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Giuseppina Irene Groccia

Segnalazione Eventi

Codice Visivo a cura di Monica Bisin

 

Codice Visivo

 

 

 

 

 

 

 

Il 18 Ottobre alle ore 16.30 si inaugura Codice Visivo, un nuovo evento di fotografia sperimentale, nella deliziosa Galleria Sotto Sopra Art Studio nel cuore di Roma in zona San Giovanni.

Ideato e diretto dalla Curatrice Monica Bisin l’evento espositivo di terrà dal 18 al 25 ottobre 2025 e rientra nel Circuito della Roma Art Week, la prestigiosa Manifestazione a cadenza annuale, diffusa in tutta la città di Roma e totalmente dedicata all’arte contemporanea.

 

Cos’è Codice Visivo?

 

Una mostra che esplora la fotografia come linguaggio plurale, come alfabeto emotivo, narrativo e formale. Quattro autori, quattro codici visivi distinti ma riuniti in un unico spazio per stimolare uno sguardo molteplice sul nostro tempo.

L’obiettivo non è l’unità tematica, ma la tensione tra le singolarità. Ogni progetto presentato diventa una voce autonoma in un coro dissonante ma coerente, in cui l’immagine fotografica si rivela nella sua funzione più profonda: tradurre, decodificare, costruire e reinterpretare la realtà.

L’esposizione si distingue per l’apertura metodologica e per l’inclusione di strumenti contemporanei, tra cui anche l’impiego dell’intelligenza artificiale come mezzo di elaborazione e generazione dell’immagine, a testimonianza dell’evoluzione continua del linguaggio fotografico e dei suoi territori liminali.

La fotografia qui non è intesa solo come tecnica, ma come dispositivo di pensiero, come forma di scrittura del mondo e del sé.

In un presente dominato da flussi continui di immagini volatili, Codice Visivo si distingue per la volontà di ristabilire uno spazio di attenzione e densità, un tempo rallentato in cui l’immagine fotografica torna ad essere campo di riflessione, ricerca e resistenza.

 

La fotografia Sperimentale

 

La fotografia sperimentale è un territorio in continua trasformazione, dove l’immagine smette di essere semplice registrazione del reale per diventare un campo di possibilità concettuali e materiche.

Fin dagli albori del Novecento, figure come Man Ray, Laszlo Moholy-Nagy e Florence Henri hanno sfidato l’idea di fedeltà ottica, aprendo il medium a fotogrammi senza macchina fotografica,solarizzazioni, montaggi e interventi diretti sulla superficie sensibile. In questo contesto “sperimentare” significava rompere con l’estetica documentaria e cercare nuove grammatiche visive, spesso in dialogo con pittura, grafica e scultura. Oggi nell’era digitale e post-fotografica, la sperimentazione assume forme ancora più ibride: si intreccia anche con l’arte generativa, la realtà aumentata, la stampa 3d e la performance, creando opere che vivono in spazi fisici, virtuali o simultaneamente entrambi. La fotografia diventa così un medium espanso capace di inglobare movimento, suono, materia e interazione, dissolvendo i confini tra i linguaggi artistici.

Questa libertà concettuale e formale mantiene però una tensione costante tra innovazione e memoria: la tecnologia apre orizzonti inedi, ma la dimensione analogica, con i suoi tempi, imperfezioni e lunghi processi continua ad offrire un terreno fertile per indagare la natura stessa dell’immagine. In questa dialettica tra vecchio e nuovo, la fotografia sperimentale non è un genere ma un’attitudine: la volontà di guardare oltre, manipolare, contaminare e reinventare il visibile.

 



 

Gli Autori che esporranno sono Alessandro Comandini, Andrea Bernabini, Diego Salvador e Paola Musumeci.

 

Conosciamoli uno per uno…

 

Alessandro Comandini Medico Oncologo appassionato di Fotografia e neuroscienze, sarà presente con due mini Installazioni in cui la fotografia si intreccia con elementi esterni a creare una esposizione interattiva. 

FO.BOX è un gioco volto ad esplicitare il meccanismo fisiologico della visione e a ricordarci che, ciò che vediamo, è frutto di una esplorazione inconscia e di una ricostruzione arbitraria, asincrona e soggettiva della realtà.

Con ISIDORE, ritratto ispirato all’opera surrealista di Man Ray “L’ enigma di Isidore Ducasse” del 1920, Alessandro ci spinge a guardare al di là del drappo, per riflettere sulla fisicità della nostra esperienza estetica, sulla multi sensorialità, sulla vicinanza, sul contatto e l’alienazione emotiva che la tecnologia sta generando.

 

 

Andrea Bernabini Imprenditore visionario, Artista visivo e sperimentatore da anni di nuove tecnologie, privilegia nel suo linguaggio artistico la fotografia da cui proviene la sua formazione e il video. Sarà presente con DERMA OTTICO, una indagine poetica sulla memoria come materia viva che si modifica senza annullarsi. In Derma Ottico interviene manualmente sulla pelle della Polaroid per accogliere l’alterazione come forma di memoria. Terrorizzato dall’idea della perdita definitiva dei ricordi: volti, gesti, luoghi, emozioni pone l’immagine nella zona critica in cui il tempo tenta di cancellare e la memoria insiste a trattenere. Non insegna all’immagine a durare contro il tempo, ma la educa a durare e trasformarsi nel tempo. Un importante lavoro manuale e concettuale esposto con un particolare allestimento in cui le opere entrano in simbiosi con l’elemento metallico.

 

 

Diego Salvador Consulente aziendale ha lavorato in importanti realtà societarie, è appassionato da sempre di fotografia e assiduo sperimentatore. Un lungo percorso artistico che negli ultimi anni si avvicina alle nuove tecnologie per creare sinergie incredibili tra fotografia e nuovi strumenti tecnici.

Attento analizzatore della realtà, in ogni suo progetto la ricerca psicologica e concettuale è il fondamento.

Sarà presente con IO E TE un coloratissimo progetto ibrido che attraverso la rilettura di stili artistici differenti induce ad una ironica riflessione tra ciò che crediamo di essere e ciò che gli altri percepiscono di noi. E’ evidente un forte riferimento all’opera di Pirandello “Uno nessuno e centomila” per riportare l’idea che in ogni individuo abitino identità molteplici, tutte autentiche ma mai conclusive.

 

 

Paola Musumeci Insegnate e sperimentatrice autodidatta. Ogni progetto o opera è il frutto di una attenta ricerca concettuale ed estetica, Paola utilizza la fotografia come strumento primario, ma è alla ricerca di una dimensione ulteriore dell’immagine, che ottiene sperimentando con texture digitali, o con strappi della carta, collage, o ulteriori strati di materia ad arricchire di significati e grafismi.. Il salto di qualità nel suo percorso artistico avviene con la conoscenza diretta di Franco Fontana. Paola vive la fotografia come un grande spazio di libertà in cui convogliare la sua parte più intima e personale.

Sarà presente con SOTTO PELLE Una serie che esplora la dimensione emotiva e psicologica del corpo femminile come paesaggio interiore. Una ricerca visiva che coniuga la ritrattistica con un’impronta pittorica profonda, intima e silenziosa. Il corpo femminile, in queste immagini, non è superficie da contemplare ma territorio da esplorare. Come un paesaggio interiore, custodisce linee, rilievi, ombre che parlano di fragilità e silenzi. La pelle diventa terra sensibile: luce e oscurità ne attraversano i confini, disegnando vallate intime, colline di emozioni, deserti di malinconia.

 

 

 

Codice Visivo ha il piacere di condividere questa esperienza con i suoi Partners:

La Fiaf, Federazione Italiana delle Associazioni Fotografiche, che si prefigge ormai da tanti anni di divulgare e sostenere la fotografia amatoriale in tutto il territorio nazionale, ci onora anche in questa occasione del riconoscimento ufficiale.

 

Il Blog di Arte e cultura: L’ArtecheMiPiace Ideato e diretto dall’Artista Giuseppina Irene GrocciaPropone approfondimenti sull’arte visiva, sul cinema e sulla letteratura. Ospita interviste dedicate ad artisti contemporanei, documenta progetti ed eventi artistici.

 

Una nuova collaborazione nasce per questa iniziativa con Arte 24. il format televisivo al servizio della cultura. Da 15 anni dà voce e risalto a numerosi eventi in location pubbliche e private.

 

 

L’evento è a entrata libera.

 

Tutte le informazioni sull’evento sono disponibili sul Sito ufficiale:

https://www.fagartivisive.it/codicevisivo

 

L’evento è nel circuito di Roma Art Week:

https://romeartweek.com/it/eventi/?code=GWZEMZ

 

E’ visibile il Catalogo online su Mokazine:

https://www.mokazine.com/read/fag2023/codice-visivo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nostra sezione Segnalazione Eventi propone notizie e aggiornamenti su mostre, iniziative culturali, appuntamenti artistici e progetti creativi.

 

Siamo lieti di valutare segnalazioni da parte di enti, artisti, curatori e operatori del settore.
È possibile inviare comunicati stampa o proposte all’indirizzo: gigroart23@gmail.com.
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Letteratura

Franco Emilio Carlino premiato a Forlì – Riflessioni di una voce autorevole tra memoria, cultura e impegno civile

 

Franco Emilio Carlino premiato a Forlì

 

Riflessioni di una voce autorevole tra memoria, cultura e impegno civile

 

 

 

Franco Emilio Carlino, già nostro gradito ospite in una interessante intervista e presto protagonista anche sulle pagine del prossimo numero di ContempoArte, continua a confermarsi figura di rilievo nel panorama culturale italiano. 

Lo scorso 20 settembre, a Forlì, presso il Circolo Aurora in Corso Garibaldi 80, nell’ambito del Festival Forlivese della Libertà, Carlino è stato premiato per il concorso nazionale Idee e proposte per la cultura italiana, promosso da Historica Edizioni

Il suo contributo è confluito, insieme a quelli di altri autori selezionati, nell’antologia pubblicata per l’occasione, suggellando un nuovo riconoscimento al suo lungo e instancabile impegno intellettuale.

Personalità eminente della Calabria culturale, Carlino incarna da decenni un modello di impegno civile e pedagogico che intreccia ricerca, scrittura, testimonianza e passione educativa. Docente di lunga esperienza, animatore degli Organi Collegiali della scuola pubblica, presidente del Distretto Scolastico n. 26 di Rossano e componente del Consiglio Scolastico Provinciale di Cosenza, ha sempre interpretato l’educazione come responsabilità collettiva. La sua azione si è tradotta in pubblicazioni, progetti e iniziative capaci di far dialogare istituzioni, territorio e memoria storica, restituendo centralità alla cultura come strumento di partecipazione e inclusione.

Studioso delle genealogie nobiliari, della storia locale e delle radici identitarie calabresi, ma anche instancabile promotore di iniziative culturali e associative, Carlino ha saputo coniugare rigore accademico e sensibilità narrativa. Nella sua opera emerge un filo rosso: la convinzione che memoria e conoscenza non siano solo esercizi intellettuali, ma atti profondamente civili, capaci di rafforzare i legami comunitari e di stimolare un dialogo intergenerazionale autentico.

Con la premiazione di Forlì, la sua voce ha trovato una nuova risonanza a livello nazionale, riconoscendo la forza di un pensiero che nasce dal territorio ma parla a un pubblico più ampio, attento al valore della cultura come bene condiviso.

 

 

 

 

 

In continuità con questo percorso di impegno e riflessione, proponiamo ai nostri lettori il contributo selezionato al concorso, autentica sintesi del pensiero e della visione civile di Franco Emilio Carlino.

 

 

 

 

 

Cultura e Condivisione la giusta “relazione” per dare senso all’eccellenza  nella nuova Città di Corigliano-Rossano come forma di integrazione sociale  

 

di Franco Emilio Carlino, Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina, Socio della Deputazione di Storia Patria della Calabria e Componente Comitato Scientifico Università Popolare di Rossano.

 

Cauto e dubbioso, a tratti esitante, mi guardo intorno prima di dare una risposta, innanzitutto a me stesso, in modo da fugare ogni dubbio, circa la mancanza di cultura nella nostra nuova Città. Poi, fiducioso e determinato, ma anche soddisfatto, per quanto negli anni realizzato, ripenso che non è la cultura che manca alla nostra Città, poiché quella esistente oltre ad essere millenaria è anche prestigiosa viste le antiche radici greco-bizantine. E quindi mi domando ancora cosa ci manca per migliorare la qualità della vita? La risposta viene da sé, manca qualcosa, che possa farci fare il salto di qualità, in modo che la cultura fruibile venga fuori nel suo smisurato valore al servizio della nuova comunità, anche come forma di integrazione sociale. Del resto è noto, la nuova Città è sì ricca di molte Associazioni culturali ed il tessuto sociale è intriso di cultura, ma il nuovo Centro Urbano derivante dalla recente fusione, non è ancora completamente omogeneo circa il profilo culturale, molti sono i gap da superare, ragione per la quale la cultura esistente risulta spesso individualista, non accessibile a tutti, incapace e inadeguata ad armonizzare una vera integrazione del suo stesso contesto sociale. Quindi, visti alcuni segnali non proprio incoraggianti, credo, si rende necessario e improcrastinabile trovare gli strumenti necessari per attivare nuove proposte per una vera cultura integrante. 

     L’articolazione di questa breve premessa mi riporta col pensiero a una mia recente e corposa intervista nella quale il concetto di cultura entra impetuosamente nell’articolato della discussione all’interno della quale, però, un altro termine viene continuamente da me richiamato come elemento imprescindibile per una giusta “relazione” capace di dare senso e valore all’eccellenza, per cercare di migliorare la qualità della vita della nuova Città di Corigliano Rossano e valorizzare così il territorio nel suo complesso, tenendo sempre uno sguardo fermo alla salvaguardia della cultura locale. Questo secondo termine si chiama condivisione. Non vi può essere cultura senza condivisione, pertanto, sono convinto siano necessari suggerimenti, idee e linee guida volte a migliorare o promuovere la cultura attraverso azioni concrete in ambito sociale utilizzando anche la tecnologia. Le due vecchie Città, al di là della loro unione fisica devono trovare terreni comuni da arare eliminando le scorie e la conflittualità del loro passato. Fino a quando non si troveranno vere forme di condivisione sui piccoli come sui grandi progetti, la Città sarà pure la terza della Calabria ma perderà la sfida decisiva sulla vera integrazione della sua comunità.

     La cultura odierna, per la sua vivacità e la perseverante trasformazione cui è sottoposta, condizionata peraltro da una molteplicità di elementi, potremmo precisarla come l’insieme di tante altre culture, quali quelle che fanno riferimento alle nostre padronanze, ai nostri valori, ai nostri costumi e alle norme che regolano  i nostri comportamenti e le relazioni, per non dire ancora, allargando l’orizzonte, a tutte le nostre conoscenze, ma anche alle tradizioni, al folklore e perché no anche alle credenze popolari. All’interno di queste culture, oggi si è inserita prepotentemente, occupando spazi enormi, come si accennava, la tecnologia della comunicazione che influenza e caratterizza moltissimo la nostra società e della quale bisogna tenere conto.  

     Il tema del presente intervento invita a soffermarmi sulle numerose ed anche eccellenti proposte culturali che nella nostra Città continuano a realizzarsi, in primis il fiorire di pubblicazioni editoriali, con tanti volumi riguardanti anche la microstoria, ma che quasi sempre registrano una breve durata, e sempre circoscritta al momento della loro presentazione, senza poi avere una efficace ricaduta in particolare nella scuola, l’anello più importante per il futuro della stessa comunità. Questo rappresenta un evidente punto di criticità. Al riguardo, sarebbe perciò utile che le case editrici pensassero anche a delle forme di collaborazione con le scuole per orientare gli alunni alla conoscenza della storia locale proponendone lo studio, facendone conoscere gli autori, con l’organizzazione di appositi incontri o tavole rotonde su temi individuati e condivisi. La stessa cosa si può dire delle biblioteche, a parte qualche sporadico episodio di buona volontà indirizzato ad incrementare la lettura, ma ancora insufficiente per conseguire i livelli culturali auspicati. Per migliorare la cultura della nostra Città questo non basta. Dobbiamo spingerci oltre e verso una ricaduta positiva della proposta effettuata. Ecco perché credo sia utile lavorare insieme per trovare le giuste strategie. Per esempio, una cosa importante potrebbe essere dedicarsi alla conoscenza della propria lingua, a maggior ragione oggi che la Città unica si compone di due grandi città una di provenienza greco bizantina, con un suo dialetto e l’altra di provenienza ausonica, quindi non greca, con un altro dialetto. Stessa cosa dicasi per la storia, l’arte e le usanze dei due luoghi.  Il confronto su questi temi deve essere serrato, coinvolgendo le scuole ai diversi livelli con esperienze e progetti mirati se si vuole raggiungere una vera integrazione culturale senza tuttavia né demonizzare e né mortificare le diverse peculiarità di origine.   

     Alcune esperienze, mi portano a considerare che potrebbe essere utile, ad esempio, introdurre lo studio e le conoscenze del dialetto facendo notare le differenze tra i due dialetti anche attraverso la provenienza etimologica dei termini oppure attraverso la lettura di opere di storia locale, la proiezione di documentari e film riguardanti il territorio di pertinenza, la visita ai musei della Città e ai siti archeologici del territorio, la partecipazione a eventi culturali. Queste alcune delle cose che, condivise, aiuterebbero a migliorare non solo le conoscenze ma anche l’apprezzamento, il rispetto e l’orgoglio per la propria cultura.

     Accennavo prima alla storia locale o più precisamente alla microstoria, che deve essere considerata una questione importante alla quale dare la giusta attenzione se si vuole veramente comprendere la nostra cultura come possibile chiave di integrazione. Guardando alla mia esperienza supportata anche da alcune pubblicazioni rivolte alla partecipazione delle giovani generazioni, perché queste si avvicinino il più possibile alla propria storia e alla riscoperta della propria identità culturale del territorio facendo tesoro di quanto la stessa storia, in termini di vicende, tradizioni, folklore, religione, esperienze, monumentalità, arte, beni culturali, archeologia, economia, agricoltura e altro ancora, ci ha tramandato, elementi fondamentali per la costruzione di quella solida identità collettiva, specie nei piccoli centri, mi permetto di sostenere con certezza che può essere la via maestra per maturare anche quel senso di appartenenza che forse si sta perdendo. La  storia locale, ancora oggi non trova nella scuola adeguato spazio. Si preferisce il suo insegnamento tradizionale, secondo i programmi ministeriali, continuando a parlare di Fenici e Sumeri, popolazioni a noi lontane, che si fa fatica a farle comprendere a ragazzi di 11 anni, quando invece dietro l’uscio di casa, aprendo la porta, e spalancando gli occhi ci rendiamo conto che abbiamo un mondo vastissimo da esplorare. Basti pensare a popolazioni come gli Enotri, i Greci e i Bruzi, ai nostri territori ricchi di opere d’arte, ai tanti siti archeologici a portata di mano, un territorio racchiuso tra le due grandi Città della Magna Grecia come Sibari e Crotone, alla ricchezza ambientale di circa 850 km di spiaggia, ai diversi parchi naturali del Pollino, della Sila, dell’Aspromonte e delle Serre. Questo dovrebbe, per quanto mi riguarda, far cogliere a tutti gli enormi vantaggi che se ne possono ricavare in termini culturali. Penso che la storia si debba studiare partendo dal vicino, con la microstoria, per arrivare al lontano allargando via via l’orizzonte e preparando la mente dei ragazzi a recepire discorsi più complessi. Questo eviterebbe il facile disorientamento e la crescita di un maggiore amore per lo studio della storia e il possibile recupero dell’identità nei piccoli centri. 

     Al riguardo, una idea per allargare il ventaglio della proposta culturale sarebbe quella di far funzionare delle navette permanenti tra la grande Città di Corigliano Rossano e il suo Hinterland in modo da consentire ai turisti, ma anche ai residenti,  di visitare anche il vasto territorio della Sila Greca ricco di paesaggi affascinanti e splendidi borghi considerevoli per cultura, vicende storiche, opere d’arte e tradizioni.    

     Le iniziative per raggiungere uno scopo devono essere regolarmente accompagnate e indirizzate alla costante promozione della cultura. Non a caso parlavo prima di condivisione. Inoltre, se tutte le forze culturali della Città si muovono insieme condividendo un progetto per la Città ricco di straordinarie iniziative nel campo della formazione, dell’ambiente, dello sport, della musica, incontri su temi sociali e pedagogici dimostrando al contempo forte intesa e collaborazione i risultati non possono mancare. 

     Fortunatamente la nuova Città dispone di tantissimi punti di aggregazione. Luoghi come cinema, teatro, il mondo dell’arte, scuole di musica e musei non mancano e sono il cuore pulsante delle diverse e articolate proposte culturali attraverso la promozione anche di ottime iniziative, fruibili però molto spesso da parte di chi ne avrebbe meno bisogno. È necessario trovare soluzioni per progetti aperti a tutta la Città coinvolgendo le scuole se si vuole in qualche modo aprirsi ad una cultura aggregante. Le istituzioni locali, le scuole, il mondo associativo devono mettere in campo tutte le loro energie e risorse aprendosi alla elaborazione di progetti comuni e condivisi nei diversi campi della cultura, avendo come obiettivo primario quello di raggiungere le diverse fasce sociali per promuovere la cultura di integrazione della quale oggi c’è tanto bisogno. Fare e promuovere cultura per il bene della propria Città non può essere qualcosa di astratto, ma richiama tutti al senso della responsabilità e dell’appartenenza ad una comunità. 

     Ho sempre considerato la positività della condivisione, come pure la promozione del suo valore, ma ho anche pensato che qualunque esperienza fatta, in qualunque campo, assume maggiore valore se questa viene partecipata rendendola utile e fruibile agli altri. Come arrivarci e affinché tutto possa accadere non è semplice, ma bisogna osare se si vogliono conoscere la propria cultura, le proprie origini, da dove proveniamo, i nostri antenati, come pure le testimonianze, il viaggio che abbiamo fatto, chi ci ha preceduto e dove siamo arrivati, oppure quali sono stati i personaggi principali della nostra storia ed ancora chi erano coloro che ci hanno organizzato come comunità e cosa facevano, quanto hanno condizionato e segnato la nostra personalità, ed infine le vicende e le influenze storiche che ci hanno riguardato, sapendo delle tante dominazioni che ci hanno attraversato. La voglia di apprendere, che fondamentalmente è e rimane la sostanza della nostra ragione, non ci deve mai abbandonare, anzi va sostenuta e alimentata continuamente allo scopo di fare memoria comune del nostro passato per immaginare positivamente il nostro futuro. Questo può essere una via o una strategia per tutelare e ampliare la nostra cultura oltre che a farla diventare integrante. Solo così per le nuove generazioni, oggi sempre più percepite come generazioni prive di radici in un’epoca priva di veri modelli di riferimento, la cultura può risultare un prezioso insegnamento, come pure per questo nostro mondo sradicato e smemorato.

     In conclusione, mi piace sottolineare come memoria, cultura e tecnologia sono fondamentali nello sviluppo e nell’integrazione della nostra Città. Le prime due richiedano un continuo nutrimento per preservare l’identità futura della nostra comunità, dove la promozione culturale svolge un aiuto cruciale. Infine, la tecnologia che in questo contesto di resistenza culturale, richiama tutti ad una visione nuova della sua applicazione per favorire non solo la conservazione della nostra memoria, ma farci sempre più scoprire com’eravamo, con uno sguardo al futuro della nostra amata terra. È implicito che quanto proposto per la mia Città è estensibile a ogni singolo luogo del nostro Paese.

Corigliano Rossano 21 luglio 2025

                                                                                                       Franco Emilio Carlino

 

 

 

 

Alla luce di quanto emerso dal suo scritto, appare chiaro che il contributo di Carlino non sia soltanto un saggio di rara lucidità, ma anche una tessera preziosa di una raccolta che intreccia riflessioni e visioni sul futuro della cultura italiana. Un mosaico vivo che ci invita a pensare la cultura come orizzonte di senso, strumento di comunità e promessa di rinnovamento.

 

L’antologia, edita da Historica Edizioni, è disponibile sul sito della casa editrice e nei principali store online

 

 

Clicca sulla copertina del libro 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Segnalazione Eventi

“Giovani Talenti Crescono” Seconda edizione al Vintage Caffè Artistico-Letterario

 

“Giovani Talenti Crescono” 

 

Seconda edizione al Vintage Caffè Artistico-Letterario

 

 

 

 

Dopo il grande successo della prima edizione, torna l’atteso appuntamento al Vintage Caffè Artistico-Letterario con la 2ª Edizione di “Giovani Talenti Crescono”, in programma sabato 27 settembre 2025 alle ore 18:00 presso la sede di Via Provinciale, 15 – Corigliano-Rossano (area urbana Corigliano).

 

Un evento che rispecchia da sempre la missione del Vintage, che è quello di essere un luogo vivo e accogliente, capace di offrire spazio e visibilità ai giovani artisti emergenti, sostenendoli e valorizzando il loro talento.

 

La serata si aprirà con i saluti della padrona di casa Ermelinda Pipieri e il Professore Giuseppe De Rosis, insieme ai saluti istituzionali, per poi dare voce e spazio ai protagonisti.

 

 

 

Partecipano:

  • Harmonika – Accademia Musicale
  • Adrobart
  • Sara Bonadio
  • Camilla Francesca Mazzei
  • Elisabetta Ferrara
  • Istituto “Luigi Palma” – Green | Falcone | Borsellino
  • ACA – Antonio Cimino Artista “La Piccola Officina dell’Arte”
  • Centro Studi Artistici Angel Rose di Bosco Emanuela 
  • Gruppo L’Eredoto – Conoscenza, Cooperazione, Inclusione 
  • Associazione Bandistica “A. De Bartolo” Città di Corigliano Rossano
  • Associazione Tuttinsieme ODV
 
 

La serata sarà arricchita dalla partecipazione dell’ospite Prof. Andrea Biffi, pittore, scultore, designer e poeta, che impreziosirà l’incontro con il suo contributo.

 

“Giovani Talenti Crescono” vuole essere una festa di condivisione e creatività, una finestra sempre aperta alle scuole, alle accademie, alle associazioni del territorio e ai ragazzi autodidatti che hanno molto da raccontare.

 

 

 

 

 

📞 Per prenotazioni: 392 567 4900

 

 

 

Vi invitiamo a partecipare numerosi per condividere un’altra serata memorabile, consacrata all’arte, alla cultura e ai giovani, autentici protagonisti del nostro avvenire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Uno Sguardo sull’Opera

Vermeer in doppia visione – Il mistero delle due Guitar Player a Londra

 

Vermeer in doppia visione


Il mistero delle due Guitar Player a Londra

 

A Kenwood House, a Londra, si è aperta una mostra dal titolo Double Vision: Vermeer at Kenwood che sta già facendo parlare critici e appassionati. Per la prima volta in oltre tre secoli, due versioni quasi identiche del dipinto The Guitar Player, attribuite al celebre pittore olandese Johannes Vermeer, vengono esposte una accanto all’altra, offrendo uno spettacolo visivo e intellettuale di rara intensità.

L’opera conservata abitualmente al Philadelphia Museum of Art, solitamente lontana dai riflettori, è stata prestata per l’occasione e si confronta con quella custodita da sempre a Kenwood House, considerata l’originale. Quest’ultima è firmata, in condizioni migliori e universalmente riconosciuta come autentica. Fin qui nulla di straordinario. Ma la novità arriva dalle analisi tecniche in corso, che stanno suggerendo un’ipotesi tanto affascinante quanto destabilizzante: la versione americana potrebbe non essere né una copia di bottega né un falso, bensì una autocopia eseguita dallo stesso Vermeer.

L’idea che l’artista olandese, noto per il suo catalogo limitato a sole 37 opere autenticate, possa aver dipinto due versioni dello stesso soggetto apre una serie di interrogativi intriganti. Era una pratica che usava abitualmente o si tratta di un caso eccezionale? La seconda versione fu realizzata per una commissione, o nacque da un’esigenza personale, come esercizio artistico o riflessione intima sul tema?

Oltre alla portata scientifica, la mostra colpisce anche per la sua forza poetica. Il pubblico può osservare da vicino entrambe le tele, cogliendo minime differenze nel tocco, nella luce, nella postura della figura femminile che suona la chitarra. In un’epoca in cui l’autenticità viene spesso affidata agli algoritmi, Double Vision ci ricorda che lo sguardo umano, sensibile e soggettivo, è ancora un potente strumento di analisi.

 

 

L’esposizione vuole sì rendere omaggio a Vermeer, ma al tempo stesso invita a interrogarsi sul senso dell’“originale”. Se entrambe le tele fossero state concepite dall’artista, la questione non riguarderebbe più soltanto l’autenticità, bensì la nostra idea di unicità e di valore nell’opera d’arte. Forse è proprio nella loro duplicità che si rivela una nuova forma di preziosità, un enigma che sfida categorie e certezze.

Double Vision è un itinerario nell’ignoto della creazione, e non una semplice mostra, un confronto silenzioso tra due immagini speculari che, pur simili, custodiscono variazioni sottili e cariche di significato. Un’occasione irripetibile per accostarsi al mistero di uno dei maestri più elusivi della pittura europea.

La versione del Philadelphia Museum of Art

 

 

La mostra è aperta fino all’11 gennaio 2026 presso Kenwood House, Londra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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IntervisteSegnalazione Eventi

Ilaria Pisciottani racconta “15 – La Fotografia oltre l’umano”

 

Ilaria Pisciottani racconta 15 – La Fotografia oltre l’umano

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |29|Agosto|2025|

 

 

Si avvicina sempre di più l’inaugurazione di 15 – La Fotografia oltre l’umano, una mostra che ha richiesto un lungo e accurato lavoro di preparazione. 
Dall’individuazione della sede espositiva alla scelta di un critico di rilievo come Roberto Mutti, dalla decisione di realizzare stampe di alta qualità direttamente in loco per garantire uniformità ed evitare spedizioni agli artisti, fino alla progettazione di un catalogo che include non solo la critica e un’intervista inedita a Mutti, ma anche ampio spazio dedicato a ciascun fotografo e alle sue opere.
 

 

Un ruolo centrale è stato inoltre riservato all’attenta selezione degli artisti, invitati personalmente e scelti non attraverso un bando aperto, ma in virtù della coerenza della loro ricerca e della forza dei linguaggi proposti.

 

Al tempo stesso, grande attenzione è stata posta nel dare continuità al progetto, affinché non si esaurisca a Varese ma possa proseguire altrove, incontrando nuovi interlocutori e ampliando il proprio raggio d’azione. La mostra si trasformerà così in un ulteriore format originale, pensato per adattarsi ad un contesto diverso e per rinnovarsi in dialogo con luoghi, pubblici e comunità differenti.

 

Un percorso articolato e condiviso, reso possibile grazie alla proficua collaborazione di più professionalità, che ha condotto alla definizione di un progetto espositivo di alto livello. I quattordici artisti selezionati porteranno infatti un contributo prezioso e originale, arricchendo una mostra capace di distinguersi per qualità, visione e cura in ogni dettaglio.

 

Abbiamo avuto il piacere di toglierci qualche curiosità a riguardo. Trattandosi di un’esposizione dagli aspetti singolari e originali, ne abbiamo parlato direttamente con la sua ideatrice, la fotografa e curatrice Ilaria Pisciottani.

 

 
 
 
 
 
 
 

 

Da dove nasce l’idea di questa mostra e, in particolare, come si è sviluppata la scelta di lavorare sul concetto di transanimale?

 

 

 

Nasce dalla voglia di mostrare un intreccio vitale attraverso delle opere fotografiche, in cui l’umano non occupa il centro assoluto, ma si riconosce parte di una rete complessa e interconnessa.

 

 
 

 

Cosa significa per te interrogare, attraverso la fotografia, il rapporto tra umano, animale e natura?

 

 

 

Significa che la fotografia può diventare lo strumento ideale per aprire questo dialogo, perché ha il potere di sospendere il visibile e di suggerire visioni nuove in cui si possa apprezzare un uomo che ha imparato ad essere umano e che ha finalmente capito il suo ruolo etico e morale.

 

 
 

 

Con quale criterio hai scelto gli artisti che partecipano a questo progetto? Quali qualità cercavi nelle loro opere e nei loro linguaggi visivi?

 

 

 

Ho scelto gli artisti per l’originalità della visione e la coerenza del linguaggio. Ogni fotografia ha una voce autonoma, ma tutte concorrono a un’unica narrazione: dissolvere i confini, aprire varchi, restituire sensibilità ibride. Il numero 15 diventa simbolo di armonia dinamica, di un’energia che unisce forze naturali e volontà di trasformazione.

 

In primis volevo unire fotografi molto diversi tra loro e penso di esserci riuscita.

 

Proprio il tema della mostra mi ha permesso di scegliere delle opere che cogliessero in pieno il concetto di Transanimale pur mantenendo in pieno la cifra stilistica dei fotografi che le esporranno, esaltando l’ambito in cui loro amano esprimersi liberamente senza porre loro delle forzature.

 

Noto spesso nelle varie mostre collettive in cui si debba rispettare un tema non di tipo trasversale ci sia spesso il rischio che tutto si riduca ad dover osservare immagini molto simili tra loro, trovo ciò molto noioso e poco illuminante, sia per chi espone che per il visitatore che non sa più neppure distinguere un fotografo dall’altro.
I 14 fotografi selezionati : Matteo Abbondanza, Fabrizio Ceci, Michele Coccioli, Monica Cossu, Giuseppina Irene Groccia, Matteo Groppi, Sonia Loren, Alessio Marzola, Maria Cristina Pasotti, Ilaria Pisciottani,  Alessandro Rovelli, Christine Selzer, Louis Selzer, Pier Paolo Tralli e in basso a ds Carla Pugliano ( Artista e Gallerista ospitante)

 

 

 

 

 

 

Non tutti hanno colto subito la portata del progetto, qualcuno si è fermato davanti alla richiesta di un contributo economico. Chi ha deciso di partecipare, invece, ha riconosciuto qualcosa di diverso. Secondo te, cosa hanno compreso questi artisti e perché hanno scelto di esserci?

 

 

 

I fotografi che hanno accettato la mia proposta artistica hanno probabilmente il mio stesso desiderio di crescere, di confrontarsi con onestà ed impegno nel settore della fotografia, che investono con amore nella loro arte, che durante l’anno molto generosamente, dedicano parte della loro ricchezza per esporre in contesti d’arte veri, dove amano mettersi in gioco, che danno il benvenuto al confronto con altri fotografi di talento e all’approccio con un vero critico del settore e riconosciuto, non un pinco palla qualunque, non hanno paura di ricevere note antipatiche, ne sanno anzi apprezzare il lato costruttivo.

 

Ultimo aspetto da non sottovalutare e che questi fotografi hanno avuto il desiderio di mettersi alla prova con il grande formato, portare tre opere importanti che superano la barriera del più comune 40×30 spaventa molti.

 

Il grande formato, come sottolinei, rappresenta una sfida che non tutti i fotografi sono pronti ad affrontare. In questa mostra, però, diventa un elemento distintivo insieme alla presenza di un critico non convenzionale ma di riconosciuto prestigio come Roberto Mutti. Qual è, a tuo avviso, l’importanza di tali scelte e quali benefici concreti portano non solo alla qualità complessiva dell’esposizione, ma anche al percorso degli artisti che vi partecipano?

 

 

 

Ora ti dico quel che penso fuori dai denti ed in modo sincero, così di riflesso sono chiari gli aspetti che hai toccato nella tua domanda.

 

Ogni volta che andiamo a vedere mostre di grandi fotografi e troviamo il grande formato, tutti noi pensiamo con un po’ di sana invidia: “Ma che meraviglia, questa sì che è un’esposizione, certo anche io se potessi esporre con dei pannelli così grandi, in posti così belli, con le note critiche di un grande esperto, con un catalogo così di qualità, avrei un grande risultato e successo

 

Ma poi che succede però?

 

Succede che la maggior parte dei fotografi, nonostante questa voglia, torna sempre nella sua amata area di comfort ad esporre in piccoli formati, in posti non sempre consoni, con pseudo critici che non fanno altro che dirgli quanto sono bravi! Perché? Perché sono poco generosi con se stessi, sono arroganti, per di più sapendo anche di avere dei grandi limiti, le loro foto non permettono un ingrandimento, sono spesso in bassa risoluzione per via di errati salvataggi e post produzioni non professionali, per mancanza di studio e di voglia di crescere veramente.

 

Gli artisti che parteciperanno alla mostra 15 sono a mio parere dei fotografi pronti ed intraprendenti, onesti, generosi, sobri e umili che amano mettersi in gioco con impegno e che mostreranno ad un pubblico che ama l’arte le loro straordinarie opere in un formato che inizia ad essere importante, il 100×150.

 

Non vogliamo che il pubblico si limiti a spostare lo sguardo da un’opera all’altra. Vogliamo che si immerga, che stabilisca analogie, che si lasci provocare dalle immagini. La fotografia, qui, è un varco: chiede di essere attraversata e di generare nuove domande.

 

Così come ci porra’ delle nuove domande e sfide la presenza autorevole del critico Roberto Mutti che tutti noi stimiamo molto per la sua onestà intellettuale, preparazione e impegno profuso in tanti anni di onorata carriera creata con impegno e senso della realtà nel rispetto della fotografia come vero impegno civile ed etico del fotografo.

 

La mostra apre prospettive etiche, poetiche e civili.

 

“15 – La Fotografia oltre l’umano” diventa così un invito a fermarsi, osservare e soprattutto a ripensare il nostro posto nel mondo, lasciando che le immagini non siano soltanto oggetti da contemplare, ma strumenti di consapevolezza e di cambiamento.

 

Il tutto si svolgerà a Varese in un luogo suggestivo come la CathArt Gallery dell’artista Carla Pugliano, che ringrazio per la sua accoglienza squisita in questa sua galleria che è un vero tempio e rispecchia ciò che l’arte oggi rappresenta per noi: una catarsi profonda, una forma di liberazione emotiva che passa attraverso la creazione e la fruizione artistica.

 

Sono stata esauriente?!

 

 
 
 
 
Si, sei stata molto chiara ed esaustiva, e di questo ti ringrazio.  Passiamo ora a parlare del catalogo, parte importante di ogni mostra. In questo caso non è stato concepito come un semplice documento, ma come parte integrante della mostra. Alla luce del pensiero di Vasari, che sottolineava l’importanza di come un’opera viene tramandata e raccontata, che significato attribuisci a questo volume e quale riflessione personale porta con sé?
 

 

Esatto, il catalogo vuole essere proprio un’estensione della mostra stessa. Non un semplice documento, ma un’opera autonoma che offre spazio alle immagini, alle parole e alle riflessioni. Mi piace pensarlo come una sorta di eredità vasariana, in cui biografia, descrizione e critica si intrecciano. È pensato per continuare il dialogo anche fuori dalla galleria, raggiungendo un pubblico ampio.

 

Penso che quando si realizza un catalogo bisogna avere grande rispetto per gli artisti ma soprattutto nei confronti della storia dell’arte stessa.

 

È una traccia importante che segna il lavoro svolto degli artisti, se mal fatto diventa un vero insulto, si infangano loro ma anche la storia dell’arte stessa, il cammino dei padri fondatori dell’arte come il grande Vasari, che pur di lasciare traccia dell’arte rinascimentale dedicò con amore e fervore parte della sua vita nello svolgere questo importante compito di catalogare, archiviare gli artisti, le opere e le biografie, per poi tramandare tutto il lavoro svolto ai posteri.

 

Dopo di lui in pochi sono riusciti in questa missione, ci sono dei bei lavori ma meno grandiosi e più limitati come area geografica.

 

Giuseppina Irene Groccia è per me oggi una figura che potrebbe essere considerata una degna erede del Vasari.
Fin da subito ho colto in lei la giusta sensibilità artistica, nonché la preparazione e la professionalità necessarie per donare, ogni volta, raccolte ricche di valore e significato artistico. La conosco ormai da anni e sa sempre regalarmi grandi emozioni. La ringrazio sinceramente per questo impegno, perché lo porta avanti con forza e amore, senza mai cedere alla sola venalità che purtroppo caratterizza molti operatori del settore dell’arte contemporanea.

 

 

 

 

 

Se dovessi sintetizzare in una frase cosa rappresenta per te “15 – La Fotografia oltre l’umano”, quale immagine o pensiero sceglieresti?

 

 

 

Mi piacerebbe chiudere con un pensiero di Thomas Mann che ben descrive il nostro gruppo di lavoro

 

Un artista, un artista vero e non uno la cui professione borghese sia l’arte, uno predestinato e condannato, lo si riconosce tra mille, anche con uno sguardo non molto esperto… Nel suo viso si legge il senso dell’isolamento e dell’estraneità, la consapevolezza di essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e di smarrito nello stesso tempo
Per ulteriori dettagli e approfondimenti sulla mostra, vi invitiamo a consultare il comunicato stampa disponibile al seguente link
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

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Arte

COLORE, FORMA, SPAZIO E SILENZIO

 

 

 

 

COLORE, FORMA, SPAZIO E SILENZIO 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |28|Agosto|2025|

 

L’arte minimalista inganna l’occhio e la mente. Essa si presenta come un linguaggio essenziale, privo di ridondanze, ma dietro quella apparente semplicità si nasconde un processo creativo tra i più complessi e rigorosi. 

 

Senem Oezdogan Abstract Minimal Art

 

 

 

Creare un’opera minimale non significa sottrarre senza criterio, ma trovare il punto esatto in cui ogni segno, ogni spazio, ogni ritmo visivo diventa indispensabile.

Paul Grand – “Three girls running” 2012

 

 

La difficoltà sta nell’equilibrio sottile tra il “troppo poco” e il “troppo”. Se la composizione resta eccessivamente scarna, rischia di apparire vuota, priva di tensione e di senso. Se invece si eccede, anche di poco, si perde la purezza del gesto e con essa la forza intrinseca dell’opera. È un campo in cui la misura non è numerica, ma sensibile, un atto di ascolto costante tra l’artista e lo spazio che egli stesso costruisce.

 

La tela bianca, in questo contesto, diventa ancora più intimidatoria perché non offre rifugi né orpelli. Ogni intervento, anche il più piccolo, si espone nudo e definitivo, rivelando la lucidità o l’incertezza di chi lo compie. L’artista minimalista non può nascondersi dietro alla complessità decorativa, egli è chiamato a una chiarezza radicale, a una disciplina interiore che si traduce in precisione formale.

 

Fernando Zobel – Minimal Abstract Expressionism

 

 

Per questo l’arte minimale non è mai un “facile esercizio di sottrazione”, ma un raffinato esercizio critico. È un’arte che chiede all’autore di fermarsi al momento giusto, di accettare il silenzio come parte integrante della composizione, e di fidarsi del proprio istinto senza indulgere nell’eccesso.

 

In fondo, la sua difficoltà coincide con la sua grandezza… nel poco, deve vibrare l’essenziale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Interviste

VARCARE IL VISIBILE – Incontro con Emanuele Attadia e la sua Pittura

VARCARE IL VISIBILE
Incontro con Emanuele Attadia e la sua Pittura

di Giuseppina Irene Groccia |25| Agosto |2025|

 

 

Forse solo chi sogna è davvero desto.” Questa convinzione sembra attraversare la pittura di chi, fin da bambino, ha vissuto in un contesto familiare colmo di stimoli creativi, tra musica, teatro e arti visive. Emanuele Attadia, nato a Rossano (CS), coltiva sin da giovane il disegno e la musica, per poi approdare con dedizione alla pittura, intraprendendo un percorso da autodidatta dopo la laurea in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio. 

La sua cifra pittorica si riconosce in un realismo quasi iperreale, che si carica di simboli e di tensione poetica, restituendo immagini capaci di aprire varchi di mistero e intimità e di dare voce a quell’intreccio di sogno, fragilità ed enigma che abita l’animo umano.

La sua tecnica, paziente e minuziosa, costruisce immagini in cui la luce si fa sostanza e il dettaglio non è mai semplice ornamento, ma veicolo di verità interiore. È una luce che non resta in superficie: scivola sulle forme, le accarezza, le modella come se volesse svelarne l’essenza segreta. In questa trama luminosa il visibile diventa un varco, un punto d’accesso al non detto, e ciò che appare agli occhi assume la forza di una rivelazione silenziosa. Ogni tela diventa così un luogo di ascolto e meditazione, non una semplice rappresentazione, ma uno spazio in cui lo sguardo si trasforma in esperienza interiore.

Negli anni l’artista ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi in ambito internazionale, esponendo in sedi di rilievo come il MEAM di Barcellona e partecipando a concorsi che ne hanno consacrato la qualità espressiva. Tra i traguardi più significativi, la selezione come finalista al 17° Art Renewal Center Salon Competition, che ha condotto il suo dipinto a essere incluso nel Lunar Codex, capsula del tempo destinata alla luna, un riconoscimento straordinario, che suggella la sua visione come parte di un orizzonte senza confini. 

È stato inoltre finalista nel concorso dedicato a Tiziano Vecellio e al Beautiful Bizarre Art Prize 2025, affermandosi come una delle voci più interessanti della pittura figurativa contemporanea.

Già presentato nella precedente edizione del nostro Magazine ContempoArte con il dipinto “L’inaccessibilità dei sogni”, Emanuele Attadia torna sulle nostre pagine con la forza discreta della sua visione. Le sue opere non cercano mai l’effetto immediato, ma invitano a soffermarsi, a rallentare lo sguardo, a lasciarsi sorprendere da ciò che emerge nel silenzio. La pittura diventa per lui un ponte tra mondi apparentemente lontani, il concreto e l’evanescente, il quotidiano e l’eterno. 

 

 

 

In questa intervista possiamo avvicinarci non solo all’artista, ma anche a chi, con dedizione e sensibilità, fa di ogni tela uno spazio di ascolto e introspezione.

 

 

 

Sei cresciuto in un ambiente familiare ricco di stimoli
artistici. Come ha influito questo contesto sulla tua scelta di diventare
pittore? 

 

Innanzitutto volevo ringraziarti, cara Giuseppina, per avermi chiesto
di rilasciare questa intervista per il tuo blog e il tuo fantastico Magazine ContempoArte. Per me è un
privilegio, oltre che un onore. Tornando alla tua domanda, confermo che gli
stimoli artistici, nella mia famiglia, non sono mai mancati. Sin da
piccolissimo sono stato abbagliato dai dipinti di mio padre Pietro. Nel
tentativo di emulare i suoi capolavori, ricordo di aver scarabocchiato
centinaia di album da disegno. Lui è anche un insegnante di musica, ora in
pensione, per cui sono stato introdotto anche nel magico mondo musicale. Mio
fratello Luca, poi, è un grande attore di cinema, TV e teatro e mia madre, col
suo infinito turbinio di idee, dà vita a numerose iniziative nella scuola dove
insegna. In un ambiente così dinamico, sono stato facilitato nel comprendere
quale fosse per me la via più bella da intraprendere. 

 

Avvolta dal’inquietudine – Olio su tela 40×50 – 2024

 



 

Dopo una laurea in
Ingegneria Ambientale, hai intrapreso un percorso da autodidatta nella pittura.
Cosa ti ha spinto a questo cambio di rotta così radicale? 

 

Ogni esperienza di
vita è un filo che tesse l’anima. Il mio percorso di studi mi ha aiutato ad
arricchirmi come persona e, perché no, ad avere anche una prospettiva analitica
nella concezione e nella realizzazione dei miei dipinti. Il cambio di rotta non
è stato un calcolo, ma un dono dell’imprevedibilità della vita, che mi ha
guidato verso la pittura come un rifugio sicuro. Essere autodidatta è stato un
atto di fiducia nella mia voce interiore, lungo un viaggio senza meta
apparente, illuminato dalla magia che può regalare il meraviglioso linguaggio
pittorico. 

 

Fructus Ventris – Olio su tela 60×70 -2024

 



 

L’opera in evidenza nell’ultima edizione del Magazine ContempoArte, “L’inaccessibilità
dei sogni”, sembra incarnare perfettamente questa visione. Ci racconti la sua
genesi? 

 

“L’inaccessibilità dei sogni” è nata da una percezione viscerale,
un’immagine nata da ispirazioni colte da più fonti ed intrecciatisi nella mia
mente. La donna davanti allo specchio, con la sua espressione disincantata, è
come se cercasse di afferrare un mondo irraggiungibile e, di spalle, invitasse
l’osservatore a condividere il suo desiderio. Accanto a lei, una donna
addormentata, con le gambe che si perdono nello specchio, riesce ad abitare
quella dimensione onirica preclusa alla figura sveglia. Ogni essere umano è
sempre stato affascinato dal mondo dei sogni e dall’influenza che questo
esercita sull’esistenza, chiedendosi dove sia il punto di contatto tra sogno e
realtà e quale sia la vera illusione durante tutta la vita. E se chi conduce
un’esistenza molto concreta e materiale fosse in realtà colui che dorme? I
nostri sogni sono la porta del nostro universo interiore, in cui risiede la
parte vera e autentica di ogni individuo. Trascurarli, non dando importanza
alla nostra dimensione spirituale, significa dormire per tutta la vita,
escludendo inevitabilmente dalla stessa tutto ciò che potrebbe velarla di magia.

 

 



 

 

 

 

L’opera è stata selezionata come finalista all’Art Renewal Center Salon
Competition ed è stata inclusa nel Lunar Codex, una capsula del tempo destinata
alla luna. Cosa ha rappresentato per te questo riconoscimento? 

 

Quando ho saputo
che “L’inaccessibilità dei sogni” è stata selezionata come finalista dell’ArtRenewal Center Salon Competition, il più grande concorso al mondo sull’arte
figurativa contemporanea, ed inlcusa nel Lunar Codex, ovviamente ho provato
un’emozione immensa, indescrivibile. Questo incredibile riconoscimento mi ha
donato nuova energia per proseguire nel mio percorso. Non è cosa di 
tutti i giorni vedere un dipinto viaggiare verso le stelle.
È come se quella donna davanti allo specchio, con il suo desiderio
inafferrabile, portasse un frammento della mia anima nell’infinito. La tua pittura
si colloca nell’ambito figurativo, con tratti che sfiorano l’iperrealismo. 

 

 

L’inaccessibilità dei sogni – Olio su tela 70×90 – 2024

 

 

 

Cosa
ti ha spinto a scegliere proprio questo linguaggio espressivo, invece di
orientarti verso forme più astratte o concettuali? 

 

Ogni dipinto è un’illusione
ottica, un equilibrio tra realtà e astrazione, dove la figura diventa un ponte
per l’anima. Il figurativo parla direttamente al cuore, narrando e celebrando
l’umano in modo potente ed eterno. L’idea di esaltare l’arte astratta o
concettuale a prescindere, a discapito di quella rappresentativa, come avviene
in molti contesti, soprattutto italiani, mi sembra limitante. È necessario che
dietro ogni forma espressiva vi sia una continua e fruttuosa ricerca ed una
profonda conoscenza della materia affinchè il risultato non sia sterile o
prettamente commerciale. Dipingere è un linguaggio, e come tale va affinato per
poter esprimere in maniera potente ed efficace il messaggio che si aspira a
veicolare. 

 

Le silenziose voci dell’anima – Olio su tela 70×100 – 2021

 



 

Il tuo stile pittorico si distingue per un forte contenuto simbolico
e introspettivo. Quali sono i temi che ti guidano? 

 

Attraverso la pittura miro
ad aprire una finestra su un universo parallelo, dove istinto e razionalità,
materia e anima si intrecciano profondamente. Cerco di affinare il linguaggio
pittorico per raccontare, in maniera sempre più fedele, ciò che vedo nel cuore.
I miei temi nascono da ciò che mi faccia tremare l’anima, come la tensione tra
realtà e sogno e la fragilità dell’essere umano. Ogni dipinto punta ad essere
un dialogo intimo che si manifesta unicamente sulla tela, un mondo magico che
inviti l’osservatore a perdersi e ritrovarsi. Seguo l’ispirazione ovunque mi
porti, lasciando che ogni pennellata trasformi il visibile in un’eco
dell’invisibile, un riflesso dell’anima che parla a chi sa ascoltare. 

 

Ecce Haereditas Domini – Olio su tela 70×80 – 2024

 



 

Guardando
al passato, quali sono gli artisti che più ti hanno ispirato, sia per la loro
tecnica che per la profondità del loro messaggio? 

 

La mia visione pittorica è
stata sicuramente influenzata da tutti i maestri in grado di dipingere
l’autentica essenza dell’essere umano e della natura. Caravaggio, con il suo
chiaroscuro drammatico, mi ha insegnato a scolpire l’emozione con la luce.
Antonio Mancini e John Singer Sargent mi hanno affascinato per la loro
pennellata vibrante. I preraffaelliti, come Waterhouse, Millais e Cowper mi
hanno incantato con la loro poesia visiva. Ma mi vengono in mente anche i
maestri della scuola russa, tipo Ilya Repin e Shishkin così come i tantissimi
pittori contemporanei che ammiro profondamente. Sono tutti fonte di ispirazione
per me. Poi ci sono opere che singolarmente mi colpiscono dritto al cuore come
“Dopo la prima comunione” di Carl Frithjof Smith, col suo toccante messaggio
nascosto. E potrei fare decine di esempi come questo. Tendenzialmente starei
ore di fronte ad un dipinto che mi parla nel profondo, studiandone ogni singola
pennellata. 

 

Struggente nostalgia (dettaglio) – Olio su pannello 20×30 – 2023

 



 

Hai praticato anche la pittura su ceramica sopra smalto. In che
modo questa esperienza ha influenzato la tua tecnica pittorica? 

 

È stato un
periodo fondamentale per permettermi di riprendere costantemente contatto con
la pittura, spingendomi a capire che non avrei più potuto farne a meno.

 

Lavorando in paradiso – Olio su pannello – 2020

 



 

Quanto è importante per te il legame con la Calabria, terra
in cui sei nato e cresciuto? 

 

Nel bene e nel male, il contesto in cui cresciamo
ci segna: sta poi alla sensibilità ed alla personalità del singolo individuo
scegliere cosa valorizzare di tutto ciò che si presenta sul suo cammino. Con
tutte le sue contraddizioni, la Calabria è una terra unica, un mosaico di
bellezza selvaggia e storia antica che ha incantato tantissimi artisti nel
corso dei secoli. È nei suoi paesaggi incantati, nei suoi silenzi capaci di
parlare all’anima che trovo l’ispirazione per i miei dipinti. Non posso che
essere legato a questa terra, che mi ha donato radici forti e ali per sognare,
rendendomi la persona che sono oggi. 

 

Prigioniero dei tormenti – Olio su tela 60×80 – 2025

 



 

Nel tuo percorso hai ricevuto
riconoscimenti in importanti concorsi internazionali e hai esposto in sedi
prestigiose come il MEAM di Barcellona. Cosa ti ha insegnato questa esperienza
internazionale? 

 

Ogni forma di esperienza a questi livelli è estremamente
positiva: confrontarsi con maestri di livello mondiale è arricchente sia dal
punto di vista artistico che da quello umano. C’è tanto da apprendere, da ogni
cultura e da ogni approccio pittorico e soprattutto da come all’estero siano in
grado di celebrare l’arte rappresentativa quale linguaggio universale capace di
unire talenti provenienti da ogni angolo del pianeta. Istituzioni come il MEAM,
ARC, Artelibre
e pubblicazioni come Beautiful Bizarre Magazine non sono solo
piattaforme, ma veri e propri catalizzatori di un rinascimento contemporaneo,
dove il dialogo tra artisti crea una sinergia unica, capace di ispirare e
spingere i confini della creatività. 

 

L’Artista Emanuele Attadia al lavoro

 



 

Hai progetti futuri già in cantiere? 

 

Ho
tanti progetti in lavorazione, ognuno con una sua storia da raccontare. Ciò che
li unisce è il desiderio di dare forma a ciò che vedo e sento nel mio cuore,
trasformando emozioni e visioni in opere che parlino in modo autentico. Ogni
nuovo lavoro è un passo in questo viaggio, un modo per esplorare e condividere
la bellezza che trovo intorno a me. 

 

Ephemeros – Olio su tela 70×90 – 2025

 

 

Infine, cosa diresti a un artista che vuole
intraprendere la strada della pittura figurativa oggi, in un mondo dominato da
immagini digitali e velocità? 

 

A un artista che sente il richiamo della pittura figurativa
direi: segui questa strada solo se la senti ardere dentro di te, come una
missione, una vocazione profonda, quasi una forma di preghiera. Dipingere non è
solo tecnica: è un atto di verità, un dialogo tra l’anima ed il mondo.
Dipingere attraverso una ricerca che passi attraverso l’arte figurativa può
diventare una chiave per aprire tante porte. 
In un’epoca dominata dal culto
della velocità e dalle immagini digitali, l’arte figurativa ha un potere unico:
rallentare il tempo, condurre verso l’essenza delle cose, toccare corde che il
digitale non può raggiungere. Ma se il tuo cuore non vibra per questa ricerca,
se vedi l’arte al pari di un’immagine fugace, forse è meglio guardare altrove.

 

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

 

Sito Web Emanuele Attadia

Email info@emanueleattadia.com

Facebook Page Emanuele Attadia Art

Instagram emanuele_attadia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato a Rossano, Emanuele Attadia cresce in
un ambiente familiare artisticamente
molto dinamico: si avvicina attivamente alla musica ed al disegno sin dalla più
tenera
età, coltivandone l’interesse durante il suo percorso di studi. Consegue la
maturità
scientifica e quindi si laurea in Ingegneria per l’Ambiente ed il Territorio
presso
l’Università della Calabria. Per un anno pratica la pittura su ceramica sopra
smalto,
affinando la tecnica autonomamente. Successivamente, dal settembre 2014, si
dedica
con continuità e da autodidatta alla sua vera passione: la pittura.

Nel 2016 gli viene conferito il “Diploma di Merito” del Premio
della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in occasione della
XI Biennale di Arte Internazionale di Roma.

Nel 2020 è finalista del concorso internazionale di pittura
avente come tema unico l’opera di Richard Wagner “Lohengrin”, a cura del Club
Wagner, della “Fundacio de les Arts i els Artistes” e del prestigioso Museo
MEAM di Barcellona, dove espone insieme alle altre opere finaliste.

Nel 2023 fa parte della terza edizione della mostra
internazionale “The MEAM Hall”, presso il Museo MEAM di Barcellona.

Nel 2024 è finalista del Concorso Internazionale del Ritratto
dedicato al grande pittore rinascimentale Tiziano Vecellio, a cura dello Sheng
Xin Yuart Institute. Prende parte alla relativa mostra tenutasi nella
meravigliosa cornice di Forte Monte Ricco, a Pieve di Cadore (BL), luogo natìo
di Tiziano.  

Nel 2024 è finalista del 17esimo Art Renewal Center Salon
Competition, il più grande e prestigioso concorso al mondo legato al Realismo
Contemporaneo. Il dipinto è incluso nel Lunar Codex, una serie di capsule del
tempo, contenenti il lavoro di 7000 creativi, compresi  i finalisti del Concorso ARC, le quali
verranno lanciate sulla luna in tre missioni correlate alla NASA. Sarà il primo
significativo posizionamento di arte contemporanea sulla luna in 50 anni. 

Nel 2025 è finalista presso il 2025 Beautiful Bizarre Art Prize,
nella sezione Ryamar Paintings Award, uno dei più prestigiosi concorsi al mondo
legati all’arte figurativa contemporanea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Ribaltare la Prospettiva – La Fotografia secondo Robbie McIntosh

 

 

Ribaltare la Prospettiva

 

La Fotografia secondo Robbie McIntosh

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |20|Agosto |2025|

 

 

Dietro il nome d’arte che evoca lontane sonorità nordiche, si cela un fotografo che a Napoli ha trovato un campo d’azione privilegiato, pur senza rivendicare un legame di appartenenza. 

Nella traiettoria artistica di Robbie McIntosh, classe 1977, la fotografia non appare mai come un mestiere da esercitare, né come un semplice mezzo di espressione. È piuttosto una missione dello sguardo, un impegno continuo a interrogare la realtà, a decifrare l’umano nelle sue forme più spontanee e contraddittorie. I suoi scatti sembrano far parte di una disciplina interiore, un percorso di indagine che tiene insieme estetica e antropologia, poesia e documento. In questo senso, il suo lavoro si pone come una ricerca instancabile, non la rappresentazione di un mondo osservato da lontano, ma la costruzione di un dialogo ravvicinato con la vita stessa, nelle sue verità fragili e insieme potenti.

Riservato, poco incline alla sovraesposizione personale, McIntosh lascia che siano le sue immagini a parlare per lui: corpi comuni, non scolpiti, colti sulle spiagge di Napoli o in altri contesti urbani, sempre restituiti con dignità e verità. Nel tempo ha costruito uno stile personale che ricorda l’occhio corrosivo e affettuoso di Martin Parr, ma con una cifra tutta sua, uno sguardo insieme crudo e compassionevole, che si nutre di contraddizioni.

Autore di libri già fondamentali come On The Beach e Scampia Anno Zero, premiato a livello nazionale e internazionale, McIntosh è un fotografo che riesce a trasformare il quotidiano in racconto universale. Dietro la sua apparente ritrosia si cela un pensiero lucido, netto, mai banale, che rende ogni sua affermazione tanto precisa quanto spiazzante.

Le sue risposte alle nostre domande portano l’inconfondibile segno del suo stile fotografico. Nelle parole asciutte e precise di Robbie si coglie la stessa tensione che attraversa le sue immagini… un equilibrio fragile tra silenzio e rivelazione. Più che semplici risposte, esse ribaltano spesso la prospettiva, con un linguaggio netto, diretto, che alterna rigore e improvvisi slanci poetici. Le sue parole non concedono appigli facili ma lasciano intravedere, senza concedere del tutto, aprendo varchi inattesi che spingono chi ascolta a riconsiderare le proprie domande. E questo aspetto riflette perfettamente le caratteristiche delle sue fotografie.

La sua attenta osservazione del mondo è capace di cogliere la bellezza nelle imperfezioni, la forza nei gesti quotidiani, la poesia nascosta nei corpi e negli spazi che attraversa. La fotografia per lui non è mai separata dalla vita, essa è un modo di percepire, interrogare e restituire l’umanità nella sua interezza. Con lui, fotografia e vita coincidono, perché, come ama ripetere, “tutto è politico. Il corpo è uno strumento politico, ogni cellula è un manifesto ideologico. Tutto è bellezza. Bellezza è verità”.

 

 

 



 

 

 

Lasciamo ora a lui stesso la parola, per scoprire direttamente come osserva, interpreta e racconta il mondo attraverso la fotografia

 

 

Robbie McIntosh, il tuo nome d’arte, evoca un suono nordico. Eppure il tuo legame con Napoli sembra intenso, visto che vivi e lavori qui da anni. Come vivi la città e in che misura senti di avere radici o di appartenere a un luogo?

 

Il mio legame con Napoli è molto meno stretto
di quanto si possa pensare. Non sono neppure nato qui, e non ho neppure
trascorso i primi 8 anni di vita, che sono tra i più formativi in assoluto,
quelli che determinano le possibili traiettorie dell’esistenza umana. Non penso
di avere radici, in senso assoluto. Attecchisco ovunque, e di principio sono
internazionalista. I confini mi stanno stretti, le barriere vanno abbattute, e
i nazionalismi portano solo guerre e odio.

 

Quando è nata la tua passione per la fotografia? C’è stato
un momento preciso in cui hai capito che avresti voluto farlo sul serio? E
quali autori, fotografi o meno, ti hanno ispirato lungo il cammino?

 

Ho sempre preso la fotografia molto
sul serio, anche quando non ero un fotografo professionista. Ogni espressione
dell’anima va presa con estrema serietà, perchè si sta maneggiando la vera
essenza dell’uomo. Gli autori, in assoluto, oltre ogni categoria, che più mi
hanno ispirato (per certi versi anche traumatizzato) sono Martin Scorsese,
Hunter S. Thompson, Ciprì
e Maresco, Francois Truffaut, Robert Hunter, Gregory
Corso
, per citarne solo alcuni.

Provai ad esprimermi con la musica,
ma non avevo né il talento e neppure la disciplina per perseguire quella strada
con soddisfazione (intesa come capacità di realizzare quello che sentivo
interiormente).

 

 

 

Nei tuoi canali e progetti fotografici è raro trovare un tuo
autoritratto o un’immagine che ti ritragga. È una scelta deliberata quella di
restare fuori campo? In che modo questa “assenza” visiva si collega alla tua
idea di fotografo come osservatore silenzioso e discreto?

 

Non sono mai stato particolarmente a
mio agio dall’altra parte dell’obiettivo, non mi piace la sovraesposizione
della propria immagine, detesto il presenzialismo, soprattutto quello inutile.

Sono già presente in tutte le
fotografie che faccio, è come se in realtà l’obiettivo sia perennemente puntato
verso me.

Non sposo in modo ortodosso l’idea
del fotografo come osservatore silenzioso e discreto, nella maniera bressoniana
del termine. Secondo me è un gioco di equilibri, di esserci e non esserci, di
vuoti e pieni, di suoni e silenzi. Di armonia e senso generale dell’estetica.
E’ necessario gettare dei sassi per smuovere le acque inerti.

 

 

 

Tra i tuoi lavori, mi aveva colpito in particolare la serie sulle statue di Cristo a mani aperte. Cosa ti aveva spinto a soffermarti su quella ripetizione sacra e urbana, e cosa cercavi di raccontare attraverso quelle immagini?

Quella storia delle statue religiose
nacque forse per caso, in un momento di stasi. La religione codificata e
strutturata dall’uomo mi ha sempre messo a disagio. Non condivido il senso del
peccato imposto dalla morale cristiana. La religione mi è stata imposta, e ne
sono scappato presto. Il sacro è in ogni luogo, non solo in quelli preposti al
culto. E’ dentro l’uomo.

 

 

 

“On The Beach” ha segnato il tuo punto di svolta. Cosa ha
trasformato una serie di fotografie balneari in un progetto esistenziale lungo
13 anni? Cos’hai scoperto in quelle persone che ti ha fatto restare così tanto
tempo sulla spiaggia?

 

Non è stato il punto di svolta, è
stato il punto di inizio, un progetto nato nel 2012. Volevo recuperare la memoria, forse la mia. I pezzi
di qualcosa di mai vissuto personalmente in modo razionale, ma suggestioni di
bambino. Gli odori e i suoni. Salvare quello che c’è da salvare, e secondo me è
molto. Abbattere il pregiudizio sociale, il classismo e lo snobismo. Senza
giudizio, preferisco esprimermi ad un livello emotivo. E’ quello che mi passa
davanti. La città è cambiata parecchio, e continua a farlo. E’ come il
neverending tour. E’ come un treno, o un fiume, che continua a scorrere.

 

 

 

Hai detto che “tutti dovrebbero sentirsi a proprio agio con
un costume addosso”. È una frase potentissima. Fotografare i corpi reali per te
è solo un gesto estetico o anche politico?

 

E’ un gesto antifascista. On The
Beach è un lavoro più politico di quanto possa apparire ad uno sguardo
superficiale.

Tutto è politico.

Il corpo è uno strumento politico,
ogni cellula è un manifesto ideologico.

Tutto è bellezza.

Bellezza è verità.

 

 

 

Lavori esclusivamente in analogico. In un mondo dominato dal
digitale e dall’istantaneità, perché questa scelta così netta? Cosa cambia,
nella testa, nel cuore e nel corpo, quando si fotografa con la pellicola?

 

Preferisco che le fotografie
conservino un supporto fisico, un negativo nella fattispecie. Mi piace
l’esperienza di camera oscura, la ritualità, il pensiero che il minimo errore
si debba pagare. E’ necessario avere molta disciplina oltre al talento. Il
cosiddetto background fotografico, oltre alla valenza artistica.

La pellicola ha un limite, e questo
può aiutare nell’evitare di scattare centinaia o addirittura migliaia di
fotografie al giorno.

 

 

 

In “On The Beach” sembri passare da un punto di vista
antropologico a uno poetico, da ironico a struggente. Come scegli cosa
mostrare? E cosa invece decidi deliberatamente di non fotografare?

 

E’ solo una questione di coerenza
col proprio sentire, istante dopo istante. In certi giorni sono prolisso, in
altri muto.

 


 

Il tuo approccio è molto ravvicinato, quasi fisico, eppure
dici che un bravo fotografo deve restare “un fantasma danzante”. Come si
mantiene la giusta distanza quando ci si affeziona così tanto ai propri
soggetti?

 

E’ lo sforzo maggiore. Restare sul
bordo del cerchio della fiducia. Se si entra troppo, si perde l’integrità
artistica. Se si è troppo fuori, non si riesce a scavare in profondità.

 

 

 

Le tue recenti fotografie dedicate a feste private e
performer burlesque sembrano un cambio di atmosfera. Che legame c’è tra questi
ambienti notturni e le tue spiagge diurne? Cosa cerchi, oggi, nei corpi e nei
volti di quelle serate?

 

Era semplicemente una serie di
fotografie figlie di un periodo di noia e di assenza di altri stimoli. E’ stato
interessante osservare le due facce della luna. L’uomo e il performer. Dove
finisce l’autenticità e dove inizia la fiction.

 

 

 

Come vivi il fatto che molti dei tuoi soggetti oggi ti
riconoscono, ti chiedono le foto, quasi “recitano” per te? Riesci ancora a
catturare l’autenticità o è cambiata anche la tua fotografia?

 

E’ un aspetto che mi diverte, ci
gioco sopra e lo uso per prendermi in giro, destrutturare e riscrivere qualcosa
di già fatto e visto.

 

 

 

Stai lavorando su Scampia. Che approccio usi per raccontare
un luogo così carico di pregiudizi, narrazioni già scritte e dolore? Come eviti
il rischio di estetizzare il disagio?

 

E’ un lavoro finito, a causa della
tragedia nella Vela Celeste nel Luglio 2024, che ha accelerato lo sgombero di
quella e delle altre 2 vele superstiti, e la demolizione della Vela Gialla (di
fatto conclusa pochi mesi fa) e di quella Rossa.

Volevo semplicemente guardare con i
miei occhi, senza pregiudizi. Senza mai aver letto una certa letteratura o
visto determinate fiction.

Avrei voluto continuare il mio
racconto, ma il destino così ha voluto.

Spero solo che le persone innocenti
trovino finalmente pace e dignità.

Estetica ed etica per me coincidono.

 

 

 

Negli ultimi anni hai ricevuto premi importanti e
riconoscimenti anche internazionali. Che rapporto hai con tutto questo? Ti senti
cambiato nel modo di fotografare da quando il tuo lavoro è diventato così
seguito e apprezzato?

 

Certamente mi soddisfa, e mi spinge
ad andare avanti con maggiore intensità, ma senza forzature.

Mi diverte anche, per certi versi. E
mi divertono anche certe dinamiche che osservo o che mi rapportano.

Ma essenzialmente non sono mai
cambiato.

 

Se un giorno dovessi smettere di fotografare le spiagge,
cosa ti mancherebbe di più? E cosa credi che mancherebbe a noi che le abbiamo
guardate attraverso i tuoi occhi?

 

E’ una evenienza che non rientra nei
miei piani.

 

Guardando avanti, quali saranno i tuoi prossimi progetti?
C’è un ambito su cui desideri lavorare da qui al prossimo libro, una nuova
serie fotografica o un tema che ti affascina?

 

Ho delle cose in mente, e sto già
lavorando ad altre, sotto traccia.

Ma preferisco mantenere l’assoluto
riserbo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Contatti

Sito Web Robbie McIntosh Photographer 

Instagram robbie_mcintosh 

 

 

 

 

 

 

 

 

Robbie McIntosh

Fotografo professionista nato nel 1977, vive e lavora a Napoli. Al centro della sua ricerca c’è l’umanità, osservata nelle sue unicità e contraddizioni, tra fragilità e forza, silenzio e rivelazione.

Ha pubblicato due libri: On The Beach (2012, giunto alla terza edizione), progetto che segna un punto di svolta nel suo percorso, e Scampia Anno Zero (2023), vincitore del Corigliano Calabro Book Award 2024. Le sue opere, caratterizzate da un linguaggio netto ed essenziale, alternano rigore analitico e improvvisi slanci poetici, mantenendo sempre una tensione tra ciò che svela e ciò che trattiene.

Parallelamente alla produzione editoriale, ha condotto workshop in diversi contesti internazionali, portando avanti una visione della fotografia come missione dello sguardo, strumento critico e politico di indagine sulla realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Accompagnare lo sguardo – Roberto Mutti e l’arte di leggere la fotografia

Accompagnare lo sguardo


Roberto Mutti e l’arte di leggere la fotografia

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |18| Agosto |2025|

 

 

 

Roberto Mutti è uno dei principali storici e critici della fotografia in Italia, attualmente docente presso l’Accademia del Teatro alla Scala e l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano, nonché giornalista pubblicista per la Repubblica fin dal 1980. Curatore indipendente e organizzatore di prestigiosi festival e mostre, ha firmato oltre 200 tra saggi, monografie e cataloghi, consolidando una voce autorevole nel panorama culturale nazionale.

La filosofia è stata per lui una lente attraverso cui guardare la fotografia, non come esercizio di forma ma come linguaggio vivo, capace di incidere sulla mente e sulla collettivitàNel suo lungo percorso ha condiviso esperienze con grandi maestri, dal realismo poetico di Kertész alla forza visionaria di Giacomelli, fino alla leggerezza polaroid di Galimberti, ognuno capace, a suo modo, di segnare un punto di svolta. Ma lo stesso sguardo attento e partecipe Mutti lo rivolge a chi muove i primi passi, convinto che il talento possa rivelarsi nei modi più inattesi e fragili. È proprio in quei momenti che il critico deve saper ascoltare, offrendo lo spazio e la cura necessari perché un’intuizione ancora incerta trovi la propria forma.

Accanto alla scrittura e alla curatela, ha dato vita a progetti collettivi come Diorama Progetti Fotografici, nato dal desiderio di costruire uno spazio libero, aperto al confronto e alla ricerca, capace di dare voce a linguaggi laterali e ad autori che spesso restano nell’ombra. La sua riflessione non si ferma mai alla teoria astratta, essa cerca sempre un contatto diretto con gli artisti, con le loro immagini, con chi le osserva. È in questo dialogo continuo che Mutti mantiene uno sguardo limpido e indipendente, attento tanto alle derive del sistema dell’arte quanto alle trasformazioni profonde portate dall’era digitale.

 

 

 

 

 

Nel corso di questa conversazione, ci offre un’articolata riflessione sul linguaggio fotografico, ripercorrendone le trasformazioni e interrogandosi sul valore critico che l’immagine assume nel contesto culturale e sociale contemporaneo.

 

 

Lei insegna fotografia in contesti molto diversi, dall’Istituto Italiano di Fotografia all’Accademia del Teatro alla Scala. Come cambia l’approccio al linguaggio fotografico tra questi ambienti così diversi?

 

Non cambia molto anche se, ovviamente, l’Accademia ha un occhio di riguardo per il mondo dello spettacolo mentre l’Istituto è aperto a più diverse visioni. Nel mio insegnamento, tuttavia, inserisco elementi e riflessioni comuni nella convinzione che in fotografia esistono sì specializzazioni ma nella preparazione che deve dare una scuola queste barriere non esistono. Questo approccio comune poi lo devo declinare in modo diverso perché in Accademia lavoro con classi di pochi elementi mentre in Istituto sono molto più numerosi e quindi bisogna mettere in atto modalità differenti.   

 

Nel suo lavoro curatoriale si nota una grande attenzione al valore narrativo delle immagini. Come si costruisce oggi una mostra che sappia parlare sia all’appassionato che al grande pubblico?

 

Ogni fotografia possiede un valore narrativo che non appartiene, come si crede, solo al reportage (che oggi viene colpevolmente definito con il buffo neologismo storytelling) ma si può e direi si deve trovare anche nello still life, nel ritratto e soprattutto nella ricerca. Personalmente non ho nessun interesse per il cosiddetto grande pubblico che peraltro in genere ricambia il disinteresse per la fotografia salvo poche lodevoli eccezioni. Le mostre non si costruiscono per il pubblico ma per mettere in luce il lavoro di uno o più autori e lo si deve fare facendosi guidare da un solo elemento che è la sincerità ma non è detto che questa paghi. Faccio un esempio per essere chiaro: la più recente e purtroppo ultima mostra di Salgado sull’Amazzonia è stata visitata da moltissime persone che ne hanno apprezzato la bellezza ma molto meno il messaggio politico di allarme su quanto stiamo facendo al pianeta. Non parliamo poi dei tanti addetti ai lavori che hanno parlato di una deriva estetizzante dimostrando di essere incapaci di ascoltare e vedere, presi come sono dal far sentire i loro non richiesti giudizi.     

 

Lei ha spesso sottolineato l’importanza di accogliere e indirizzare i giovani fotografi. Qual è l’errore più comune che nota nei progetti emergenti, e cosa cerca invece in un lavoro davvero promettente?

 

Non mi sento di parlare in generale di una categoria così indefinita come quella dei “giovani fotografi” però se accetta un giudizio necessariamente generico che quindi esclude alcune pregevoli eccezioni, mi sembra che esista un certo diffuso conformismo. È come se gli autori, invece di cercare un personale linguaggio, si impegnassero a seguire quello che in una certa fase riscuote un generale interesse. Basta pensare con quanta superficialità ci si muove nel contesto della cosiddetta street photography senza una vera riflessione sul suo vero significato ontologico. In un lavoro che mi viene presentato cerco l’originalità della ricerca, la consapevolezza critica che la deve accompagnare e, ancora una volta, la sincerità o se preferisce l’autenticità. Si capisce subito se l’autrice o l’autore conosce la storia della fotografia, se ha studiato il passato non per ancorarvici ma per comprenderne la lezione e costruire così il suo percorso.  

 

 

    

Scrive di fotografia da oltre 40 anni: com’è cambiato il ruolo del critico fotografico nell’epoca digitale, dove tutti si sentono autori e recensori?

 

Tutti hanno diritto di sentirsi autori, recensori, critici e non importa che lo facciano scrivendo su un giornale o sul proprio profilo instagram. Ma per farlo non ci si può improvvisare, bisogna avere l’umiltà di studiare, approfondire e soprattutto ascoltare. Comunque, di superficiali e presuntuosi ce ne sono sempre stati, la novità è che il digitale ha moltiplicato le opportunità: se si è bravi e si ha qualcosa da dire si può far sentire la propria voce. La democrazia ha il limite di regalare spazio anche a chi non lo sa usare ma anche il pregio di aprirsi a chi lo merita.   

 

Avendo studiato filosofia, ha mai sentito che questa formazione abbia influenzato il suo modo di leggere, interpretare e insegnare la fotografia?

 

Assolutamente sì. Rispetto ai miei colleghi che provengono da studi artistici, ho constatato di avere un approccio totalmente diverso, non necessariamente migliore ma sicuramente più attento a una visione che include l’estetica ma intende guardare più lontano. Alfred Stiglitz, d’altra parte, diceva che allestire una mostra è come scrivere un saggio di filosofia e a questa massima mi sono spesso affidato, per lo meno quando il tema e gli autori lo suggerivano. La filosofia per me non è stata solo una rivelazione e uno studio molto appassionato ma soprattutto continua ad essere una guida per la vita di ogni giorno e, inevitabilmente, un filtro critico per affrontare anche la fotografia. 

 

 

 

Diorama nasce come spazio di progettualità e riflessione sulla fotografia. Qual è la visione che guida questo progetto e in che modo si inserisce, con la sua identità, nel panorama delle tante realtà curatoriali con cui lei ha collaborato nel tempo?

 

Diorama Progetti Fotografici nasce da alcune esigenze sia professionali che umane, perché con Cristina Comelli e mio fratello Pierluigi abbiamo avuto l’intenzione di rendere ancor più solido il rapporto di collaborazione anche amicale che ci lega da molti anni soprattutto nell’organizzazione del Milano Photofestival. Condividiamo l’idea di proporre la fotografia come ambito di una riflessione critica sul presente, di ampliare la conoscenza degli autori del passato, di dare spazio a quelle realtà autoriali che hanno difficoltà a farsi notare nel panorama fotografico contemporaneo. Questo ci consente una libertà di azione che rappresenta per noi un bene prezioso.   

 

Nel corso della sua attività ha curato autori estremamente diversi tra loro, da André Kertész a Maurizio Galimberti, da Mario Giacomelli a Fulvio Roiter. Cosa cambia — e cosa, invece, resta invariato — nell’approccio curatoriale quando ci si confronta con linguaggi così eterogenei?

 

Ogni volta che si lavora con o su un autore bisogna entrare nel suo mondo. Tempo fa una fotografa mi ha fatto un complimento di cui vado fiero: ha detto che prestavo la stessa attenzione a un autore importante come a un esordiente e che non cambiavo che il mio interlocutore era Gianni Berengo Gardin o una ragazza che mi sottoponeva il suo primo portfolio. Bisogna avere pazienza e dedicare molto tempo se si vuole ottenere un risultato soddisfacente: per la personale di Kertész ho studiato a lungo per realizzare un percorso espositivo originale ma che rispondesse anche al suo spirito. Diverso è quando ci si può confrontare dal vivo con i fotografi: con Fulvio Roiter abbiamo passato lunghe giornate a Venezia a discutere, raccontare, confrontarci, perfino a bisticciare ma il volume che ho scritto per Bruno Mondadori mi ha reso una sorta di suo biografo. Con Enrico Cattaneo e Virgilio Carnisio ho realizzato così tante mostre e libri da diventare un loro critico di riferimento. Con Maurizio Galimberti, per fare un altro esempio, ho un rapporto di amicizia che ci lega fin da quado era un esordiente quasi sconosciuto e lì è emersa la mia capacità di riconoscere il talento soprattutto quando ad altri sfugge.  Per realizzare alla galleria Belvedere  la prima mostra milanese di Mario Dondero e il relativo catalogo, sono stato a casa sua a Fermo, abbiamo passato assieme giornate intere a parlare di politica, di cibo, di calcio perché era tifoso del Genoa, di Cuba, di arte, delle Guerra Civile in Spagna, di Parigi dove ogni tanto ci incontravamo, di donne e, nei ritagli di tempo, abbiamo scelto le fotografie da esporre. Il giorno dell’inaugurazione le abbiamo vendute tutte. Il critico deve sì rimanere sé stesso ma anche essere plastico per comprendere la poetica di chi gli sta di fronte come pure le sue manie: Mario De Biasi era preciso in modo irreprensibile, Mario Dondero perdeva i negativi, Mario Cresci è imprevedibile, Roberto Polillo generoso, Carla Cerati era riflessiva, Giuseppe Pino ombroso. Una volta lo intervistai per Repubblica e, prima di pubblicarlo, gli feci vedere l’articolo che, mi disse, lo aveva deluso. Glielo lasciai chiedendogli dove voleva che lo modificassi e una settimana dopo mi disse che andava tutto bene: aveva voluto mettermi alla prova. Da lì è nata un’amicizia, tre o quattro mostre e due libri. Se avessi reagito male alle sue critiche, come forse avevo il diritto di fare, tutto questo non sarebbe successo. Un’ultima notazione: non lavoro con autori che non stimo o non mi interessano. Ho rifiutato lavori magari ben pagati per questa ragione e mi è capitato di accettare molto meno per aiutare chi mi aveva invece interessato.     

 

Roberto Mutti insieme a Maurizio Galimberti

 

 

 

 

 

 

 

Molti grandi maestri della fotografia, negli ultimi anni, hanno espresso il timore che la fotografia “stia morendo”, soffocata dalla sovrapproduzione visiva, dalla superficialità del consumo digitale o, più recentemente, dalle immagini generate artificialmente. Lei, che da decenni osserva l’evoluzione di questo linguaggio, come interpreta queste affermazioni? Ritiene davvero che la fotografia stia perdendo qualcosa di essenziale, o che invece stia semplicemente cambiando pelle?

 

È il mondo che sta cambiando, come è inevitabile che sia, e di fronte a tutto ciò nel tempo sono state certificate molte morti: si sono decretate quelle della carta stampata, dei libri, della letteratura, della monarchia, della pietà, della poesia, della solidarietà, dello Stato, dell’intero Occidente e perfino di Dio. Tutti soggetti che, magari un po’ acciaccati, continuano ad esistere. Viviamo in una fase di transizione dicono quelli che credono di essere originali (si vive sempre nelle fasi di transizione no?) e la fotografia ha conosciuto una rivoluzione di cui siamo i fortunati testimoni, quella del digitale. Si tratta dell’ennesimo grande cambiamento: chissà cosa pensavano i fotografi che usavano con perizia e attenzione il banco ottico leggendo la pubblicità della Kodak n. 1 che invitava sfrontatamente a limitarsi a schiacciare il bottone per ottenere una fotografia. Certamente la crisi sta mordendo il reportage schiacciato fra il declino delle testate giornalistiche e la ricerca del risparmio ad ogni costo che induce anche molti giornali a scaricare gratis le fotografie da internet. Comunque, non è la fotografia che sta morendo ma semmai è la generale incapacità di leggerla, interpretarla, approfondirla a preoccupare. Banalizzandola, infatti, le si fa perdere il suo intrinseco valore evocativo.   

       

Dopo oltre 200 pubblicazioni e innumerevoli mostre, qual è oggi, secondo lei, il futuro della fotografia autoriale? E cosa augura ai curatori e critici del domani?

 

La fotografia autoriale esisterà sempre perché da qualche parte del mondo ci sarà qualcuno che rifletterà sul metalinguaggio, si confronterà con un corpo o un volto, indagherà su un paesaggio, farà vivere di vita nuova un oggetto, sarà testimone di avvenimenti da condividere. Starà ai curatori intercettarli, incoraggiarli, svolgere il ruolo di interlocutori fra loro e il pubblico. Non possiamo sapere quando e in che modo, ma tutto questo sicuramente avverrà. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
©L’ArteCheMiPiace – Blog Arte e Cultura di Giuseppina Irene Groccia 

 

 

 

 

 

 

 

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Interviste

Roberto Litta – Critico narratore dell’arte italiana

 

 

Roberto Litta

Critico narratore dell’arte italiana

 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia |16| Agosto |2025|

 

 

Roberto Litta, classe 1966, scrittore, divulgatore e comunicatore, è oggi una delle voci più autorevoli e innovative della critica d’arte contemporanea italiana. Dal liceo scientifico agli studi di giurisprudenza, passando per il marketing, ha seguito un percorso che, lungi dall’essere lineare, gli ha permesso di sviluppare un approccio originale e appassionato. Un metodo critico che lega le opere al contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e dei loro tempi, rendendo l’arte accessibile, viva e dialogica.

Autore di romanzi, soggetti teatrali e saggi, Litta è anche volto della RAI dedicato alla cultura, portando nelle case degli italiani la bellezza dell’arte italiana con eleganza e freschezza narrativa. Il suo lavoro stimola un ascolto attento e sensibile, aprendo nuovi orizzonti di esperienza e offrendo una guida preziosa per le nuove generazioni di artisti e appassionati.

 

 

 

In questa intervista esploriamo la sua visione appassionata e ottimista dell’arte, la capacità di raccontare storie e contesti con rigore e leggerezza insieme, e l’impegno a trasformare ogni opera in un dialogo vivo tra artista e spettatore.

 

 

 

Il Suo percorso non è stato lineare, dal liceo scientifico
alla giurisprudenza, passando per il marketing, fino all’approdo nel mondo
dell’arte. In che modo queste tappe, all’apparenza distanti tra loro, hanno
contribuito a costruire il Suo approccio così originale alla critica d’arte?

 

La risposta a questa domanda potrebbe sembrare semplice e
diretta: Nella vita spesso ci si trova a cambiare

In realtà, io ho cercato di
seguire l’andamento della mia vita, lasciandomi guidare dalle passioni e dalle
domande che mi sono posto lungo il percorso.

Sono sempre stato affascinato dal concetto di diritto. Mi
chiedevo, sin dai tempi antichi, a partire dagli antichi romani, quali fossero
le regole che permettessero una pacifica convivenza tra le persone, in società
che nel tempo sono diventate sempre più complesse. Mi interessava molto capire
il ruolo che il diritto ha avuto — in particolare il rapporto tra diritto
morale e diritto positivo, quello scritto dai giuristi — nel creare le
condizioni per una convivenza civile. In fondo, si tratta di una delle grandi
conquiste dell’evoluzione umana: l’idea di vivere secondo regole condivise,
piuttosto che in balia di soprusi e prevaricazioni.

Poi è arrivato l’incontro con la letteratura. Già ai tempi
del liceo avevo una grande passione per la storia, la filosofia, e per le
dinamiche sociali ed economiche del nostro Paese. Ho iniziato a scrivere
moltissimo: soggetti teatrali, romanzi, e in seguito anche saggi, soprattutto
nell’ambito dell’arte.

Ed è proprio attraverso la passione per la letteratura che
mi sono avvicinato al mondo dell’arte. Da semplice appassionato ho cominciato a
cercare di interpretare i messaggi che gli artisti, fin dai tempi più antichi
ma anche oggi, ci comunicano attraverso le loro opere.

 

 

È spesso descritto come un narratore più che un critico. Che
cosa ritiene di guadagnare, e forse anche di rischiare, scegliendo il racconto
e il coinvolgimento emotivo al posto del rigore accademico?

 

Se per “narratore” intendiamo qualcuno che ha qualcosa da
raccontare, allora sì. Non bisogna pensare che il narratore sia solo colui che
racconta episodi e fatti legati alle arti. Ognuno di noi è portatore di un
pensiero, di una capacità intellettuale, della possibilità di leggere i nostri
tempi e di proporre analisi e soluzioni.

 

 

Il Suo metodo critico lega profondamente le opere al
contesto storico, filosofico e sociologico degli artisti e del loro tempo. Come
nasce questo approccio? E cosa l’ha spinta a prendere le distanze da letture
più fredde e convenzionali?

 

Il coinvolgimento emotivo è molto importante, perché una
lettura fredda, eccessivamente tecnica, a volte allontana il grande pubblico da
una reale possibilità di approfondire l’analisi e di cogliere i messaggi
trasmessi dalle opere d’arte. Questo è ancora più vero oggi, in un’epoca in
cui, a causa dei nuovi dispositivi, le persone sono abituate ad avere poca
concentrazione e a consumare contenuti in pochissimo tempo.

L’idea, invece, di raccontare le storie, gli eventi, le
condizioni socio-economiche, i comportamenti degli artisti e per chi quelle
opere sono state prodotte, diventa un elemento capace di accrescere l’interesse
e mantenere viva la concentrazione.

Per quanto riguarda la critica, ad esempio, l’anno scorso ho
scritto il catalogo ragionato delle opere di Nelvis Fornasin, uno degli ultimi
grandi rappresentanti della pittura paesaggistica napoletana. È stato
considerato, anche da colleghi del settore, uno dei più importanti saggi sulla
pittura napoletana.

C’è molto da raccontare, e chi fa il mestiere del critico
dovrebbe scrivere con frequenza saggi e curatele, per dimostrare — come cerco
di fare io — che la narrazione e la riflessione sono strumenti fondamentali.

 

 

 

Oggi è anche un volto della RAI nei programmi culturali.
Quanto cambia il Suo modo di comunicare l’arte in televisione rispetto a una
mostra, a un saggio o a una conferenza? Quali compromessi impone il mezzo
televisivo, e quali potenzialità offre?

 

 

La televisione di oggi si trova a dover competere con altre
piattaforme o con altri dispositivi, bisogna considerare che molte più persone
fruiscono dei contenuti televisivi, o delle piattaforme televisive, attraverso
i propri dispositivi personali.

Per questo è necessario velocizzare il linguaggio, renderlo
comprensibile e rapido. Nelle “pillole” che abbiamo inserito in alcune trasmissioni,
credo che l’esperimento sia riuscito molto bene. La pillola deve incuriosire,
attirare l’attenzione di un certo target e, a partire da lì, portarlo verso
contenuti più specialistici, garantendo poi una certa continuità di fruizione.

Questo è stato anche l’obiettivo di Memorie Italiane– Isegreti di Milano. Abbiamo iniziato raccontando la città di Milano, ma
racconteremo tante altre città e i loro segreti. L’idea era proprio questa:
partire da piccole pillole pubblicate sui social o negli spot, per poi portare
le persone sulla piattaforma, dove hanno seguito Memorie Italiane fino
all’ultimo secondo.

 

 

 

 

Il Suo amore per l’Italia è tangibile in ogni intervento.
Secondo Lei, qual è il “non detto” dell’arte italiana che meriterebbe di
tornare al centro del racconto culturale contemporaneo?

 

L’attuale RAI, guidata dall’amministratore delegato
Giampaolo Rossi, presta attenzione anche al ricambio delle persone e alla
valorizzazione del metodo, affinché, come in tutti gli ambiti, che siano
editoriali, culturali, aziendali o industriali, ci siano sane rotazioni e si
verifichi costantemente come i prodotti possano offrire sempre il meglio al
pubblico.

I prodotti che si dimostrano efficienti, efficaci e
funzionanti proseguiranno. Gli altri, come è giusto che avvenga, saranno
archiviati: alcune sperimentazioni che non hanno successo vengono infatti
consegnate agli archivi e alle teche.

 

 

 

Ha più volte affermato che ogni opera è un “dialogo vivo”
tra artista e pubblico. A Suo avviso, come si può educare il pubblico a
mettersi in ascolto, a lasciarsi attraversare da questo dialogo? Che cosa manca
oggi in questo scambio?

 

Per mia fortuna, mi capita spesso di parlare con stranieri,
e tutti riconoscono la grandezza dell’Italia sia come giacimento culturale, sia
come culla dell’opera lirica. La lingua dell’opera, per tantissimi anni, è
stata l’italiano, e tutti riconoscono la grandezza dei nostri artisti,
architetti, pittori e scultori.

Questa grandezza viene riconosciuta ancora oggi, sia agli
ultimi maestri del secondo Novecento sia ai contemporanei. Questo significa che
il “brand Italia” nell’arte ha sempre funzionato molto; dobbiamo essere noi i
primi a posizionarlo e valorizzarlo.

Spesso vedo che, all’estero, anche piccole opportunità
vengono trasformate in notizie nazionali e internazionali, mentre in Italia
accade che grandissime iniziative culturali, per eccesso di offerta, a volte
non vengano adeguatamente interpretate e valorizzate.

È vero, può capitare che qualche italiano non faccia onore
al nostro Paese, ma bisogna ricordare che l’Italia è un Paese meraviglioso. A
chiunque abbia dei dubbi, dico: basta venire qui e alzare lo sguardo per
ammirare le nostre opere d’arte, le nostre chiese, oppure, più semplicemente,
chiudere gli occhi e ascoltare Cinema Paradiso di Ennio Morricone. Ci si
convincerà che un Paese capace di generare quella cultura musicale e artistica
non può essere un Paese che “va male”, ma resta sempre uno dei vertici migliori
del talento umano.

 

“Flagellazione di Cristo” di Piero della Francesca, tempera su tavola 1444/1469

 

 

Viene spesso definito un “ponte tra passato e futuro”. Come
si può, secondo Lei, valorizzare la tradizione senza che diventi un freno alla
sperimentazione artistica contemporanea?

 

Il ponte tra passato e futuro è necessario. Studiando gli
artisti, anche del passato, si nota che tutti hanno avuto dei maestri oppure si
sono ispirati a qualcuno. Penso, ad esempio, a quando Salvatore Fiume decise di
diventare pittore: mentre studiava illustrazione a Urbino, si innamorò della
Flagellazione di Piero della Francesca e della Profanazione dell’ostia di Paolo
Uccello
.

Ogni artista ha una sensibilità che è stata stimolata e
incuriosita dalla visione di artisti contemporanei o precedenti. Io ho quasi
sessant’anni e considero un mio dovere trasferire ai tanti giovani che oggi si
avvicinano all’arte le storie meravigliose, a volte persino rocambolesche, dei
grandissimi artisti.

Presentare un artista contemporaneo, mettendo in luce le
affinità della sua storia personale o della sua cifra stilistica con un grande
artista del passato, suscita interesse nei confronti dell’arte di oggi e del
pubblico, contribuendo ad aumentare complessivamente l’attenzione verso i nuovi
artisti.

 

Miracolo dell’ Ostia profanata (predella) di Paolo Uccello (sec.XV)


 

Molti giovani artisti La considerano una guida. Che
consiglio darebbe a chi, oggi, desidera esprimersi nell’arte ma si sente
scoraggiato da un ambiente che percepisce come elitario o distante?

 

 

Il consiglio che do sempre è: cercate il successo, non la
popolarità. Il successo è un participio passato: significa che si è fatto
qualcosa, che si è lavorato a un progetto, che si è costruito uno stile, che ci
si è creduto e che non ci si è fermati alla prima difficoltà.

Noi critici dobbiamo avere la capacità di dare conforto, di
dire a queste persone di non scoraggiarsi, di non guardare solo nell’immediato
alle risultanze commerciali, cioè alle vendite, perché il mercato dell’arte in
Italia oggi può essere molto rallentato, persino fermo, ma questo non deve essere
un deterrente. L’arte è, prima di tutto, espressione del pensiero umano. Finché
c’è un pensiero che si esprime, l’arte italiana, che, lo ripeto, è molto
apprezzata all’estero, continuerà a generare opportunità.

Non a caso, il 5 dicembre a Venezia ci sarà una mostra
importante, Artista d’Europa,  in cui gli artisti italiani dialogheranno con
curatori e grandi artisti di altri Paesi europei. Ormai è inutile parlare
soltanto di confini nazionali: bisogna far conoscere le proprie opere anche
all’estero, e in questo la rete può essere un aiuto prezioso.

 

 

La Sua visione dell’arte è frequentemente descritta come
romantica e ottimista. È una scelta consapevole, in un’epoca in cui sembrano
prevalere disincanto e nichilismo?

 

 

Ha ragione: mi preoccupano molto i Paesi, come quelli che
stiamo vedendo in Occidente e anche in Italia, in cui tutti desiderano le
stesse cose. Tutti vogliono avere una vita agiata, essere ricchi; ma quando i
desideri diventano uguali per tutti, vengono a mancare le differenze e prevale
l’omologazione.

Noi, invece, abbiamo bisogno di tanta passione in materie
differenti, perché con la passione si possono raggiungere picchi di eccellenza
in qualsiasi attività umana. Forse per troppi decenni si è ripetuto, lo ricordo
anche da giovane, che bisognava studiare qualcosa che permettesse di trovare
subito un lavoro. Oppure, se uno aveva il padre notaio, studiava legge; se
aveva il padre medico, studiava medicina; se farmacista, farmacia… e così via.

Invece dobbiamo ascoltare le passioni. Bisogna lottare nella
vita, e quando si capisce di avere una passione molto forte, io l’ho capito per
l’arte, bisogna intraprendere quella strada con tanto impegno e sacrificio. I
risultati, alla fine, arrivano sempre: il lavoro paga, senza alcun dubbio.

 

 

Guardando al futuro, quale ruolo immagina per sé nel
panorama culturale italiano? E quale “non ancora detto” sente di voler
raccontare, magari proprio attraverso il linguaggio della televisione?

 

Credo che, nel nostro Paese, occorra ancora un grande
sforzo di conciliazione culturale. Abbiamo troppe ideologie contrapposte,
troppe visioni dell’arte e della cultura in contrasto. Invece avremmo bisogno
di costruire luoghi di riflessione e spazi di condivisione, dove ciascuno possa
arricchirsi di una parte del sapere degli altri.

Penso che questa sia una strada fondamentale, perché
conciliando si costruisce una comunità forte. I nostri ragazzi dovranno
affrontare sfide ormai globali, internazionali: le loro competizioni non
saranno soltanto con altri giovani italiani, ma con ragazzi di tutto il mondo.
Per poter competere su quei tavoli, serviranno grande capacità,
specializzazione e impegno.

Abbiamo bisogno di una comunità che comprenda che l’impegno,
il merito e le competenze rappresentano una sfida non più rinviabile, e che non
esistono scorciatoie. Forse per troppo tempo ai nostri giovani sono state
insegnate scorciatoie.

L’arte può e deve aiutare a indicare una strada maestra per
vivere bene la propria vita. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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