi alla ricerca e allo studio della storia locale, comprenderne la
metodologia adoperata in modo da poter trasformare, come ho cercato di fare io,
il passato in una narrazione
avvincente
. Spero di non essere frainteso, ma ritengo di aver
costruito negli anni, rendendolo accessibile a tutti, un archivio vivente della memoria
locale dove è possibile spaziare dalla scuola, alla cultura, dalla formazione
alla informazione, dall’evento alla fotografia, dal giornalismo alla
pubblicazione ed all’interno del quale storia e memoria territoriale
rappresentano un felice connubio e un’opera da sfogliare, sulla quale
riflettere per andare avanti.

 

Lei parla spesso di “riappropriarsi del com’eravamo”.
Ritiene che la cultura e la memoria siano oggi strumenti di resistenza contro
la perdita di identità? Come possono le nuove tecnologie supportare, o
ostacolare, questo processo?

 

La sua domanda mi sollecita a
ribadire, ancora una volta, la mia idea di recupero della nostra memoria culturale. Un qualcosa che è sempre
presente nelle mie pubblicazioni e punto di riferimento costante dei miei
interventi. Non vi può essere futuro senza memoria. Il suo recupero rappresenta
per me uno
stile, una forma di resistenza contro la perdita della
nostra identità. Il “riappropriarsi del com’eravamo” è quanto già sostengo in
un altro precedente interrogativo, ossia la
ragione
di chiunque abbia il desiderio di conoscere le proprie origini. Da dove
proveniamo, il viaggio che abbiamo fatto e quanto ha riguardato e segnato la
nostra personalità e quindi la nostra formazione. La nostra vita deve essere un
continuo interrogarsi su come la cultura e i nostri ricordi possano adoperarsi o
possono essere strumenti per preservare il senso di sé e rafforzare il senso della
nostra appartenenza ad una comunità viva, insomma strumenti per non perdere la
nostra identità. E vengo, infine, alla seconda parte della sua domanda, cioè quale
ruolo rivestono le nuove
tecnologie
in questo processo di conservazione identitaria, se
sono in grado di sostenerlo, supportarlo oppure ostacolarlo, se lo possono
facilitare oppure addirittura impedirlo. La mia riflessione, a questo punto,
per darle una risposta, non può che concentrarsi quindi sull’intersecarsi dei
diversi elementi che sono artefici di questo processo sempre e comunque in
evoluzione come la memoria, la cultura e appunto l’innovazione tecnologica. Le
prime due, memoria e cultura, per quanto abbiamo detto prima, è scontato che
devono continuamente essere alimentate, nel mio caso le diverse pubblicazioni
sulla microstoria, i costumi, le tradizioni, l’idioma dialettale, la
genealogia, le biografie, né sono un esempio evidente, chi fa cultura fa anche
memoria, fare memoria e preservarla significa salvaguardare il futuro, la nostra
identità. Il terzo elemento, in questo contesto di resistenza culturale,
richiama tutti ad una visione nuova quale può essere l’uso delle nuove
tecnologie, o l’applicazione dell’intelligenza artificiale che se correttamente
applicate non possono che favorire tale processo e quindi la conservazione
della nostra memoria e il com’eravamo. Per quanto mi riguarda, il mio archivio
vivo, come lei lo chiama, è un esempio di come tutto può essere conservato per
trasmetterlo agli altri. Un domani chi avrà modo di consultarlo credo avrà
molto da ricordare e da elaborare. È come un guardarsi allo specchio, per
continuare a camminare, facendo memoria con l’aiuto della tecnologia allo scopo
di creare una sorta di resistenza culturale.

 

Ha scritto numerosi saggi storici, genealogici e narrativi. C’è
un’opera tra tutte che considera un punto di svolta nel suo percorso autoriale,
un lavoro in cui sente di aver condensato più profondamente la sua identità di
scrittore e studioso?

 

Cerco di dare una risposta a caldo
alla sua domanda di avvio dicendo che tutte le opere di un autore, saggi storici, genealogici e narrativi,
sono importanti ed ognuna presenta le proprie peculiarità. Tuttavia, per venire
incontro alla sua richiesta specifica le rispondo che tra le tante, l’opera che considero un punto di svolta nella mia strada
di autore è il saggio sui Toscano Patrizi Rossanesi. Tra Storia, Genealogia
e Feudalità
, in quanto riassume tutto un lavoro di ricerca fatto in
precedenza e presente, attraverso aspetti diversi presi in considerazione, in
tutti i saggi pubblicati in passato. Inoltre, la suddetta opera si è rivelata  il punto di svolta della mia ricerca futura in
quanto è stata di suggerimento per l’interesse di un lavoro che va ad
incastonare più di ogni altra opera, profondamente la mia identità di scrittore e
studioso, in sintesi l’opera che mi definisce. Inoltre, gli aspetti storici,
genealogici e narrativi si intrecciano a tal punto da far risultare il suddetto
saggio come punto di svolta del mio percorso autoriale poiché in essa vi è la
sintesi che lega la mia attività di autore riflettendone appieno la sua essenza.
Aggiungo anche che fu l’opera per la quale in qualche modo mi sono ritrovato a
far parte, come Socio Corrispondente, della prestigiosa Accademia Cosentina di
Aulo Giano Parrasio, di Bernardino Telesio e di Sertorio Quattromani.   

 

La sua scrittura si basa su una documentazione meticolosa, unita a
una narrazione accessibile. Può raccontarci qual è il suo metodo di ricerca e
quali sono le maggiori difficoltà incontrate nell’accedere a fonti attendibili
per i suoi libri?

 

Rispondendo alla sua domanda sarò
molto sincero. La mia ricerca risulta quasi sempre molto meticolosa e
puntigliosa. Cerco il più possibile di essere rispettoso del lavoro altrui
avendo in questo campo, proprio per la mia accuratezza e precisione in quello
che faccio trovato molte cose fuori posto nelle ricerche altrui. Mi piace
citare quanti vengono coinvolti nella ricerca, evitando però, come fanno in
tanti di inserire nella bibliografia per compiacere testi che con lo studio in
elaborazione non hanno nulla a che fare. Mi piace anche mettere a confronto i
numerosi autori citati anche quando riportano la medesima notizia senza citare
la fonte, proprio per far comprendere come in precedenza tutto era possibile.
Su tale aspetto le faccio un esempio. Fino all’avvento di Internet alcuni
autori o pseudo autori hanno potuto dire di tutto e di più, senza citare le
fonti, e il vasto pubblico dei lettori non avendo la possibilità di fare gli
opportuni riscontri spesso li fece passare come dei grandi storici. Con
Internet questo non è più possibile tanto è vero che molti autori, sbugiardati
nelle loro stesse ricerche, si arrampicano sugli specchi. Ovviamente non manca
ancora chi anche di fronte all’evidenza non si arrende dimostrando una
resistenza fuori luogo. Ma bisogna mettere in conto anche questo, l’apertura
mentale dei singoli soggetti nel campo della ricerca storica produce anche
questi effetti. Fatta questa premessa torno alla sua domanda dicendo che per
quanto mi riguarda una volta tracciato il progetto e come questo va realizzato,
nella sua impostazione e soprattutto nella sua struttura, cerco di raccogliere
le fonti necessarie documentali attraverso i numerosi canali via via
scandagliati, dove ogni notizia viene messa a confronto per comprenderne il più
possibile la sua attendibilità. Le fonti attendibili maggiormente usate che
aiutano il mio metodo di ricerca e le sfide che tutto ciò comporta sono le diverse
biblioteche nazionali o universitarie, i libri di altri autori, gli archivi
storici di Stato e gli archivi privati, quando questo è possibile, gli archivi
di libri antichi, Internet e wikipedia, questi ultimi però con molta attenzione
essendo canali che vanno verificati con attenzione. Le difficoltà incontrate
riguardano i costi della ricerca. Oggi richiedere anche piccole informazioni
alle biblioteche mediante digitalizzazione ha un costo, poi vi sono molte
difficoltà dovute alla consultazione degli archivi, soprattutto quelli privati,
non tutti, infatti, sono propensi a raccontarsi mettendo a disposizione il
materiale in loro possesso. E questa è una nota dolente per la ricerca
riguardante la storia locale, la genealogia e la biografia.  Riguardo alla narrazione accessibile della mia
scrittura, che lei mi conferma nella domanda, ne sono contento, ma non so cosa rispondere,
se non che cerco sempre di prestare attenzione a quanto scrivo e a quello che
scrivo ed anche qui la mia deformazione professionale è evidente. Infatti da ex
docente quando scrivo qualcosa penso sempre di avere davanti i miei alunni, come
quando ero a scuola, il lato debole della catena che deve essere compreso e
aiutato e proprio per questo cerco di essere il più chiaro possibile per mettere
il lettore a proprio agio. Nulla va detto per caso, il metodo scientifico, la
ricerca di supporto e la verifica di ogni cosa sono essenziali in ogni progetto,
lo dico da ex docente di Educazione Tecnica, e quindi anche nella scrittura e
nella scelta delle fonti. La storia non può essere manipolata. Le informazioni
devono essere pulite. Altra cosa è la critica storica dove è possibile
esprimere il proprio pensiero e confrontarlo con quello degli altri. Tutto ciò
forse rende la mia scrittura storica,
basata su una documentazione
meticolosa,
 una narrazione accessibile.

 

Essendo membro di prestigiosi enti culturali come l’Accademia
Cosentina e la Deputazione di Storia Patria, come valuta oggi il ruolo delle
istituzioni culturali locali nel promuovere davvero la conoscenza e
l’inclusione delle comunità?

 

Essere membro di questi prestigiosi
Istituti è un onore. Aggiungerei ai due prestigiosi Istituti citati nella
domanda anche il terzo di cui faccio parte: l’Università Popolare Rossanese.
Queste istituzioni culturali hanno un’importanza notevole sul territorio di
pertinenza e svolgono un ruolo fondamentale a livello culturale nella
promozione della conoscenza e nell’inclusione delle singole Comunità. Il tema
nodale e l’interrogativo centrale a mio parere verte sul ruolo di queste istituzioni e come
queste riescono a promuovere
efficacemente la conoscenza e l’inclusione
 all’interno
delle comunità trasformando la cultura in una vera inclusione sociale,
soprattutto oggi dove sul territorio sono presenti tantissime associazioni che
nelle intenzioni hanno lo scopo di fare cultura, ma non sempre questa riesce a
lasciare traccia, perdendosi per strada.

Come membro delle tre prestigiose
istituzioni citate, si può dire che è tutta un’altra musica poiché quanto si
realizza viene poi tramutato in opportune pubblicazioni scientifiche che
incidono notevolmente sul tessuto sociale e culturale delle Comunità. Basti
dare un’occhiata alle tante pubblicazioni dell’Accademia Cosentina e alle
pubblicazioni annuali dell’Istituto di Storia Patria per la Calabria, oltre
alle numerose manifestazioni culturali per rendersi conto che parliamo di un
livello molto alto di come si fa cultura. Non di meno è il ruolo che riveste
l’Università Popolare Rossanese, del quale oggi rivesto anche il ruolo di
Segretario, che nonostante le numerose difficoltà oggettive alle quali per
tanti motivi ha dovuto far fronte ultimamente, come la mancanza 
di una sede adeguata, l’arrivo del
Covid e la carenza di risorse economiche, è riuscita comunque a dare il senso
della sua continuità ultra quarantennale nel campo della proposta culturale,
con una serie di iniziative che hanno coinvolto e interessato la numerosa Comunità
della nuova città di Corigliano Rossano. Anche per questo Istituto vale la
scientificità degli atti proposti da parte del Comitato Scientifico. Numerose,
infatti sono state negli anni le pubblicazioni realizzate, comprese le due mie
pubblicazioni:
L’Università Popolare di Rossano – Le Opere e i Giorni
(1979-2014)
nella quale sono raccolte tutte le attività dei primi
trentacinque anni di attività e
L’Università Popolare di Rossano –
Cronologia degli argomenti trattati
(1981-2016)
nella quale sono adunate le attività del successivo
biennio insieme ad altre attività realizzate ma non inserite nella prima
pubblicazione. Un’attività che certamente avrà un suo seguito con una ulteriore
pubblicazione per raccogliere quanto fatto negli ultimi dieci anni di attività.

 

Nel campo della narrativa ha esplorato temi più personali e
intimi. Che cosa le consente la scrittura letteraria che la ricerca storica non
le permette? Quale libertà narrativa sente più autentica quando passa dalla
storia alla fiction?

 

I miei approcci con la narrativa, come lei dice, mi hanno
permesso di esplorare temi più personali. Tre brevi saggi
Il profumo dell’erica…, Alcuni giorni al mare… e Aspettando il
Natale
…, sui quali mi sono concentrato liberando la mia fantasia che hanno
trovato spazio in tre distinte antologie di narrativa di AA.VV., mi hanno offerto una maggiore libertà espressiva, un
aspetto, meno accessibile avuto nella storia. La scrittura letteraria, rispetto
a quella storica, mi ha certamente permesso una maggiore libertà, consentendomi
un maggiore spazio nell’uso della narrazione cosa che invece la scrittura
storica non consente in quanto basata sulla ricerca delle fonti che hanno
bisogno di essere visionate, analizzate e convalidate. Tuttavia questo
passaggio, per i miei studi lo definirei esplorativo poiché mi ha concesso di evidenziare
un cambiamento significativo nel modo di operare  consentendomi di mettere in luce un passaggio
tra ii diversi generi letterari e le differenti possibilità nell’affrontare le diverse
tematiche.

 

Ha dedicato una vita a valorizzare la memoria, l’educazione e la
cultura del territorio. Guardando ai giovani oggi, che tipo di eredità desidera
lasciare e quale prospettiva culturale considera la più urgente per il futuro
della Calabria?

 

Ho dedicato tutto me stesso, spesso
sacrificando anche gli affetti personali, alla promozione dell’insegnamento, dell’educazione, della
formazione dei docenti, della scuola nella sua globalità, come dicevo
all’inizio, anche attraverso la mia attiva partecipazione negli Organi
Collegiali della Scuola, e soprattutto negli ultimi trent’anni, riservando gran
parte del mio tempo all’affermazione della cultura locale e alla ricerca della
memoria delle nostre Comunità e allo studio del territorio della Sila Greca,
del Cosentino e della Calabria dedicando numerosi volumi alle nuove
generazioni  sollecitandoli ad andare
fieri
delle loro tradizioni, della loro cultura, della loro lingua e delle loro
origini. Spero, intanto, che il mio percorso educativo e di formazione sia per
loro un esempio. L’eredità che desidero venisse in qualche modo raccolta è
quella che le nuove generazioni trovino alternative giuste, forse quelle che
non siamo riusciti a trovare noi,  per
dare una prospettiva culturale più pressante al futuro della
Calabria e del nostro territorio
. L’impronta culturale presente nelle mie pubblicazioni di
per se è già un messaggio forte e può quindi essere un richiamo per le priorità
di domani, sfide personali che personalmente percorro ancora tutti i giorni per
dare una continuità culturale e un futuro alla nostra amata terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura eminente nel panorama culturale calabrese, Franco Emilio Carlino incarna da decenni un modello di impegno civile e pedagogico fondato sulla valorizzazione della memoria, della partecipazione e del sapere condiviso. Docente di lunga esperienza, animatore instancabile degli Organi Collegiali della scuola pubblica e protagonista di rilievo nei movimenti per l’orientamento scolastico e la formazione democratica, Carlino ha saputo intrecciare il rigore dell’analisi istituzionale con una sincera dedizione al territorio e alla sua storia. Presidente del Distretto Scolastico n. 26 di Rossano e componente del Consiglio Scolastico Provinciale di Cosenza, ha sempre concepito l’impegno educativo come responsabilità collettiva, promuovendo, attraverso studi, pubblicazioni e progetti concreti, una scuola capace di ascoltare, includere e trasformare. Studioso attento della storia locale e della genealogia nobiliare, accademico e uomo di associazionismo culturale (tra cui l’UCIIM e l’Università Popolare di Rossano), Carlino ha saputo costruire un ponte fra la riflessione storiografica e la testimonianza attiva, dando voce a una visione pedagogica fondata sulla consapevolezza identitaria e sul dialogo intergenerazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

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Uno Sguardo sull’Opera

La piccola danzatrice di Degas – Grazia e scandalo

 

La piccola danzatrice di Degas
Grazia e scandalo

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |07|Luglio|2025|

 

Tra le opere più affascinanti e controverse di Edgar Degas vi è senza dubbio La Petite Danseuse de Quatorze Ans, la scultura della giovane ballerina che, alla fine del XIX secolo, suscitò scalpore e meraviglia in egual misura. A differenza dei quadri più noti dell’artista, che ritraggono ballerine colte in gesti di danza e quotidiani, questa figura scolpita in cera sembra cristallizzare in eterno un momento di fragile attesa.

 

La modella si chiamava Marie van Goethem, aveva davvero quattordici anni ed era un’allieva dell’Opéra di Parigi. Proveniva da una famiglia povera, la madre era lavandaia, le sorelle anch’esse coinvolte nel mondo del teatro e dei servizi domestici. Come molte delle cosiddette petites rats de l’Opéra, Marie viveva in un ambiente difficile, in bilico tra disciplina artistica e insidie sociali. Era frequente che queste giovani ballerine attirassero l’attenzione di uomini ricchi in cerca di compagnia più che di arte.

 

 

 

Degas, con sguardo più analitico che sentimentale, decise di scolpire Marie non come un’icona idealizzata di grazia, ma come una ragazza reale, colta in un momento di concentrazione e rigidità. La scultura, alta circa un metro, fu realizzata in cera, un materiale allora inusuale per un’opera di tale rilievo. Ma fu l’uso di elementi veri, il tutù in tulle, le scarpette da ballo, il nastro nei capelli, a sconvolgere il pubblico del Salon del 1881. Alcuni critici parlarono con disprezzo di “una scimmia vestita da ballerina”, trovando il volto della giovane troppo marcato, quasi animalesco. Altri furono turbati dal realismo spietato con cui Degas ritraeva non solo il corpo, ma anche il destino incerto di queste ragazze.

 

Un dettaglio curioso è che Degas non vendette mai la scultura né la espose nuovamente. La tenne nel suo studio per decenni, come un frammento intimo del mondo che amava osservare con occhio lucido e implacabile. Solo dopo la sua morte venne deciso di fonderla in bronzo: oggi ne esistono 29 copie in musei prestigiosi di tutto il mondo, tra cui il Musée d’Orsay a Parigi, il Metropolitan Museum di New York e la National Gallery di Washington.

 

 

 

Oggi, La Petite Danseuse è considerata un’opera di straordinaria forza emotiva. Un concreto omaggio alla danza, ma anche un ritratto silenzioso della vulnerabilità e della dignità dell’adolescenza, colta nel suo momento più incerto e più vero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

La sezione Uno sguardo sull’opera del blog è dedicata ad approfondimenti monografici, pensati per restituire tempo e attenzione a una singola opera d’arte. Un invito a osservare con sguardo lento e consapevole, per riscoprire la ricchezza che si cela nei dettagli.

 

 

 

 

 

 

 

 

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ArteArtisti

Il lascito silenzioso di Arnaldo Pomodoro

 

 

 

Il lascito silenzioso di Arnaldo Pomodoro

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |24|Giugno|2025|

 

 

Il mondo dell’arte piange una delle voci più autorevoli e visionarie del Novecento. Ma le sue opere troneggiano nelle piazze, nei musei, continuando a parlare, a scuotere e ispirare le generazioni future.

 

Arnaldo Pomodoro è morto il 22 giugno 2025, nella sua casa di Milano, proprio alla vigilia del suo 99º compleanno.

Scultore di fama mondiale, amato per le sue “sfere ferite” in bronzo, levigate all’esterno da una perfezione formale che si aprono, all’interno, a una simbologia complessa e intensa

 

Nato il 23 giugno 1926 a Morciano di Romagna, egli conservava nella memoria della sua infanzia un’immagine quasi sospesa nel tempo che era quella di un bambino solitario e visionario, come lui stesso amava definirsi. Le giornate scorrevano lente sulle rive del fiume Conca, dove la natura gli offriva il suo primo materiale creativo: l’argilla.

 

Era lì, tra l’acqua e la terra, che le sue mani cominciarono a dar forma a un immaginario fuori dal comune. A differenza di ciò che altri bambini avrebbero costruito con quel materiale, semplici castelli o animali, dalle sue dita nascevano invece strutture sorprendenti e strane, che egli stesso chiamava “case kafkiane”; e già in quel nome si avvertiva un presentimento d’artista.

 

Queste prime forme, create con l’istinto e la libertà del gioco, raccontavano un mondo interiore ricco di fantasia e di visioni già allora lontane dal consueto. Era l’inizio di un viaggio che lo avrebbe portato, decenni dopo, a scolpire materia e simbolo nei più grandi spazi del mondo.

 

Arnaldo seguì le orme artistiche del fratello minore, Giò Pomodoro, anch’egli scultore. La loro dimensione familiare restò un legame costante, con due voci complementari nel panorama della scultura contemporanea italiana.

 

Nel 1995 Arnaldo Pomodoro realizzò per Fendi, a Milano, una straordinaria installazione sotterranea di 170 m²: un’opera immersiva, fatta di stanze scultoree, bassorilievi, porte rotanti e segni arcaici incisi nella materia, come se il tempo stesso vi avesse lasciato tracce da decifrare. Un vero e proprio viaggio simbolico nel cuore della scultura, dove spazio e pensiero si intrecciano in un racconto senza parole.

 

Emblema della sua poetica più intensa, questo spazio sospeso è tornato a vivere davanti al pubblico proprio a marzo 2025, pochi mesi prima della scomparsa del Maestro. Oggi, alla luce della sua perdita, quell’opera assume un valore ancora più intenso. Essa ci dà l’impressione di un testamento visivo, un dialogo aperto capace di restituirci la voce di un artista che ha saputo scolpire la materia inafferrabile del tempo.

 

La storia di “Sfera con Sfera” inizia nel 1966, quando Pomodoro fu incaricato di realizzare per l’Esposizione Universale di Montréal una maestosa sfera in bronzo del diametro di oltre 3,5 metri, frutto della sua tecnica di fusione a cera persa e già allora pensata per dialogare con lo spazio pubblico in modo dinamico.

 

Dietro l’apparente perfezione del guscio esterno si nasconde un nucleo complesso, quasi esploso, come spiegava lo stesso artista:

 

Una sfera è un oggetto meraviglioso, dal mondo della magia… riflette tutto ciò che la circonda, creando contrasti tali da trasformarsi, diventare invisibile, lasciando solo il suo interno, tormentato ed eroso, pieno di denti.” 

 

 

Negli anni successivi l’artista moltiplicò le versioni di questa opera in luoghi simbolici, fino al 1996, quando l’Italia ne donò una copia alle Nazioni Unite di New York. Un globo liscio che esplode dall’interno, presentato come “promessa per la rinascita di un mondo meno travagliato e distruttivo” 

Oggi, disseminata in cortili e piazze di tutto il mondo, la “Sfera con Sfera” è diventata un chiaro emblema della dialettica tra integrità e frattura, tra creazione e distruzione, riflesso delle tensioni del nostro tempo. Un’immagine potente che, in questi giorni segnati da guerre, crisi e incertezze, ci invita a una presa di coscienza sulle tensioni che turbano il nostro presente.

 

La Fondazione Arnaldo Pomodoro, istituita dal Maestro nel 1995, nasce come “luogo attivo e vivo di elaborazione culturale”, dedito a documentare, preservare e promuovere l’arte contemporanea in continuo dialogo con la sua eredità. Le sue imponenti sfere punteggiano piazze come il Cortile della Pigna nei Musei Vaticani, il cortile ONU a New York, la Farnesina a Roma, il Trinity College di Dublino, il campus di Stanford, il De Young di San Francisco e molte altre città, rendendo tangibile il suo sguardo universale.

 

Oggi, ovunque si ergano le sue sfere, che siano intatte o segnate da crepe, esse ci accompagnano come testimoni silenziosi di un’eredità che invita a guardare con una necessaria speranza oltre la forma e a cogliere la bellezza nata dall’incontro tra materia e spirito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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LetteraturaSegnalazione Eventi

Versi che illuminano il tempo – A Maurizio Martena e Jeton Kelmendi il Premio Internazionale Roberto Farina 2025

 

Versi che illuminano il tempo

 

A Maurizio Martena e Jeton Kelmendi il Premio Internazionale Roberto Farina 2025

 

 

 

 

 

 

 

Il primo giugno, presso l’Auditorium della Fornace di Trebisacce, in provincia di Cosenza, si è tenuta la ventesima edizione del Premio Internazionale di Poesia “Roberto Farina”, alla presenza di un pubblico numeroso e partecipe.

A trionfare in questa edizione è stato il poeta Maurizio Martena, con il libro Versi di vita.

 

Il Premio alla Carriera è stato invece conferito al poeta e scrittore kosovaro Jeton Kelmendi, in riconoscimento della sua ricca e articolata attività letteraria.

 

 

Nella sala l’emozione è stata visibile; si respirava un’atmosfera di quelle che  accadono quando ci si aspetta che possano verificarsi degli eventi straordinari che, in questo caso, è stato l’aver posto l’accento sulla svolta che poesia, in tutto il mondo, ha finalmente scaricato le avanguardie tutte tese al linguaggio e non al contenuto e alla bellezza dei versi, per ritornare a una poesia possente di immagini, di liricità, di visionarietà e di verità inseguite sul filo di una immersione nelle grandi verità della vita.

La lettura dei versi ha confermato al svolta e ha sancito una vittoria piena, perché il sentimento non può, né deve mancare mai   quando un poeta rincorre il senso e lo ridona con la forza del suo sentire.

 



 

Il Presidente della Giuria, Dante Maffia, nella introduzione ha focalizzato con eleganza le varie problematiche attuali sul mondo della poesia e ci sono state letture dei versi, sia di Martena e sia di Kelmendi, in italiano, albanese e rumeno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maurizio Martena è nato a Roma il 13 maggio 1965. Vive tra Roma, Latina e la Calabria.

E’ uno degli imprenditori più attivi nel settore agroalimentare; professionista instancabile a livello internazionale, ricco di continue iniziative importanti che non dimenticano mai che è l’umanità che conta e non solo il profitto e che la vita è fatta anche di anima e di sogni.

Un uomo dai grandi ideali che respira l’aria di una fede pura e sincera e fa di lui un uomo del futuro.

Ama naturalmente la poesia e, nel tempo libero, si dedica alla scrittura di versi nei quali raccoglie e sintetizza emozioni e pensieri con una lucidità espressiva di grande rilievo e con calore che conferisce grande potere evocativo, frutto di echi che nascono da lontano, dalla lezione dei classici.

Alcune sue composizioni sono state tradotte in giapponese e rumeno e albanese.

Questo volume sta per uscire anche in lingua inglese.

 

 



  

 

 

Jeton Kelmendi,  nato nel 1978 a Peja, in Kosovo.

Precursore ed esponente rappresentativo della poesia albanese moderna, è scrittore, saggista e giornalista per vari giornali albanesi ed esteri.

Laureatosi all’Università di Bruxelles, ha conseguito master e Dottorato in diplomazia e politica internazionale.

È professore alla AAB University e membro attivo dell’Accademia Europea di Scienze, e Arti di Salisburgo. Le sue raccolte approfondiscono la lirica dell’amore, del conflitto nel quale ha combattuto durante la guerra in Kosovo e la realtà dei nostri tempi; le sue poesie sono state tradotte in trenta lingue.

Jeton Kelmendi ha pubblicato 4 libri in italiano:

“Quando dormono i risvegli”,  Dicembre 2023

“Nella casa dell’anima”,  Settembre 2021

“L’età mitica”, I Quaderni del Bardo Edizioni,  2019

“Tra realtà e sogno”, Quorum edizioni, 2019

Alla bellezza della sua poesia che sa coniugare cultura e umanità, sentimento e saggezza con ammirevole abilità linguistica toccando tematiche diverse ma sempre

dense di umori palpitanti, di scatti lirici colti a volo e addomesticati a una forma di racconto di cui in Italia il maggiore e sponente è stato Cesare Pavese. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Naturalmente dentro una realtà nuova e diversa e fortemente radicata in ragioni etiche ed estetiche di respiro universale comunque partendo dalle radici della sua terra.

I versi di Kelmendi sono il frutto di esperienze e di visioni che s’intrecciano in un amalgama perfetto per raggiungere un dettato poetico di rara freschezza e di raffinatezza e lasciano nel lettore un’eco vasta e solenne, uno strascico di vita che palpita nella parola e porta nella divinità del sogno.

 

Per questi motivi, la Giuria del Premio Roberto Farina, composta da Dante Maffia, Presidente, e da Anila Dahriu, Simona Stancu, Franco Maurella e Marco Onofrio, all’unanimità assegna a Jeton Kelmendi il Premio Roberto Farina alla carriera con l’augurio che il poeta raggiunga sempre maggiori approdi e importanti riconoscimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nostra sezione Segnalazione Eventi propone notizie e aggiornamenti su mostre, iniziative culturali, appuntamenti artistici e progetti creativi.

 

Siamo lieti di valutare segnalazioni da parte di enti, artisti, curatori e operatori del settore.
È possibile inviare comunicati stampa o proposte all’indirizzo: gigroart23@gmail.com.
Tutti i contenuti vengono selezionati a discrezione della redazione, in base alla coerenza con la linea editoriale del blog.

 

 

 

 

 

 

 

 

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IntervisteSegnalazione Eventi

Il viaggio dell’arte italiana nei territori spagnoli – Un progetto curatoriale itinerante di Alessandro Giansanti

Il viaggio dell’arte italiana nei territori spagnoli

 

Un progetto curatoriale itinerante di Alessandro Giansanti

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |03|Giugno|2025|

 
 

Partecipare a una mostra itinerante in territorio spagnolo, articolata in sedi museali o galleristiche di comprovato rilievo, rappresenta per l’artista un autentico momento di confronto e ridefinizione del proprio percorso creativo e non solo un’occasione espositiva. L’opera d’arte, inserita in un contesto in continuo movimento, assume ulteriori livelli di lettura, dialogando con ambienti, pubblici e culture differenti, in un processo di progressiva risonanza.

La formula itinerante promossa dall’associazione Agarte, sotto la direzione del giovane curatore e gallerista Alessandro Giansanti, consente al nucleo di artisti da lui selezionato di oltrepassare i confini, spesso limitanti, della mostra singola e statica. A rendere ancor più significativo questo modello espositivo è la sua vocazione internazionale, le tappe si svolgono infatti all’estero, in territorio spagnolo, offrendo agli artisti un’opportunità concreta di confronto con nuovi pubblici, diversi codici culturali e contesti critici.

Le tappe, ospitate in sedi accuratamente selezionate attraverso un’attenta rete di collaborazioni e interlocuzioni mirate, si inseriscono in contesti che custodiscono ciascuno una propria storia, un’identità culturale definita e un tessuto critico stratificato. È proprio questa specificità, distinta ma coerente, a conferire all’intero format espositivo una cornice di autorevolezza, capace di nobilitare il progetto senza irrigidirne la vocazione sperimentale.

Particolarmente rilevante, in tale dinamica, è il ruolo dei curatori che, di tappa in tappa, vengono coinvolti nel progetto. Alessandro Giansanti predilige la collaborazione con curatori della sua stessa generazione, privilegiando un dialogo fondato su affinità e visioni condivise. In questo contesto, lo scambio di idee si fa più fluido e generativo, alimentando un confronto autentico che favorisce l’emergere di prospettive inedite e modalità curatoriali capaci di leggere il presente con lucidità e apertura.

In questo senso, il valore dell’iniziativa non si esaurisce nella visibilità offerta, né nella possibilità di inserimento in circuiti professionali internazionali. Ciò che conta davvero è la possibilità, rara e preziosa, di inserirsi in un processo curatoriale articolato, animato da intenti autentici di ricerca e mediazione culturale.

A suggellare questo percorso in continua evoluzione, sta per aprirsi Andar Visivo, nuova tappa del progetto itinerante promosso da Agarte – Fucina delle Arti. Ospitata presso la Aleksandra Istorik Gallery, la mostra collettiva dà forma a un inedito dialogo tra artisti italiani e pubblico spagnolo, intrecciando visioni, sensibilità e linguaggi differenti. Attraverso una selezione di opere pittoriche e scultoree, la rassegna prosegue il dialogo tra culture, linguaggi e sensibilità diverse, riaffermando l’impegno curatoriale verso una progettualità dinamica, condivisa e aperta alle molteplici declinazioni dell’arte contemporanea.

 

 

“Arte Y Palabra” – Mostra Collettiva a cura di Divulgarti in collaborazione con Agarte Fucina delle Arti  di Alessandro Giansanti presso il Museo del mar Santa Pola

 

In questa prospettiva, risulta naturale voler approfondire la visione e le intenzioni che animano questo format itinerante. 

Abbiamo dunque rivolto alcune domande ad Alessandro Giansanti, ideatore e curatore del progetto.

 

 

 

 

 

Quali sono stati i criteri principali nella selezione degli artisti e delle sedi per questo ciclo di mostre itineranti? In che modo queste scelte rispecchiano la tua visione curatoriale?

I creativi coinvolti fanno parte del network della nostra associazione culturale e del contesto della nostra galleria d’arte. Siamo partiti dal desiderio di raccontare l’evoluzione artistica della nostra realtà in questi cinque anni, insieme a quella degli artisti che gravitano intorno ad essa, offrendo una sintesi di alcune delle correnti contemporanee della pittura italiana.

La selezione si basa su criteri qualitativi: è richiesta quantomeno padronanza tecnica e consapevolezza dei mezzi espressivi impiegati. Abbiamo scelto un artista per stile/genere, componendo così una rosa eterogenea ma coerente che rispecchiasse i nostri gusti non solo estetici, ma anche curatoriali.

Per quanto riguarda gli itinerari, l’obiettivo è stato sin dall’inizio quello di espandersi gradualmente nell’hinterland spagnolo, puntando ai poli emergenti dell’arte contemporanea che stanno attirando l’interesse del mercato internazionale. I luoghi scelti — musei e gallerie — sono relativamente vicini tra loro e accomunati da una particolare attenzione verso gli artisti emergenti.. Si tratta di realtà giovani come la nostra, che negli anni diventeranno punti di riferimento culturali nel territorio.

In questo contesto, abbiamo adottato un approccio fluido, capace di integrare la mia visione con quella dei direttori e le direttrici degli spazi artistici selezionati, dimostrando che la sinergia internazionale diventa sempre più realtà di tutti i giorni nel contemporaneo.

 

“Las Musas Encantadoras” Mostra Internazionale di Arte Contemporanea a cura di Divulgarti con la collaborazione di Agarte Fucina delle Arti di Alessandro Giansanti presso il Museo del Mar Santa Pola, ALICANTE

 

Questa avventura è partita dal Museo del Mar Santa Pola, per poi approdare alla Vearte Galerie, situata nel centro di Alicante. Guardando a queste prime due tappe, così diverse per identità e atmosfera, cosa ti ha colpito maggiormente nel modo in cui le opere sono entrate in relazione con gli spazi e con il pubblico? Ci sono state reazioni o situazioni che ti hanno sorpreso o fatto riflettere?

La nostra prima esperienza sul suolo spagnolo è stata proprio con il Museo del Mar di Santa Pola, in occasione della mostra di luglio 2024 Le muse incantatrici – Las Musas encantadoras, organizzata con Divulgarti Group di Loredana Trestin, in collaborazione con il museo stesso grazie all’attenta mediazione di Valeriano Venneri e della direttrice Maria José Cerdà Bertoméu.

Da lì abbiamo proseguito, trasferendo parte della selezione ad Alicante, presso la Galería Vearte, spazio diretto da Laura León oramai nostra amica, con la mostra Doppia Conexión organizzata a novembre 2024. Entrambi gli spazi, fortemente caratterizzati, sono stati trasformati dalla selezione proposta: un’esperienza che si è poi arricchita con l’aggiunta di nuove opere esposte in una seconda rassegna, sempre al museo e sempre nel mese di novembre, dal titolo Arte y palabra – Parole e Arte.

Quest’anno il percorso proseguirà con nuove tappe e nuove evoluzioni prima a giugno presso Istorik Gallery di Aleksandra Istorikpoi a luglio nuovamente al Museo del Mar e sarà interessante poiché il dialogo è ancora tutto in costruzione ed in divenire!

 

 

Laura Leon, titolare della Galleria Vearte, Alicante durante la mostra “Doppia Conexìon”
 
 
In questi giorni prende il via la terza tappa del progetto, con la mostra Andar Visivo ospitata presso la Aleksandra Istorik Gallery, realizzata in collaborazione con la stessa Aleksandra Istorik.

 

Quali elementi nuovi introduce questa tappa rispetto alle precedenti, sia sul piano curatoriale che su quello espositivo? E cosa ti ha spinto a scegliere proprio questa galleria e questa collaborazione per proseguire il percorso?

 

La galleria della giovanissima Aleksandra Istorik, nel centro di Valencia, rappresenta la terza location e la quarta tappa del percorso. Mentalmente sto costruendo una mappa con tutti i passaggi di questa esperienza, e “Andar visivo” segna per noi un punto di svolta sul piano organizzativo.

Per questa rassegna abbiamo scelto di mantenere una lettura fluida e aperta della selezione, come già avvenuto con Doppia Conexión, ma dando concretezza a quella che possiamo definire una “crescita in divenire” del tour.

Come giovane under 35, collaborare con coetanei e coetanee del settore è un piacere: siamo pochi, e con Istorik c’è stata da subito sintonia. Anche lei condivide un approccio giovane e dinamico.

Questa tappa ha un valore aggiunto rispetto alle precedenti: introduce un approccio curatoriale diverso dal nostro. Se nelle altre rassegne siamo stati ospiti, qui siamo veri collaboratori. Mi piacerebbe, con questo spirito rinnovato, tornare anche nelle tappe precedenti per sviluppare un dialogo più diretto con le visioni artistiche dei direttori e delle direttrici degli spazi che ci hanno accolti.

 

 

Aleksandra Istorik ospita la mostra “Andar Visivo”, realizzata in collaborazione con Alessandro Giansanti di Agarte – Fucina delle Arti, all’interno della sua galleria nel cuore di Valencia,

 

Come descriveresti il rapporto che si crea tra artista, spazio espositivo e pubblico in un progetto itinerante rispetto a una mostra tradizionale?

Normalmente mi sarebbe facile descrivere il rapporto che si crea tra spettatore e artista, ma questa situazione è del tutto nuova: non ho paura di dire che si tratta di un esperimento. Non mi sto certo presentando impreparato — porto con me l’esperienza di circa cinque anni di rassegne culturali, con quasi sessanta eventi curati e gestiti direttamente da me e dalla mia famiglia!

Tuttavia, in questo caso, tutto è in divenire. Da qui nasce “Andar visivo”, titolo scelto insieme alla Istorik proprio per questa esposizione: l’idea è quella di piantare una bandiera, fissare un orizzonte, definire un checkpoint. Da questo punto sarà possibile comprendere il vero frutto del lavoro degli ultimi due anni.

Detto ciò, non saprei ancora come definire il rapporto tra pubblico e artista, proprio perché stiamo abbandonando la nostra zona di comfort e percorrendo strade nuove, incontrando un pubblico finora sconosciuto.

Ben venga! L’arte non può — e non deve — rimanere ferma troppo a lungo, è composta da incontri e scontri, come di frizione e movimento.

 

 

 

 

 

Alessandro Giansanti e Laura León durante l’evento “Doppia Conexión” presso la Galería Vearte di Alicante.

 

In che modo l’esperienza di esporre all’estero, in particolare in Spagna, ha influenzato il rapporto tra le opere e il contesto culturale locale? Hai notato cambiamenti nella percezione del pubblico o nell’interpretazione delle opere rispetto a mostre in Italia?

In realtà, spesso mi rendo conto d’essere così preso dai progetti futuri da non riuscire davvero a percepire cosa pensino di me le persone nel presente. Sono completamente proiettato nella continuità di questo percorso e nella sua possibile espansione verso nuovi territori, sempre in ambito europeo, per poi — come già accaduto in passato — uscire dal continente.

Senza dubbio, la percezione che i collaboratori hanno della struttura con il quale collaborano cambia: sapere di avere a che fare con un operatore culturale capace non solo di agire efficacemente – spero – in Italia, ma anche di tradurre quel lavoro all’estero, trasmette l’idea che ci sia qualcosa di più.

 

Quasi una missione.

 

 

Valeriano Vennari, Storico e Critico dell’Arte e Paola Cetroni, artista

 

Guardando al futuro, quali sviluppi o nuove direzioni immagini per il format itinerante di Agarte? Ci sono idee o progetti che vorresti realizzare nei prossimi anni?

Arrivati a questo punto, non posso proprio rispondere, c’è una grossa sorpresa al quale stiamo lavorando, ma essa richiede tempo, dedizione e precisione nei movimenti… i più avranno intuito qualcosa nel modo in cui Agarte si sta muovendo ultimamente. Figure che hanno partecipato a questo percorso in Spagna torneranno nuovamente con un ruolo fondamentale per ciò che sto cercando di creare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

La sezione Interviste del nostro blog ospita periodicamente artisti, galleristi, critici d’arte e autorevoli operatori culturali, selezionati per la loro capacità di offrire contributi significativi alla valorizzazione e diffusione di temi rilevanti nel panorama artistico contemporaneo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LetteraturaSegnalazione Eventi

Tra sogni, ricordi e cielo spicca il volo il nuovo romanzo di Umberto Romano – Gli Aeroplani di carta

 

 

Tra sogni, ricordi e cielo spicca il volo il nuovo romanzo di Umberto Romano 

Gli Aeroplani di carta

 

 

 

 

 

In Aeroplani di carta, Umberto Romano ci conduce in un viaggio poetico e struggente attraverso la memoria, l’infanzia, la guerra e la speranza. 

Autore sensibile e pittore attento alle dinamiche sociali, Umberto Romano propone un romanzo che intreccia memoria e poesia, con uno sguardo rivolto alle vite silenziose e ai volti spesso dimenticati: gli emarginati, i popoli più fragili, l’infanzia segnata dall’attesa, la guerra e le sue assenze. 

La narrazione si sviluppa con tono misurato e una scrittura essenziale, dove l’evocazione lirica accompagna la riflessione, senza mai cedere all’enfasi, mantenendo viva una luce di speranza che attraversa le pagine.

Il libro è un canto lirico che si libra nel cielo come gli aeroplani di carta evocati nel titolo, simboli di innocenza, desiderio e attesa. Tra un immaginato e riflessioni intime, il racconto di Umberto parla al cuore con parole semplici e universali, aprendo squarci di luce anche nei momenti più oscuri.

Il tempo, la memoria e la nostalgia sono i fili conduttori di questa sua nuova pubblicazione, in cui il dolore si fa poesia e la bellezza resiste come un gesto di coraggio. L’autore ci invita a fermarci, ad ascoltare il fiume della vita che scorre, a volte placido, a volte impetuoso, e a riconoscere nei suoi riflessi le nostre emozioni più profonde.

Con Aeroplani di carta, Umberto Romano consegna al lettore un’opera che lambisce i confini del romanzo poetico, configurandosi come un atto di testimonianza civile e umana. Un racconto intessuto di memoria e delicatezza, che invita a una lettura meditata, quasi raccolta, in cui ogni parola si fa eco di un sentire profondo. È la voce sommessa di chi osserva il mondo da una soglia appartata, ma sa restituirne con finezza l’essenza più autentica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Più il tempo passa, più mi accorgo che siamo un mondo a parte, se ci rubano i ricordi, la nostalgia diffusa c’invade e ci porta via.
Gli aeroplani di carta, planavano, spinti dal vento, fogli di quaderno piegati ad angolo, portavano, un messaggio, un bambino aspetta, il papà partito per la guerra. Nei suoi occhi luce di speranza, sulle ali di carta, “torna presto”.
C’è Storia, memoria, innocenza dell’infanzia con anelito di amore e di speranza. Poi subentrano le riflessioni e le ansie sulla vita, inesorabile fiume che scorre verso la sua foce nel mare senza confini che si congiunge al cielo fino all’incrocio delle stelle.
Aeroplani di carta rombi di tuono, squarciano il cielo, con una scia nera. Gli anni passano, la nebbia avvolse il tempo, seguivi lo scorrere dell’acqua, il ruscello dietro casa, inciampava sulle grigie pietre sporgenti, colorate di rosso, il sangue degli innocenti.
Mi accompagna, nei momenti di solitudine dell’anima, un fiume in piena, trascina rami secchi, e bottiglie di vetro, con messaggi d’amore, non sempre raccolte.
C’è sempre luce, se solo siamo abbastanza coraggiosi di vederla, di viverla.
 
Umberto Romano

 

 

 

 

 

 

 

Clicca sulla copertina per richiedere il libro

 

  • Data di pubblicazione ‏ : ‎ Marzo 2025
  • ISBN : ‎ 979-8313225791

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Libri da leggere” è l’area del blog in cui vengono raccolti i contenuti dedicati alla promozione della lettura: segnalazioni, recensioni e proposte editoriali. Se sei un autore o un editore e desideri promuovere il tuo libro, puoi contattarci all’indirizzo email della redazione: gigroart23@gmail.com

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

FaRg² – Arte come Alleanza, Espressione e Rinascita

 

 

FaRg² 

 

Arte come Alleanza, Espressione e Rinascita

 

 

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |16|Maggio|2025|

 

 

Nato dall’unione di due visioni artistiche forti e indipendenti, FaRg² è il duo composto da Francesca Bice Ghidini e Alessandro Rinaldoni, che ha dato vita a un linguaggio pittorico originale, profondo e umano. In un costante dialogo tra tecnica e istinto, materia e spirito, i due artisti costruiscono opere in cui l’astratto incontra il figurativo, in un’armonia fluida che forma a tematiche esistenziali, sociali e identitarie.

Le loro creazioni, nate da un processo a quattro mani che fonde la fluid art con l’intervento figurativo, esplorano la fragilità e la resilienza dell’essere umano, portando in superficie emozioni complesse e spesso taciute. Le opere di FaRg² non sono solo visioni estetiche, ma atti di resistenza, speranza e rinnovamento: per Alessandro, che ha trovato nell’arte una potente risposta alla propria disabilità, e per Francesca, che fa della pittura uno strumento per coltivare empatia e bellezza.

Fortemente impegnato anche sul piano etico, FaRg² intreccia la propria ricerca creativa con un percorso di solidarietà concreta, promuovendo progetti a favore dell’inclusione sociale e collaborando con realtà come l’Ordine dei Cavalieri di San Lazzaro. Le loro opere diventano così ponti di connessione tra individuo e collettività, tra arte e vita, dimostrando come la bellezza possa essere veicolo di cambiamento.

Attraverso un uso intenso e simbolico del colore, una profonda intesa reciproca e una visione del mondo condivisa, FaRg² propone una pittura che emoziona e invita a riflettere, offrendo allo spettatore non solo immagini, ma anche una possibilità di rispecchiamento e di ascolto. Il loro progetto si evolve continuamente, aprendosi a nuovi formati, oggetti di design, produzioni ibride e messaggi visivi che superano i confini tradizionali dell’arte per farsi esperienza viva e partecipata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A seguire, una conversazione a più voci che approfondisce visioni,
percorsi e riflessioni condivise con Francesca Bice Ghidini e Alessandro Rinaldoni,
le due anime del duo FaRg²

 

 

 

 

 

 

Potete raccontarci com’è nato il vostro percorso artistico
comune? C’è stato un momento preciso in cui avete capito che unire le vostre
esperienze sarebbe stato qualcosa di più di una semplice collaborazione?

 

Alessandro: ‘’Francesca stava per pubblicare il suo terzo
libro di poesie, con mia sorpresa mi ha chiesto di collaborare per realizzare
la copertina, così è nato “La Ricerca dell’ Infinito“, il primo quadro del duo
FaRg², ci è subito stato chiaro che da quel momento per noi si presentava un
nuovo percorso artistico ricco di possibilità.‘’

 

 

 

 

Il vostro progetto nasce dall’incontro di due esperienze
artistiche forti e distinte. In che modo la vostra collaborazione ha
influenzato, o trasformato, il modo in cui ciascuno di voi affronta il
processo creativo?

 

Francesca: ‘’ Nessuna trasformazione, in quando entrambi
stiamo continuando a dipingere anche singolarmente. Diciamo più un
arricchimento, perché collaborare insieme alla realizzazione di un’opera ci
risulta particolarmente naturale. Alessandro prepara con la fluid paint gli
sfondi in libertà cromatica. Io appena li vedo, colgo elementi che mi ricordano
figure, che faccio ‘uscire’ alle curvature del colore, in modo molto naturale.
Tutta la composizione viene infine terminata con particolari da entrambi’’

 

Alessandro: ‘’Condividere e mettere a confronto i nostri
punti di vista e le nostre tecniche artistiche ha ampliato e potenziato la
creatività di entrambi, confrontarsi ci stimola e ci spinge a continuare e
ricercare soluzioni sempre nuove.”

 

 

 

 

Le vostre opere affrontano tematiche profonde come
l’identità, la fragilità umana e il mondo femminile, attraverso una ricca gamma
cromatica e materica. Come scegliete i soggetti e quali messaggi sperate
arrivino a chi osserva?

 

Francesca: ‘’Noi abbiamo una visione del mondo affine.
Questo facilita il nostro lavoro di artista perché vogliamo emozionare e
sensibilizzare lo spettatore su tematiche comuni. Inoltre aggiungiamo quel
pizzico di spensieratezza e speranza per fare in modo che le nostre opere siano
di conforto.”

 

 

 

Alessandro, hai trovato nella pittura una forma di rivalsa
personale e fisica dopo una prova importante. Francesca, per te l’arte è
strumento di speranza e positività. In che modo questi approcci individuali si
fondono nella vostra produzione comune?

 

 

 

Alessandro:’’ L’arte è diventata la mia risposta, la mia
sfida silenziosa ma potente contro la malattia invalidante che ha colpito il
mio corpo. Quando il fisico ha iniziato a impormi dei limiti, ho scelto di non
arrendermi. Ho deciso di esplorare ciò che restava libero: la mente,
l’immaginazione, la creatività.

Studiare, approfondire, sperimentare: ogni gesto artistico è
diventato un atto di resistenza, un modo per affermare che, nonostante tutto,
posso ancora creare bellezza, posso ancora comunicare, posso ancora lasciare un
segno.

L’arte mi ha dato una nuova identità, non definita dalla
malattia ma dalla mia capacità di trasformare il dolore in espressione, la
fatica in colore, la fragilità in forza. È così che ho trovato la mia strada:
nonostante le difficoltà, o forse proprio grazie ad esse, ho scoperto un
linguaggio che parla per me, che racconta la mia storia e che, spero, possa
ispirare anche altri.”

 

 

Francesca: ‘’L’Arte come Rinnovamento, Emozione e Speranza”

Per me, l’arte è un atto di rinnovamento continuo. È
emozione pura, è fiducia nel presente e speranza nel futuro. Ogni mia opera
nasce dall’istinto e si nutre di empatia: non progetto, sento. Lascio che siano
le emozioni a guidare la mano, che siano i colori a raccontare ciò che le
parole non riescono a dire.

Credo profondamente che l’arte possa aiutare il mondo. Chi
pensa come un artista coltiva la speranza, abbraccia l’innovazione e guarda al
futuro con stupore. È questo sguardo incantato, quasi infantile, che cerco di
restituire attraverso le mie figure fantasiose: creature nate
dall’immaginazione, simboli di un mondo possibile, più gentile e luminoso.

Il mio obiettivo è semplice ma potente: guardare il mondo
con gli occhi di un bambino felice. In questo sguardo c’è la chiave per
cambiare le cose, per costruire ponti, per ispirare.

Anche la beneficenza è parte integrante del nostro percorso
artistico. Con il duo FARG2, ci impegniamo concretamente a promuovere e
sostenere cause solidali, collaborando con la ONLUS dell’Ordine dei Cavalieri
di San Lazzaro. Perché l’arte, quando è autentica, non può che essere anche un
atto d’amore verso gli altri.

 

 

 

FaRg² non è solo arte visiva, ma anche impegno sociale e
umano. In che misura credete che l’arte debba farsi carico di una
responsabilità verso la collettività? E quali sono i prossimi passi del vostro
percorso in questa direzione?

 

Francesca: “FaRg² nasce da un profondo desiderio di
contribuire attivamente a un progetto di solidarietà e beneficenza, mettendo
l’arte al centro come strumento di connessione, ispirazione e cambiamento.
L’arte, infatti, ha il potere unico di parlare direttamente al cuore delle
persone, superando barriere linguistiche e culturali, e diventando un veicolo
potente per trasmettere messaggi di empatia, speranza e impegno sociale.
Attraverso le sue creazioni, FaRg² intende non solo sostenere cause meritevoli,
ma anche sensibilizzare il pubblico, stimolare riflessioni e promuovere una
cultura della condivisione e dell’altruismo.”…

 

 

 

Come descrivereste il vostro stile congiunto e in che modo è
cambiato o si è evoluto da quando avete iniziato a lavorare insieme come FaRg²?

 

Il nostro è uno stile che guarda in particolar modo alla
resa estetica e decorativa, offrendo spunti per messaggi semplici diretti e
chiari. Da quando è iniziata la nostra collaborazione stiamo sperimentando
tecniche e visioni inserendo nel nostro mondo creativo oltre alle opere su tela
composizioni che variano da prodotti brandizzati con le immagini da noi create
(come abiti, accessori, monili)

 

 

 

Come si sviluppa il vostro processo creativo a quattro mani?
Ci sono tecniche, fasi o rituali che seguite per armonizzare le vostre idee e
trasformarle in un’unica opera?

 

Francesca:’’ Nelle prime fasi Alessandro crea con la tecnica
della fluid art lo sfondo che impiega 3 o 4 giorni per asciugarsi, fatto questo
la tela passa a me per completare e ridefinire l’opera con soggetti
sentiti;  va detto che durante le fasi
creative nessuno dei due interferisce nel lavoro dell’altro.

 

 

 

 

Lavorare insieme implica un confronto costante. Trovate
ispirazione solo nella vostra sinergia o cercate anche stimoli da ambienti
collettivi come eventi, workshop o progetti condivisi con altri artisti?

 

È tutto molto spontaneo, nulla di forzato o complicato, ogni
evento rappresenta uno stimolo non si può mai dire da dove arrivi
l’ispirazione.

 

 

Che tipo di rapporto cercate di instaurare con il pubblico?
Le reazioni delle persone influenzano in qualche modo il vostro lavoro o i
vostri messaggi?

 

Noi FaRg² cerchiamo sempre di trasmettere al pubblico che
osserva le nostre opere l nostro messaggio per il sociale perché più persone
prendono la decisione di contribuire maggiore e il bene che si può fare. Cerchiamo
di instaurare con il pubblico un rapporto autentico, basato sull’ascolto, sul
dialogo e sulla condivisione. Non vogliamo limitarci a trasmettere un messaggio
unidirezionale, ma puntiamo a creare uno scambio, un’interazione viva che
arricchisca entrambe le parti. Il nostro obiettivo è far sentire le persone
coinvolte, comprese e, quando possibile, ispirate.

Le reazioni del pubblico sono fondamentali: ci aiutano a
capire se stiamo comunicando in modo efficace, se i nostri contenuti risuonano
con chi ci segue, e ci offrono spunti preziosi per evolverci. Non si tratta di
rincorrere il consenso, ma di rimanere in ascolto, pronti a ricalibrare il
nostro approccio quando necessario, mantenendo però saldi i nostri valori e la
nostra visione.

 

 

 

 

Qual è, secondo voi, il ruolo dell’arte nella società
contemporanea e in che modo sentite che il vostro progetto artistico possa
contribuire a questo dialogo sociale e culturale?

 

Francesca:’’ Il ruolo dell’arte nella società contemporanea
è, a mio avviso, quello di essere uno spazio di riflessione, di critica e di
connessione. In un mondo sempre più frammentato e veloce, l’arte ha la capacità
unica di rallentare il tempo, di porre domande invece di offrire risposte
immediate, e di creare ponti tra persone, culture e visioni del mondo
differenti. È un linguaggio universale che può parlare anche quando le parole
falliscono, e che può accendere consapevolezze, emozioni e dialoghi profondi.

Il mio progetto artistico si inserisce in questo contesto
come un tentativo di esplorare le tensioni tra identità individuale e
collettiva, tra memoria e presente, tra intimo e politico.”

 

 

Alessandro:
’Attraverso la nostra ricerca artistica, cerchiamo di dare forma visiva a
domande che riguardano tutti noi: chi siamo? Cosa ci unisce? Come possiamo
ascoltarci davvero?

Credo che l’arte non debba solo essere osservata, ma vissuta
e condivisa. Per questo motivo, il mio lavoro mira a coinvolgere il pubblico in
modo attivo, stimolando una partecipazione emotiva e intellettuale che possa
generare nuove prospettive. In questo senso, il mio contributo al dialogo
sociale e culturale è quello di offrire uno spazio aperto, inclusivo e
sensibile, dove le differenze non siano barriere ma occasioni di arricchimento
reciproco.’’

 

 

 

 

Quali difficoltà avete incontrato lungo il vostro cammino
come duo artistico, e come siete riusciti a superarle insieme?

 

Una delle sfide più grandi che abbiamo affrontato come duo
artistico è stata farci riconoscere come duo. Alcuni sostenevano che lavorare
insieme fosse inappropriato;  ci siamo
scontrati con dinamiche poco trasparenti: organizzatori di mostre poco
professionali, promesse non mantenute da presunti manager dell’arte, e
situazioni in cui il nostro lavoro veniva sottovalutato o sfruttato.

Queste esperienze ci hanno messo alla prova, ma ci hanno
anche reso più consapevoli e determinati. Abbiamo imparato a selezionare con
più attenzione le collaborazioni, a proteggerci e a credere ancora di più nella
nostra visione. Il sostegno reciproco è stato fondamentale: nei momenti di
delusione, ci siamo ricordati a vicenda perché abbiamo iniziato questo percorso
e quanto valore ha ciò che creiamo insieme.

Oggi possiamo dire che ogni ostacolo ci ha resi più forti,
più uniti e più autentici nel nostro modo di fare arte.”

 

 

Recentemente avete partecipato a Everland Art Percorsi di
Ricerca, il premio internazionale dell’associazione culturale Athenae Artis.
Com’è stata questa esperienza per voi? Cosa vi ha lasciato, sia a livello
personale che artistico? 

Partecipare a Everland Art – Percorsi di Ricerca, il
premio internazionale promosso dall’associazione culturale Athenae Artis, è
stata un’esperienza profondamente arricchente, sia dal punto di vista umano che
artistico.

 

A livello personale, ci ha dato l’opportunità di
confrontarci con artisti provenienti da contesti e percorsi molto diversi dal
mio, creando un dialogo autentico e stimolante. L’atmosfera di condivisione e
apertura che si è respirata durante l’evento ha rafforzato in me la convinzione
che l’arte sia uno strumento potente per costruire ponti tra le persone e le
culture.

 

Dal punto di vista artistico, è stata un’occasione preziosa
per mettere alla prova la nostra ricerca, ricevere feedback qualificati e
riflettere sul mio percorso creativo. Il confronto con le opere degli altri
partecipanti ci ha spinto a interrogarci su ciò che voglio comunicare e su come
possiamo evolvere ulteriormente.

 

In sintesi, Everland Art ci ha lasciato un senso di
gratitudine e una rinnovata motivazione a proseguire nella nostra ricerca, con
maggiore consapevolezza e apertura. Tutto questo grazie a Maria di Stasio, il
critico d’arte Mariangela Bognolo e alla Galleria il Leone che ci ha ospitati
facendoci sentire a casa.

 

 

 

 

Guardando al futuro, quali progetti avete in cantiere? 

Abbiamo molte idee nuove, che riguardano realizzazioni di oggetti di design,
prodotti brandizzati ed esposizioni. Stiamo lavorando sul nostro Messaggio, che
lega l’arte e la creatività al sociale e siamo membri della Onlus dell’ordine
Militare ed Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme.

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

 

Francesca Ghidini
Email fre3581@gmail.com
Phone 342 986 70 71
   

 

 

Alessandro Rinaldoni

Email alraynos@gmail.com
Phone 371 319 27 96

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Il Cuore del MUPA – Conversazione con il Direttore Piero Giannuzzi

 

Il Cuore del MUPA

 

Conversazione con il Direttore 

Piero Giannuzzi

 

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia  |13|Maggio|2025|

 

 

Ho conosciuto Piero Giannuzzi, direttore del MUPA, in occasione della mostra Percorsi, un progetto espositivo tenutosi presso il suo museo, al quale ho avuto il piacere di partecipare e collaborare attraverso il mio blog L’ArteCheMiPiace.

Da subito, mi ha colpito la sua accoglienza sincera e la visione nitida con cui conduce ogni iniziativa culturale: uno sguardo aperto, motivato, inclusivo, in grado di trasformare l’arte in esperienza condivisa. La sua determinazione è palpabile, così come la cura con cui affronta ogni aspetto organizzativo, capace di dare forma a eventi di grande qualità.

Professionista dell’immagine, fotografo per mestiere ma soprattutto per passione, Piero Giannuzzi ha saputo portare il linguaggio fotografico, insieme a molteplici espressioni artistiche, dalla pittura alla scultura, dall’arte digitale alla grafica, fino all’installazione e alla videoarte, dentro una realtà museale viva e dinamica, perfettamente integrata in un contesto storico di rara bellezza.

Il MuPa, ospitato in un elegante palazzo settecentesco restaurato nel cuore di Ginosa (TA), è oggi un punto di riferimento per l’arte contemporanea e la sperimentazione culturale, dove tradizione e innovazione si fondono armoniosamente.

Ma il MuPa è anche qualcosa di più profondo: è un omaggio sentito a una figura cara, alla quale è dedicato l’intero progetto.

Questa radice personale ne alimenta lo spirito, rendendolo sì un luogo di esposizione, ma anche di connessione, dialogo e appartenenza. Qui la cultura non si contempla da lontano, ma si vive, si condivide, si costruisce insieme.

In questa intervista, Piero Giannuzzi ci racconta la nascita e l’anima del MuPa, i valori che lo ispirano, le difficoltà del suo ritorno nella terra d’origine, e la sua instancabile volontà di dare futuro alla bellezza. 

Un dialogo che è, prima di tutto, un atto d’amore verso l’arte, il territorio e le persone.

 

 

 

 

 

 

 

Puoi raccontarci la storia della nascita del MuPa? Qual è stata l’idea iniziale che ha dato vita a questo museo?

 

Tutto è nato da un desiderio semplice, ma ambizioso: creare uno spazio in cui la cultura potesse essere davvero di tutti, e per tutti. Il MuPa non nasce come un “museo tradizionale”, ma come un polo culturale vivo, aperto, capace di abbracciare l’arte, la storia, la creatività e il dialogo sociale in tutte le loro forme. Fin dall’inizio, l’idea fondante è stata quella di costruire un luogo che potesse diventare un punto di riferimento per la comunità: non un contenitore statico, ma un cuore pulsante di esperienze condivise.

 

Ciò che rende unico il MuPa è la sua vocazione inclusiva. Non è stato pensato solo per raccontare, ma per accogliere: persone, idee, prospettive diverse. Ogni attività del MuPa ha un obiettivo chiaro: generare connessioni, creare appartenenza. Siamo in questo senso, un crocevia di linguaggi e visioni. Un luogo dove l’arte incontra il territorio, dove la memoria si intreccia con il futuro, dove la cultura non si visita, ma si vive.

 

Il MuPa ha una dedica speciale, in onore di una persona a cui tieni moltissimo. Ci puoi raccontare chi era e quale legame speciale ti ha ispirato a creare questa realtà museale?

Il MuPa porta dentro di sé una dedica speciale, forse la più importante: è nato da un’idea di mio suocero, Fernando Ria, padre, suocero, fratello, amico, ogni cosa. Una figura che ha lasciato un’impronta indelebile nella nostra comunità e nella nostra vita personale. Era una mente brillante, sempre un passo avanti rispetto al suo tempo, capace di vedere possibilità e connessioni dove gli altri vedevano solo ostacoli. Adesso che lui non è più tra noi, andiamo avanti anche per onorare la sua memoria. Ma ciò che lo rendeva davvero straordinario era il suo modo di mettere sempre gli altri al centro. Non c’era ambizione personale che venisse prima del bene comune, non c’era idea che non includesse un pensiero per chi aveva meno, per chi era ai margini. Il suo senso profondo di giustizia sociale, la sua capacità di ascolto e la sua visione inclusiva del futuro sono stati per me e per noi tutti una guida silenziosa ma costante. A lui dobbiamo molto, è andato via maledettamente troppo presto, ed il vuoto lasciato è enorme ma non lo colmeremo, non si può. 

Il MuPa, con la sua vocazione culturale aperta e partecipativa, con il suo desiderio di costruire legami e generare bellezza condivisa, è anche un modo per continuare il suo pensiero, per renderlo ancora vivo. Ogni progetto, ogni incontro, ogni sguardo curioso che entra nel nostro spazio culturale è, in un certo senso, un piccolo omaggio a ciò che lui ha seminato.
 
 

 

 

 

 

Quanto è stato importante il legame con il territorio nella creazione di questa realtà museale?

 

Il legame con il territorio è stato, fin dall’inizio, il cuore pulsante del MuPa. Amiamo profondamente questa terra, le sue radici, le sue storie, e sentiamo una responsabilità autentica nel prendercene cura. È proprio da questo amore che è nata la spinta a creare qualcosa che potesse restituire valore, che potesse dare nuova linfa alla nostra città, troppo spesso dimenticata o sottovalutata. Il MuPa è la risposta a un bisogno profondo: quello di far ripartire la città culturalmente parlando, non con grandi proclami, ma con piccoli gesti significativi che riaccendano il senso di appartenenza, la partecipazione, l’orgoglio di essere parte di un luogo che ha ancora tanto da raccontare. Ginosa, con la sua storia millenaria e la nostra Gravina, ne sono testimoni silenziosi e potenti. Il nostro territorio è la nostra radice e il nostro orizzonte. E se oggi il MuPa esiste, è perché crediamo che la cultura sia uno dei modi più potenti per far germogliare un futuro migliore, a partire da qui
 
 

 

 

 

Qual è la missione principale del MuPa e come si distingue da altre realtà museali?

 

Mi piace dire che il MuPa è un po’ come una vecchia osteria a conduzione familiare: un luogo autentico, dove ci si conosce per nome, dove si entra con curiosità e si esce con il cuore un po’ più pieno. Non ci interessano le etichette o le formalità: vogliamo toccare per mano i nostri ospiti, guardarli negli occhi, farli sentire accolti, ascoltati, coinvolti.

 

La nostra missione principale è l’inclusione sociale. Quella vera, non di facciata. Crediamo in una cultura che non isola, ma unisce. In un’arte che non seleziona, ma abbraccia. Il MuPa si distingue perché non mette le persone davanti a un’opera d’arte e basta, ma le invita a farne parte, a dialogare, a costruire insieme. Non vogliamo essere un “museo da visitare”, ma uno spazio da vivere. Al MuPa, la cultura non ha un piedistallo, ma una tavola imbandita, pronta ad accogliere chiunque abbia voglia di condividere.

 

 

 

Hai affermato che viviamo in un’epoca di “distruzione culturale”. In che modo il MuPa si pone come risposta a questa crisi e come può contribuire a un cambiamento positivo?

 

Sì, credo davvero che stiamo vivendo un’epoca di distruzione culturale. Un tempo in cui si parla tanto, ma si ascolta poco. In cui si guarda tutto, ma si osserva niente. In questo contesto svuotato di contenuti e di profondità, il MuPa vuole essere una piccola, ma concreta risposta. Un luogo in cui risvegliare coscienze assopite, soprattutto nei più giovani.

Vogliamo vedere i nostri ragazzi lasciare per un momento il cellulare, raddrizzare quella schiena ormai curva su uno schermo, e scoprire il piacere di perdersi dentro un libro, di emozionarsi davanti a un dipinto, di lasciarsi attraversare da una melodia o da una fotografia che racconta più di mille parole. Non perché siamo nostalgici del passato, ma perché crediamo nel potere trasformativo della cultura, quella vera. Quella che accende scintille.

 

 

 

Il MuPa offre ai visitatori esperienze immersive attraverso visori VR e contenuti cinematografici in realtà virtuale. Come è nata l’idea di integrare queste tecnologie e qual è la risposta del pubblico?

 

L’idea di integrare la realtà virtuale all’interno del MuPa è nata dal desiderio di rendere la cultura ancora più accessibile, emozionante e coinvolgente, soprattutto per le nuove generazioni. Viviamo in un mondo dove la tecnologia è parte integrante della quotidianità: invece di combatterla, abbiamo deciso di abbracciarla e usarla come ponte, non come barriera. Ad esempio poter visionare un posto lontano, piuttosto che le nostre chiese rupestri, magari inaccessibili, anche solo posizionando un visore sul volto beh, credo sia pura poesia. Magari chi non può “fisicamente” o “economicamente” affrontare viaggi di un certo tipo, viene qui, si accomoda e li vive, si, in modo differente, ma li vive.

 

Ci piace pensare al VR non come un semplice strumento “tecnologico”, ma come una nuova forma di narrazione, un modo per entrare dentro le storie, per viaggiare nel tempo e nello spazio, per vivere l’arte e la memoria con tutti i sensi. La risposta del pubblico ad oggi è stata sorprendente. Dai bambini agli anziani, vediamo nei loro occhi la meraviglia di chi riscopre la cultura in modo nuovo, immersivo, quasi magico. Molti ci dicono che grazie ai visori hanno “sentito” davvero ciò che stavano guardando. E per noi, questo è il segnale più bello: significa che stiamo riuscendo a far passare emozioni, non solo informazioni.

 

 

 

Le sei sale del MuPa sono dedicate a icone dell’arte italiana come Caravaggio, Fellini e Morricone. Qual è stato il criterio di scelta e come dialogano questi nomi con l’identità del museo?

 

La scelta di dedicare le sei sale del MuPa a figure come Caravaggio, Fellini, Morricone, Alighieri, Fracci e De Filippo non è stata casuale, né puramente celebrativa. Al contrario, è nata da un bisogno profondo: quello di costruire un dialogo tra passato e presente, tra eccellenza e quotidianità, tra genio e umanità, utilizzando i nomi di chi con la propria arte ha fatto in modo che il nome della nostra nazione fosse presente ovunque e per sempre. Abbiamo scelto queste icone perché incarnano valori che ci stanno a cuore: l’audacia creativa, l’originalità, la capacità di raccontare l’animo umano in tutte le sue sfumature. Caravaggio con la sua luce che scava nell’ombra, Fellini con il suo sguardo visionario sull’uomo, Morricone con la musica che diventa emozione pura e cosi via.

 

 

Dopo la tua formazione fuori, hai scelto di tornare e investire nella tua terra. Cosa ti ha spinto a questa decisione e quali sono le difficoltà e le soddisfazioni maggiori che hai incontrato?

Ho scelto di tornare e investire nella mia terra perché credo profondamente che lasciare le proprie radici sia un errore che non deve mai accadere, né mentalmente né fisicamente. Ginosa è una terra ricca di potenzialità, di storia, di cultura: può crescere, può fiorire, ma solo se siamo noi a crederci e a impegnarci per costruirne il futuro. Se andiamo tutti via, non accadrà mai. La decisione di tornare non è stata semplice: le difficoltà sono tante, dalla burocrazia lenta alla mancanza di infrastrutture, dalle resistenze al cambiamento alle sfide economiche quotidiane. Ma le soddisfazioni ripagano ogni sforzo: vedere i frutti del proprio lavoro sul territorio, creare opportunità per altri giovani, ridare valore a tradizioni e risorse locali è una gioia che non ha prezzo. E sapere di contribuire, anche nel mio piccolo, al riscatto della mia terra è la motivazione che ogni giorno mi spinge ad andare avanti.
 

 

 

 



 

Opere fotografiche di Piero Giannuzzi

 

 

La tua carriera di fotografo è ricca di esperienze significative. Ci puoi raccontare come è iniziato il tuo viaggio nel mondo della fotografia?

 

La fotografia mi ha affascinato da sempre. Fin da piccolo ero incuriosito da come fosse possibile fermare un’immagine, catturare un attimo che altrimenti sarebbe svanito. Da questa meraviglia nasce anche il nome del mio studio fotografico: Kaleidoscopio. Ho scelto questo nome perché rappresenta il mio modo di vedere il mondo, fatto di infinite combinazioni di colori, forme, prospettive. Mi ha sempre colpito pensare a come, già secoli fa, qualcuno come Niépce sia riuscito a immaginare e realizzare un mezzo per fissare ciò che si osservava, per renderlo eterno. È proprio da questa curiosità e da questo stupore che è iniziato il mio viaggio nel mondo della fotografia.

 

 

 

Il MuPa ha dimostrato un forte impegno nel coinvolgere giovani artisti attraverso iniziative come open call e mostre collettive. Quali strategie specifiche avete adottato per attrarre e supportare i giovani talenti, e come vedi il ruolo del museo nel facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel panorama artistico contemporaneo?

 

 

 

Il MuPa ha sempre creduto che il futuro dell’arte passi attraverso il sostegno ai giovani talenti. Per questo abbiamo adottato strategie mirate per attrarre e supportare i giovani artisti, a partire dalle open call accessibili e trasparenti, che permettono una selezione inclusiva e meritocratica. Abbiamo creato spazi dedicati a mostre collettive o workshop, offrendo non solo luoghi espositivi ma anche momenti di confronto, formazione e networking con artisti affermati e professionisti del settore. Crediamo che il museo debba essere più di un contenitore: deve diventare un incubatore di idee e progetti, un ponte tra le nuove generazioni e il panorama artistico contemporaneo. Il nostro obiettivo è dare ai giovani artisti gli strumenti e le opportunità per esprimersi, crescere e posizionarsi all’interno di un mercato complesso, senza snaturare la propria voce creativa. È una sfida continua, ma anche una grande responsabilità e un privilegio.

 

 

 

 

 

Quali sono i progetti in cantiere per il futuro del MuPa?

 

Il nostro obiettivo per il futuro del MuPa è continuare a crescere, alzare sempre più l’asticella e consolidarci come un vero e proprio polo culturale di riferimento. Vogliamo ampliare la nostra offerta, coinvolgendo un pubblico sempre più grande e diversificato, attraverso nuove mostre, eventi multidisciplinari, collaborazioni con artisti nazionali e internazionali, e attività educative rivolte a tutte le fasce d’età. Stiamo lavorando per rendere il MuPa un luogo vivo e dinamico, dove l’arte si intreccia con il territorio e con la comunità, capace di generare dialogo, confronto e crescita. È una sfida ambiziosa, ma siamo determinati a portarla avanti con passione e visione.

 

Il MuPa è anche il frutto di una rete di persone, imprese e realtà che hanno creduto nel progetto sin dall’inizio. Vuoi dedicarci un pensiero per ringraziare chi ha scelto di camminare accanto a te in questo viaggio culturale?
 
Una dedica speciale va a tutti coloro che ci sostengono continuando a credere nella cultura come luce che guida e radice che unisce, il nostro più profondo grazie. Professionisti ed imprese della nostra terra siete il respiro vivo di un sogno condiviso. Con voi, ogni pagina scritta ha più voce. State tenendo la mano ai nostri ragazzi, al loro futuro, ai loro sogni. Ogni fiducia data alla cultura è un seme piantato nei cuori delle nuove generazioni. Qualcuno deve pur farlo e se ci uniamo, possiamo rendere le cose meravigliose. 

 

Grazie a: AbaBio, Agri Ionica Srl, Alima Cooperativa Onlus, Arco Antico Ristorante, Autoservice Sannelli, AVIS Ginosa, Biffy Ristorante, Caffè 25, Cemab Srl, Cienne Autoricambi, Clan Pub, ClimaSat di Sante Bracciale, Drink Planet, Eclipse, Eden Spazio Bellezza, EdilArt s.c., Edil Maggi SRL, EdilLux Tamburrano SRL, Eurospin F. Ribecco, Farmacia Sangiorgio, Festa Allianz, Future Center di Patremia Paolo, Galante Consulenza e sviluppo Commerciale, Genera Innova Srl, Global Service Impianti, Graficam, Humana Life&Joy, Il Piccolo Principe Casa Vacanza, Il Praedio della Reale – Bio Agriturismo, Intelligere Moda, Jonica Bio, KaleidoscopioLab, La Pescarella Ristorante, Le Tre Civette B&B, Lignea74013, Linea Uomo Accontiature, Loforese Group SRL, Lomax Assicurazioni, Massanè Casa Vacanze, MZ Service, Nuova Luce Cooperativa Sociale, Pavone Montaggi, Pratoplà, PrencipEdil, Cantine Domenico Russo, RoyalFin Servizi Immobiliari, Sabry Tende, Sinergy, Studio Ria Stp, Tecnica Diesel, Tenuta Orsanese, Tertiam Viaggi, Rag. Fernando Ria, Ing. Alessandro Leccese, Avv. Deborah Panettieri, Rag. Domenico Gigante, Avv. Carmen Carlucci, Ing. Vito Parisi, Geom. Maurizio Napoli, Dr. Luca Calabria, Dr. Vito De Palma, Rag. Rossella Ria, Dr.ssa Grazia Ria, Dr. Cosimo Ria, Rag. Domenico Cazzetta, Dr. Paolo Costantino, Dr. Piero Giannuzzi e il Comune di Ginosa.

 

Aspettiamo tutti coloro che vorranno aggiungersi alla nostra grande Famiglia.

 

 

 

 

Invece in ambito personale c’è un progetto o un sogno artistico che ancora desideri realizzare?

 

Il mio progetto? Ma io non ho un progetto, io ho un’avventura! Io non voglio scattare foto, io voglio scattare vita! Desidero che la mia agenzia di comunicazione sia un carnevale, una festa perenne.

 

Come direbbe Benigni: “La vita non si spiega, si vive”. Ed io la voglio vivere tutta, fotografare con le mani, con gli occhi, col cuore, con le lacrime, con le risate, con i piedi, ah no, con i piedi no, avrebbe un altro significato!
Il mio sogno per la mia terra? Che i ragazzi non se ne vadano. Che restino. Che dicano: ‘Ma guarda quante cose belle possiamo fare qua!’ Perché la bellezza non sta nei grattacieli, ma nel sorriso della signora che ti vende il pane, nei muri scrostati che raccontano storie, nei vecchietti seduti al bar che parlano del tempo da quarant’anni!
E poi io voglio vivere, SERENO, si SERENO. Voglio vedere crescere le mie bimbe, i miei nipoti, guardarli e dire: ‘Ma che miracolo siete!’ Voglio star bene con la mia famiglia, sedermi a tavola, ridere, voglio ridere… sempre, perchè la vita corre troppo veloce.
Contatti
 
Email info@kaleidoscopiolab.it  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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ArteIntervisteSegnalazione Eventi

Verso il vernissage di “Il riscatto della brutta psiche” Intervista doppia a Maurizio D’Andrea e Carla Pugliano

L’ArteCheMiPiace – Segnalazione Eventi/ Interviste

 

 

 

Verso il vernissage di “Il riscatto della brutta psiche” 

 

Intervista doppia a Maurizio D’Andrea e Carla Pugliano

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |06|Maggio|2025|

 

 

 

 

Cresce l’attesa per Il riscatto della brutta psiche, la mostra personale di Maurizio D’Andrea, artista internazionale e fondatore del Movimento Artistico Introversico Radicale, che inaugurerà il 10 maggio presso la CathArt Gallery di Varese. L’esposizione si preannuncia come un viaggio visivo potente e introspettivo, capace di dare forma alle tensioni emotive più profonde e ai paesaggi interiori spesso dimenticati.

A conferire ulteriore prestigio all’evento sarà la presenza di Daniele Radini Tedeschi, tra i più autorevoli critici d’arte contemporanea, già più volte Curatore e Commissario della Biennale di Venezia. Il suo intervento critico offrirà una lettura profonda e articolata del lavoro di D’Andrea, valorizzando il senso e l’urgenza espressiva di una mostra che nasce per scuotere e interrogare.

La sua partecipazione rappresenta un’occasione preziosa non solo per l’artista, ma anche per il pubblico presente, che potrà confrontarsi con una lettura lucida e autorevole del percorso espositivo.

Per anticipare i temi e lo spirito di questa mostra così particolare, abbiamo raccolto le voci dei suoi protagonisti: Maurizio D’Andrea, che ci guida all’interno della sua ricerca artistica, e Carla Pugliano, artista a sua volta e fondatrice della CathArt Gallery, che per la prima volta apre i suoi spazi a un progetto curatoriale esterno.
 

 

Un dialogo a due voci per scoprire cosa si cela dietro l’ideazione, la preparazione e il significato profondo di un evento che promette di lasciare il segno.
 
 
 
 
 

 

Carla, come nasce l’idea di ospitare proprio Maurizio
D’Andrea con la mostra “Il riscatto della brutta psiche”? Cosa l’ha colpita del
suo lavoro e cosa l’ha spinta a dedicargli uno spazio nella sua galleria?

 

 

Ho conosciuto Maurizio D’Andrea durante la Triennale Internazionale di Venezia,
dove entrambi siamo stati premiati con il Leone d’Oro. Da subito sono rimasta
colpita dalla coerenza e profondità del suo percorso artistico: il suo lavoro
scava nell’inconscio umano con coraggio e lucidità, dando forma visiva a
dinamiche interiori che spesso rimangono silenziose. La sua capacità di fondere
arte visiva, psicologia e teatro mi è sembrata perfettamente in linea con la
missione della CathArt Gallery, ovvero promuovere un’arte autentica,
trasformativa, che non abbia paura di affrontare anche le zone d’ombra della
psiche. Ospitarlo è stato un passo naturale.

 

 

 

 

 

 

La CathArt Gallery è nata inizialmente come
spazio dedicato alle sue opere. Questa è, se non sbaglio, la prima mostra
“esterna” che ospita. Come ha vissuto questa esperienza?

È stato un passaggio complesso ma estremamente stimolante. Mettere a
disposizione il mio spazio per altri artisti è, in fondo, un’estensione del mio
stesso linguaggio: offrire un luogo dove l’arte possa generare consapevolezza.
Occuparsi di un altro artista, conoscerlo ed entrare nel suo mondo significa
uscire da sé, ascoltare profondamente la sua voce e creare le condizioni
migliori affinché il suo messaggio venga colto in tutta la sua forza. Non si
tratta solo di esporre opere, ma di contribuire a creare una narrazione
coerente, uno spazio mentale oltre che fisico. Con D’Andrea ho sentito questa
continuità di visione.
In particolare, sono rimasta colpita dal progetto che mi ha proposto. “Il
riscatto della brutta psiche” non è semplicemente una mostra, ma un’esperienza
a più voci: con un monologo teatrale, una performance pittorica e la successiva
esposizione vera e propria. Ogni fase è stata pensata come parte di un rituale
collettivo di svelamento e catarsi.
Quando si lavora con un altro artista si crea, inevitabilmente, un rapporto di
fiducia, di stima e anche di amicizia. È un arricchimento profondo, che
permette di cogliere, toccare e analizzare un linguaggio espressivo diverso dal
proprio. E questo apre nuove prospettive interiori: ci si sente meno soli nel
proprio cammino creativo, ci si sente davvero parte di una comunità che parla,
in modi diversi, un’unica lingua: quella dell’arte.

 



 

All’inaugurazione sarà presente anche Daniele
Radini Tedeschi, uno dei critici più autorevoli della scena contemporanea. Può
raccontarci qualcosa, cosa significa per lei averlo in questo evento?



Ho conosciuto Daniele Radini Tedeschi in occasione della mia personale al Sacro
Monte di Varese
, sito UNESCO. Era presente al vernissage con un suo intervento
critico. Ricordo che ero piuttosto agitata per la sua presenza, ma fin da
subito ha saputo mettermi a mio agio, dimostrando una capacità rara: quella di
entrare nel mondo dell’artista, coglierne l’essenza più autentica e restituirla
con lucidità e rispetto.
Le sue osservazioni, mai scontate, mi hanno profondamente arricchita. Ha saputo
offrirmi una visione più ampia, dandomi consigli preziosi che porto ancora con
me. Ho una grande stima per Daniele Radini Tedeschi, che si è consolidata nel
tempo: la sua lettura critica è sempre profonda, acuta, capace di illuminare i
legami più nascosti tra estetica, pensiero e società.
Averlo oggi alla CathArt Gallery rappresenta per me non solo un onore
personale, ma anche un importante riconoscimento al progetto di questa mostra
portata avanti con passione. Il fatto che sia lui a introdurre la mostra di
Maurizio D’Andrea non fa che rafforzare il valore intellettuale e culturale di
tutto l’evento.
D’Andrea stesso, fin dai primi confronti sul progetto, non ha avuto alcun
dubbio: era proprio Daniele Radini Tedeschi il critico e storico dell’arte che
desiderava coinvolgere per accompagnare questa esposizione. La sua presenza
conferma l’ambizione e la profondità di questa mostra, che si muove su un piano
estetico, psicanalitico e concettuale.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

Maurizio, come nasce il progetto “Il riscatto
della brutta psiche”? C’è stato un momento preciso o un’urgenza interiore che
ha fatto scattare questa narrazione artistica così potente?

 

Il progetto “Il riscatto della
brutta psiche” nasce da un’urgenza viscerale supportata da studi e riflessioni
sin dall’adolescenza, da un bisogno interiore maturato nel tempo in seguito a
una lunga e radicale esplorazione dell’inconscio. Questo percorso si alimenta nel
confronto continuo tra il regno delle pulsioni di Freud e l’ombra junghiana e rappresenta
una parte della mente che la società vorrebbe nascondere sotto il velo della
bellezza artificiale. O vorrebbe ignorare! La psiche, nella sua forma più
cruda, è caotica, irrisolta, dolorosa, forse brutta, ed è proprio questo caos che
la performance vuole raccontare. Il taglio della tela, momento chiave del
progetto, ne è simbolo e detonatore: lo squarcio che rompe l’illusione
dell’armonia e ci restituisce alla verità dell’essere. L’urgenza non era quella
di raccontare una storia bella, ma quella di mostrare l’infranto, l’imperfetto,
il rimosso e di riscattarlo attraverso l’arte, catalizzatrice del riscatto.

 

 
 

 

La sua mostra unisce pittura,
teatro e psicoanalisi. In che modo questi linguaggi dialogano nella performance
e cosa spera che il pubblico possa attraversare emotivamente durante l’evento?

 

Pittura, teatro e psicoanalisi non
sono linguaggi separati, ma arrivano dello stesso corpo concettuale. Il teatro,
attraverso il monologo narrativo, diventa rito di iniziazione e confessione,
uno specchio emotivo in cui il pubblico è chiamato a guardare senza filtri. La
pittura, con le sue tele “brutte” e stratificate, incarna visivamente le
profondità dell’inconscio, rifiutando ogni estetica rassicurante. La
psicoanalisi fornisce il supporto teorico e simbolico attraverso cui leggere
questa esperienza. Freud, Jung e Lacan sono presenti in filigrana nel tessuto
della performance: l’ombra, il caos, il dolore rimosso, il riscatto,  sono i protagonisti silenziosi dell’evento.
L’emozione che si spera di attivare nel pubblico è duplice: uno smarrimento
iniziale, simile all’angoscia del sogno disturbante e, successivamente, una
catarsi. L’obiettivo non è consolare, ma inquietare, smuovere, aprire spiragli.
Ogni quadro svelato è una ferita, ma anche un varco. L’esperienza è pensata
come un viaggio psichico, dove l’osservatore è messo di fronte a se stesso, e
chiamato a scegliere se continuare a fuggire dal proprio caos o attraversarlo
per arrivare al riscatto.

 

 

 

Esporre alla CathArt Gallery,
spazio fondato da un’artista come Carla Pugliano, le ha offerto un contesto
particolare. Com’è nato questo incontro e cosa ha significato per lei essere
ospitato in questo spazio?

 

Esporre alla CathArt Gallery,
fondata da Carla Pugliano, artista straordinaria, non sarà un semplice evento
espositivo, ma un incontro profondo tra visioni affini. Carla, artista
sensibile e coraggiosa, ha creato uno spazio che accoglie l’arte come necessità
esistenziale, non come ornamento. Questo ha permesso di concepire “Il riscatto
della brutta psiche” non come una mostra tradizionale, ma come un’esperienza
totalizzante, una performance immersiva dove il confine tra autore e spettatore
si dissolve. L’incontro con Carla è avvenuto alla Triennale di Venezia dove
abbiamo vinto entrambi il Leone d’oro, e ho subito capito di avere conosciuto
un artista portatrice di una nuova arte. Il suo supporto mi ha offerto la
libertà di osare, di squarciare davvero il velo della convenzione estetica e
accogliere il rischio del disordine psichico come valore artistico. La CathArt Gallery
non è solo una galleria, ma uno spazio culturale vivo che ha saputo,
magicamente, vibrare insieme all’urgenza del mio progetto.

 

La presenza di Daniele Radini
Tedeschi aggiunge un forte peso critico e simbolico all’evento. Cosa
rappresenta per lei il confronto con la sua lettura del suo lavoro?

 

Daniele Radini Tedeschi, critico e
storico dell’arte riconosciuto a livello internazionale, con la sua statura
critica e la profondità del suo sguardo analitico, rappresenta una figura
fondamentale in questo evento. Ha sempre posto l’attenzione anche sulla
dimensione esistenziale e psichica dell’arte, e il suo confronto con questo
progetto porta il discorso a un livello di riflessione ancora più acuto. Il suo
sguardo non si ferma alla superficie della pittura, ma ne esplora le radici
simboliche, i richiami filosofici, i risvolti antropologici. La possibilità di
vedere la mia opera attraversata dalla sua interpretazione è un dono critico
che accende nuove prospettive. È uno specchio, ancora una volta, ma stavolta
esterno e colto, che mi obbliga a un ulteriore esercizio di consapevolezza. Non
si tratta di ricevere conferme, ma di abitare il dubbio con più strumenti, e in
questo, la lettura di Radini Tedeschi è un alleato prezioso.

 

Nelle sue opere si avverte una
forte tensione tra introspezione e linguaggio pittorico. In che modo il suo
percorso personale – umano e artistico – ha influenzato questa ricerca sul ‘non
detto’ della psiche?

 

Tutta la mia opera nasce da una
tensione irrisolta, dalla volontà di dare forma all’informe, di rendere
visibile ciò che per sua natura resta sepolto: il ‘non detto’ della psiche. Tutta
la mia opera nasce anche dal dubbio che si genera e prende forma. Il mio
percorso personale, segnato da studi scientifici e psicologici, dalla continua
esplorazione dell’inconscio e dal contatto diretto con la materia viscerale
dell’esistenza, ha generato un linguaggio pittorico che non cerca mai la
bellezza consolatoria, ma l’espressione autentica. L’uso delle mani, delle
spatole, dei gesti violenti, è il frutto di una necessità più che di una scelta
estetica: è la materia che chiede di emergere. Le influenze di Freud, Jung, Lacan,
si fondono con un vissuto profondamente umano, fatto di fragilità, paure,
solitudini. Ogni tela è un diario emotivo, un campo di battaglia tra ciò che
vorrebbe essere detto e ciò che non può esserlo, se non attraverso il
linguaggio del colore, del taglio, della distorsione. La mia arte è linguaggio.
È una lotta per dare voce a ciò che è stato silenziato. È, in ultima analisi,
una ricerca instancabile di verità e di riscatto

 

 

 

 

L’incontro tra la visione radicale e introspettiva di Maurizio D’Andrea, la sensibilità curatoriale di Carla Pugliano, qui per la prima volta nel doppio ruolo di artista e curatrice ospitante, e la lettura lucida e autorevole di Daniele Radini Tedeschi non è semplicemente una collaborazione, ma un esempio concreto di come la tensione tra pratiche differenti possa generare una mostra stratificata, colta e necessaria.
È da queste convergenze, rare e non scontate, che nasce un evento capace di oltrepassare la superficie dell’esposizione per farsi luogo di riflessione critica e confronto autentico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Informazioni sull’evento:

 

• Inaugurazione: Sabato 10 maggio 2025, ore 18:30

• Luogo: CathArt Gallery, Piazza Giovanni XXIII, 11 – Varese (Ingresso da Via Salvo D’Acquisto)

• Ingresso: Libero

• Apertura: da martedì a venerdì dalle 16:30 alle 19:00 – sabato dalle 10:00 alle 12:30 e 15:00 alle 19:30 / Domenica dalle 15:30 alle 18:30  

 

Per prenotazioni prendere contatti diretti.

 

 

Per saperne di più sull’Artista:

Contatti della Galleria:

• Email: myartcharlotte@gmail.com

• Telefono: 392 8081554

• Facebook: https://www.facebook.com/carla.pugliano/

• Instagram: https://www.instagram.com/cathart_gallery/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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