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Giuseppina Irene Groccia

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ContempoArte – Selezione 11

L’ArteCheMiPiace – ContempoArte – Selezione 11

 

 

 

La Rubrica ContempoArte presenta la rinnovata raccolta di opere, selezionate tra tutte quelle pubblicate su Facebook, Instagram e Pinterest, accompagnate dall’hashtag #Lartechemipiacecontest

 

 

In questa raccolta troviamo opere diverse di differenti artisti che si avvicinano, si accostano e dialogano gli uni con gli altri.

Ogni singolo artista sceglie di mettersi in relazione con il proprio sentire, attraverso una tecnica espressiva a lui più congeniale.

Il risultato è un racconto altamente narrativo, che si sviluppa attraverso storie e visioni, composte da arte pittorica e fotografica.

Sono amabili percezioni visive che spaziano tra richiami figurativi o astratti, svelandoci l’inspirazione implicita che la storia del presente propone con tutti i suoi segnali contemporanei.

 

 

Artisti di questa raccolta:

 

Angela Lucari, Jad G Ghorayeb, Mark Cattaneo, Barbara Cannizzaro, Giorgio Mercuri, Angelo Casoni, Gaia Porta, Dirk, La Chigi, Loredana Boldini, Roger Larsen, Mary Vignoli, Stefania Piccoli, Danilo Gheghi, Maria Serra, Bruno Vilas Boas, Amedeo Burgio, Henrik Nömm, Floris Andrea, Andrea Schiavinato, Apollonia Nanni, Barbara Carretta, Alessio Benassi, Stefania Vena, Antonio Giampá, Willy Indiviglia

 

 

 

 

 

©Angela Lucari – Italy
 
 
 
 
 

 

©Jad G Ghorayeb – Lebanon
 
 
 
 
 
©Mark Cattaneo – Italy
 
 
 
 
 
©Barbara Cannizzaro – Italy
 
 
 
 
 
©Giorgio Mercuri – Italy
 
 
 
 
 
©Angelo Casoni – Italy
 
 
 
 
 
©Gaia Porta – Italy
 
 
 
 
 
©Dirk
 
 
 
 
 
©La Chigi – Italy
 
 
 
 
 
©Loredana Boldini – Italy
 
 
 
 
 
©Roger Larsen – Norway
 
 
 
 
 
©Mary Vignoli – Italy
 
 
 
 
 
©Stefania Piccoli – Italy
 
 
 
 
 
©Danilo Gheghi – Italy
 
 
 
 
 
©Maria Serra – Italy
 
 
 
 
 
©Bruno Vilas Boas – Portugal
 
 
 
 
 
©Amedeo Burgio – Italy
 
 
 
 
 
©Henrik Nömm – Norway
 
 
 
 
 
©Floris Andrea – Netherlands
 
 
 
 
 
©Andrea Schiavinato – Italy
 
 
 
 
 
©Apollonia Nanni – Italy
 
 
 
 
 
©Barbara Carretta – Italy
 
 
 
 
 
©Alessio Benassi – Italy
 
 
 
 
 
©Stefania Vena – Italy
 
 
 
 
 
©Antonio Giampá – Italy
 
 
 
 
 
©Willy Indiviglia – Italy
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

Le opere presenti in questa Rubrica, saranno pubblicate anche sui canali social di L’ArteCheMiPiace.

 

 

La selezione delle opere è a cura di Giuseppina Irene Groccia (Founder del Blog L’ArteCheMiPiace) e avviene attraverso l’uso dell’hashtag oppure diversamente potete partecipare alle selezioni inviando direttamente via email a: gigroart23@gmail.com indicando nell’oggetto: Submission ContempoArte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ArteCheMiPiace da l’opportunità ad artisti emergenti ed affermati di usufruire di una vetrina in cui proporre il proprio talento, operando per la promozione e la valorizzazione degli stessi.

Ogni progetto promozionale diffuso sulle pagine di L’ArteCheMiPiace, è soggetto a selezione e comprende approfondimento dei materiali forniti con consulenza, ricerca, redazione e diffusione.

 

Se desideri avere più spazio, con un’intervista oppure con la presentazione di un tuo progetto artistico, invia la tua candidatura alla seguente email: gigroart23@gmail.com

 

 

Oppure contattaci attraverso questo Form

 

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Interviste

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO 

 

di Giuseppina Irene Groccia  |10|Gennaio|2021|

 

 

 

 

 

 

Per il ciclo “L’intervista”, ho pensato che non avrei potuto non intervistare il Maestro Pierluigi Rizzo 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Artista da sempre attento al dialogo tra linguaggi, ha sviluppato, nel corso di diversi anni di attività, una ricerca poliedrica che si fonda e si alimenta proprio nel colloquio tra ambiti e discipline diverse, nel suo caso principalmente pittura, scultura, poesia e teatro.

 

 

Nel suo percorso ha guardato costantemente ad una contaminazione tra le arti, utilizzando e fondendo gli apporti di diversi rami creativi: da quello visivo, a quello teatrale e poetico.

Nella sua pittura, ritroviamo forme e colori dai chiari tratti informali, che non sono altro che l’eco di suoi pensieri e parole.

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

Sono opere caratterizzate da una violenta gestualità, pulsanti di colore, in cui sembra che l’artista diventa un tutt’uno con la propria opera, amalgamando l’immagine di se stesso fino ad emergere con tematiche chiare della propria identità personale, della memoria e dell’anima.

 

Osservando e ammirando la pittura gestuale di Pierluigi, si percepisce chiaramente l’espressione del gesto astratto, dell’azione e del movimento. 

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

L’uso esclusivo della spatola crea energia pura, che si imprime sulla superficie, attraverso una sua sapiente tecnica personale,  rafforzata dalla scelta del colore, grande protagonista della sua pittura.

 

La struttura compositiva è complessa, con orizzonti spesso popolati da inquietudini visionarie.

 

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

Altra arte che è ben collocata all’interno del suo potenziale artistico, è quella di coniugare egregiamente la materialità delle pietre preziose all’estetica del design,disegnando con particolare abilità, oggetti preziosi da gioielleria. 

 

Parallelamente alle diverse forme di arte visiva, come pittura e scultura, nei momenti di ispirazione, si dedica anche alla poesia, inserendo suoi scritti in antologie e raccolte di liriche. 

 

La sua è una poetica in grado di muoversi tra le cose, secondo una dimensione alchemica dello spazio scritto.

 

Una narrazione, che è un peregrinare fantastico, all’interno della sua fantasia. 

 

Dalle sue opere, siano esse letterarie o visive, emergono sussurri, frammenti di scene lontane che raccontano paesaggi e attraversamenti, bagliori e ombre, luci e tenebre.

 

 

Ho scavato una fossa

ho lavorato lentamente

l’ho fatta molto profonda

ed ho adagiato il mio amore.. 

Con dolcezza l’ho guardato , l’ho baciato 

ed ho cominciato a buttare terra poi pietre

poi rocce. ..

Ho sepolto il mio amore

non c’era nulla da fare

ho seppellito il mio cuore.

Pierluigi Rizzo

 

 

Nel suo rapporto con la scena teatrale invece, c’è un percorso finalizzato all’approccio intellettuale, il palcoscenico diventa luogo dove egli si gioca abilità e pratica.

L’elemento visivo fa da contrappeso a quello verbale, in un perfetto equilibrio… e la sua voce diviene racconto, evocando visioni.

Questo è il cuore dell’arte e del buon narratore..

 

Pierluigi Rizzo vive la realtà e l’arte come un atto di passione in un territorio magico, traducendo in immagini e versi la propria sensorialità psico emotiva.

Il suo spazio artistico e il suo procedimento creativo, sono strumenti attraverso i quali ci restituisce le immagini della sua straordinaria e sensibile visione del mondo.

 

 

 

 

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

“La roccia di Horeb” – Sculture in marmo grigio venato

 

 

 

Cercheremo di conoscerlo meglio attraverso questa intervista, per capire a fondo i suoi lavori e per comprendere meglio i meccanismi della sua poliedrica attività artistica 

 

Un aspetto che mi ha subito colpito è il tuo autorevole background artistico. Pittore, scultore, attore teatrale, scenografo, designer, scrittore e poeta.. In che modo e quanto riesce ad apportare, ogni singola esperienza artistica, al tuo profilo creativo e umano?

 

Innanzi tutto ti ringrazio poi aggiungo che in realtà  le varie arti si intrecciano fra loro e diventa molto facile esprimersi nei vari linguaggi artistici. Attraverso le varie esperienze, naturalmente ci si arricchisce sempre più in quanto alcune cose non si possono spiegare bene con una tecnica, mentre è più facile con una altra e cosi che i vari percorsi si possono completare l’uno nell’ altro. 

Scrivere e lavorare per il teatro mi ha arricchito enormemente e tutto quello che apprendevo si riversava inesorabilmente nei vari linguaggi, dalla scultura alla pittura e al design in genere.

 

Ci racconti un pò dell’importante scelta, di interrompere gli studi in medicina per dedicarti a tempo pieno alla tua passione per l’Arte? Hai mai avuto rimpianti?

 

Abbandonare gli studi di medicina per seguire la mia strada artistica è stato problematico, non tanto per me ma per i miei genitori. Faccio presente che allora eravamo negli anni settanta,  con una mentalità  completamente diversa da ora e dire che facevi l’artista era visto come una follia, soprattutto a Rossano e in Calabria. Io provenivo da studi classici e non avevo mai avuto contatti con il mondo artistico, tranne suonare la chitarra in un gruppo giovanile, esperienza che mi ha aiutato molto in teatro e nello scrivere, per cui ho dovuto studiare da solo tutto quello che era possibile, del mondo artistico. 

No, nessun rimpianto e se tornassi indietro lo rifarei di nuovo.

 

 

 

Quanto ha influito la tua lunga permanenza a Perugia, una città d’arte piena di storia, nel tuo percorso artistico e professionale?

Indubbiamente Perugia è stata fondamentale per due motivi, uno per il lato artigianale e l’altro per gli incontri con quasi tutte le nazionalità del mondo, in quanto sede dell’università per stranieri, con la possibilità di conoscere gente proveniente dalle varie parti della terra ed avere scambi culturali enormi e questo mi ha aiutato molto.

 

 

Perugia e il suo Umbria Jazz. Pensi che nasca da lì la tua grande passione per il Jazz?

Si, senza dubbio anche se io preferivo il blues ma a Perugia la mia conoscenza del jazz si è perfezionata ed ho potuto apprezzarlo ancora di più. 

Amo ancora il blues.

 

Che tipo di percorso artistico hai compiuto e quanto ha influito sulla tua formazione?

Come dicevo prima, non avevo nessuna formazione artistica tranne i miei studi classici, ma era troppo poco. Arrivai a fare arte da un cammino, oserei dire classico e cioè dall’artigianato.  Cominciai a lavorare il vetro con la tecnica della pittura a freddo,  che in quel tempo, parlo degli anni settanta, a Perugia la importarono degli studenti artisti iraniani e infatti è una antichissima arte persiana.  

In italia è  conosciuta come arte povera ed infatti la voce grossa la fa la tecnica delle vetrate a fuoco.  

Cominciai cosi e naturalmente, il vetro, avendo bisogno di una struttura di sostegno, cominciai a costruire oggetti come lampade, vassoi, tavoli, posaceneri, porte etc, utilizzando il vetro dipinto a freddo e studiando le strutture in un modo nuovo. 

Piano piano rubai le tecniche ad altri artigiani anziani che erano ben contenti che qualche giovane si  appassionasse al loro lavoro. Parlo naturalmente sempre del vetro.

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Serie “Fumetti” – Resine su Plexiglas 

 

Un giorno, entrò nel mio laboratorio aperto al pubblico, un signore il quale osservò tutti i miei lavori molto attentamente poi mi lascio il suo biglietto da visita e mi disse: “quando reputa di avere un lavoro artistico mi telefoni.” Ed uscì.  

Venni a sapere che era un importante collezionista di arte perugino, nonché un primario di ospedale. 

Spinto da questa nuova storia cominciai a studiare tutto quello che era possibile del mondo dell’arte e cominciai a leggere soprattutto un libro sulla Bauhaus e qui cominciò la mia avventura in questo mondo fantastico dell’ arte.

Il mio lavoro artigianale, che non ho mai abbandonato, abbinato alle ricerche artistiche, mi hanno portato in giro per il mondo .

 

 

 

Ami definirti “operatore di materia”. Ci spieghi perché?

Ho coniato questo termine, operatore di materia, perché non sono un Creatore in quanto ex nihilo, dal nulla non riesco a fare niente ma da un lavoro manuale riesco a far uscire qualcosa. 

Non  mi posso definire artigiano in quanto in realtà non lo sono, come produzione intendo e quindi mi è  venuto facile coniare questo termine, in poche parole non sono Dio e nessun uomo lo è.

 

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

 

 

Serie “Ramette”, l’originale progetto realizzato con latte da olio in banda stagnata, dipinte ad olio.

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Quali tecniche utilizzi nell’esecuzione dei tuoi lavori?

 

Come ho detto prima non avendo studiato arte ho dovuto inventarmi le mie tecniche e negli anni le ho perfezionate.  

Uso molto l’olio per dipingere e uso la spatola per farlo,  in quanto non so usare i pennelli e in realtà non li ho mai usati . Essendo scultore preferisco la spatola perché lo trovo un attrezzo simile ad uno scalpello.

Le tecniche poi variano a seconda dei materiali che uso.

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

In alcune mostre ti sei contraddistinto con le tue famose “stratificazioni”, una tecnica che spinge l’osservatore ad interrogarsi sull’inesorabile scorrere del tempo. Che cosa rappresentano per te?

La serie delle “Stratificazioni” inizia più o meno una decina di anni fa con l’osservazione di una vecchissima porta nel centro storico di Rossano, dove risiedo, notando che il tempo aveva grattato e consunto il colore superficiale facendo apparire i vari strati di colore che si erano succeduti nel tempo e formando forme particolari; naturalmente mentre osservavo, i ricordi mi risalivano e vedevo persone, scene, odori che avevo dimenticato. Praticamente fu come un viaggio nel tempo e mi trovai immerso in quel periodo rivivendolo. Associare i colori alle varie sensazioni fu un tutt’uno. Cominciai cosi a viaggiare a ritroso nel mio interiore cercando di seguire i contorni di un ricordo ma mi accorsi che sfumavano sovrapponendosi ad altri ricordi tanto da non poter distinguere, se non a tratti, le varie storie. Nella sovrapposizione accadeva che si formavano altre storie e cosi decisi di provare ad immortalare con i colori questo viaggio nella memoria.

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Quali sono i materiali che prediligi usare per le tue sculture e soprattutto a cosa ti ispiri quando le realizzi?

 

Il materiale che prediligo è il bronzo. Fare la scultura e poi fonderla è una goduria, ma i costi sono alti, troppo alti ed è  da molto tempo che non faccio più fondere. Le ultime sculture le feci fondere in alluminio, materiale che mi piace molto ed è  molto meno costoso del bronzo ma resta il fatto che è difficile vendere una scultura. Lavoro con tutti i materiali dal legno al marmo e naturalmente vetri e plastiche fuse .

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

 

 

I miei temi sono più o meno gli stessi, sia in pittura che in scultura o in scrittura e cioè il rapporto uomo/Dio/uomo. 

Non faccio il figurativo perché il mio mondo è interiore, come tutte le problematiche umane e cerco di scandagliare il più  possibile dentro il mio animo, partendo dalla bibbia e da tutti gli altri testi cosiddetti sacri.

 

La tua “sete” di ricerca ti ha portato a girare un po’ il mondo, parlaci dei luoghi che ti hanno maggiormente apportato ispirazione..

 

Ho avuto il piacere e l’onore di esporre in molti paesi del mondo ovest, ed ognuno mi ha trasmesso qualcosa. Sono rimasto enormemente colpito dagli artisti brasiliani, che toccano diversi linguaggi, sia dal lato conservatore che dal lato di avanguardia. La Francia, sotto un certo aspetto, mi ha deluso ma io parlo degli anni novanta ed allora, sembrerebbe strano, era sempre in voga il classico, anche per come sono, o meglio erano, arredate allora le case. Ho potuto conoscere diversi artisti che, a loro modo, mi hanno convinto a continuare la mia strada .

 

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace
L’artista in occasione della sua personale negli Stati Uniti

 

Lavori ed esponi non solo in Italia, ma anche all’estero. In particolare quanto ha inciso la tua esperienza espositiva negli Stati Uniti sul tuo percorso artistico?

Per quanto riguarda l’America del nord io posso parlare solo di alcune città come New York, Frederik, Cumberland o Washington. Quello che ho potuto vedere nelle varie gallerie delle diverse città, mi ha trasmesso un qualcosa di fermo agli anni sessanta e settanta, ho visto poca ricerca di avanguardia interessante.  

Unica cosa, per me positiva, è stato constatare che moltissimi artisti lavorano l’olio su carta. Lavori che anche io porto avanti da più di cinque anni, ma che non trovano un mercato, perché  la gente è abituata alla tela. I vari luoghi nei quali ho potuto lavorare nonché esporre, in realtà, non mi hanno ispirato, in quanto la mia ispirazione viene da dentro, dal mio profondo.  

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Serie “Giano bifronte” Olio su Plexiglas con luce interna e supporto in legno. H 2mt

 

Opere esposte presso la Schwab Mountain Maryland Gallery – Cumberland (Stati Uniti) 

Anno 2015

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

 

Nei primi anni 80 avviene il tuo incontro con il teatro. Ci parli della tua prima esperienza come scenografo e poi di quella come attore?

In realtà il teatro è avvenuto per gradi. Un giorno entra nel mio laboratorio a Perugia un signore che conoscevo come attore e direttore di un teatro cabaret di Perugia “Il Canguasto”, appena entrato si presenta e mi chiede se ero disponibile a fare da factotum per la sua compagnia.  

In pratica dovevo guidare il furgone con tutte le varie attrezzature ed in più occuparmi del mixer audio e luci. Io, che avevo una leggera conoscenza del settore, accettai anche perché la paga era buona e si lavorava di domenica. Iniziai cosi dal basso e poi accadde, come succede sempre, che mancava un attore e mi chiesero di sostituirlo. Accettai, anche perché non dovevo fare niente, solo entrare salutare ed uscire. Alla fine dello spettacolo l’attrice protagonista Mariella Chiarini, venne da me e mi disse che avevo una grossa presenza scenica. Allora non capivo, ma aveva perfettamente ragione.  

Fu così che iniziai.

 

Per quanto riguarda la scenografia, fui contattato da un’altra compagnia, che aveva messo su un lavoro particolare su Cristo ed avevano bisogno di una grande croce in vetro. La realizzai,  tenendo presente che non doveva essere fragile e studiai una scultura di vetro incollata su specchio e legno che si montava per il trasporto. Poi vennero altre scenografie, ma sempre introdussi le mie ricerche artistiche .

 

Ci racconti qualcosa sulla tua ricerca poetica e il rapporto che hai con la tecnica espressiva?

Per quanto riguarda il lato poetico devo dire che non mi sento un poeta, sono un autore teatrale e forse a volte sono sconfinato nella poesia. In realtà, le mie cosiddette poesie sono micro storie, dato che ormai non scrivo più per il teatro per varie vicissitudini, sia personali che per la vita in generale.

Il mio ultimo lavoro teatrale è stato nel 2016 con lo spettacolo “Ah l’amore”, successivamente ho portato a termine, sempre nel 2016, il libro “Il tempo di esplorare il nostro  amore” un lavoro iniziato nel 2015.

 

 

IL TEMPO DI ESPLORARE IL NOSTRO AMORE DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace
 
Per un approfondimento  sul libro clicca qui
 

 

Ecco, il tuo ultimo lavoro letterario “Il tempo di esplorare il nostro amore” è molto autobiografico, qual è stato l’impulso che ti ha spinto a realizzarlo?

Si, hai ragione questo libro è autobiografico ed è l’analisi, momento per momento, di tutto quello che è  accaduto in quel rapporto intenso di amore, sia nelle fasi belle che nelle fasi distruttive.  

In realtà accadde un fatto strano mentre vivevo le fasi negative di quell’ amore e cioè cominciai a sdoppiarmi, ad analizzare il me stesso che soffriva, ed era come se in quei momenti esistessero  due me stessi, uno che annotava i vari momenti, direi freddamente, e l’altro che smaniava per amore.

Fu una esperienza che lasciò solchi profondi.

 

A volte, per noia, prendo una penna e scrivo quello che passa nel mio interiore. Le mie incazzature, le mie illusioni e delusioni, le riflessioni su un mondo che reputo sempre più in decadenza, il mio rapporto con un Dio che trovo sempre più sadico etc.

 

Non ho una tecnica poetica né la ricerco, perché non scrivo poesie. Nella mia presunzione lascio una traccia diversa, scrivo appunti sulla mia vita e stranamente, anche altri si ci ritrovono. Mi piace sfatare i vari luoghi comuni perché creano prigioni, dalle quali è difficile uscirne.

 

 

A cosa stai lavorando in questo periodo?

In questo periodo sto lavorando ad una serie di nuovi quadri,  tenendo presente il lavoro di scrittura, cerco di dare alle varie parole un colore e debbo confessare che mi piace molto questo connubio.

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace

 

Infatti stai vivendo un momento di grande forza creativa attraverso la realizzazione di numerose nuove opere. A quando una tua nuova personale?

Forse, una volta finito questo brutto periodo di chiusura a causa del covid,  riuscirò a fare una personale con questi nuovi lavori e spero prima di morire .

 

LA RICERCA POLIEDRICA DI PIERLUIGI RIZZO SU L’ArteCheMiPiace



 

 

Per te che hai fatto della definizione di “libertà” uno stile di vita, ci spieghi un tuo personale concetto a riguardo?

La libertà? Un concetto vago, una idea con troppe sfumature.  Esiste un tentativo di raggiungere la libertà ma sarà comunque condizionata dagli altri. È vero, ho sempre lottato per la mia libertà, tenendo presente che si paga un pedaggio molto salato e cioè la solitudine.

 

Libertà è una parola troppo usata. Ci sarà  sempre qualcosa o qualcuno che limiterà questo concetto e in fin dei conti noi siamo legati l’uno all’altro come penisole. Personalmente ho sempre cercato di non uniformarmi al pensiero degli altri  soprattutto se era un pensiero che soffocava il mio sentire interiore e lo stesso nel mio mondo artistico. Quando ero giovane, seguivo la strada classica nel mondo artistico e cioè  gallerie, pubblicazioni, critiche etc,  poi mi accorsi, che in realtà cercavano un cavallo da sfruttare ed io non sono un cavallo, ma un tentativo di uomo per cui mi allontanai da tutto e seguii la mia strada, che conduco ancora oggi.

Ripeto, si paga con la solitudine, anche se io non l’avverto mai  .

 

Per chiudere questa conversazione, vorrei chiederti qual è il tuo più grande obiettivo professionale raggiunto o anche solo sognato?

 

Il mio obbiettivo raggiunto è quello di aver vissuto di arte fino ad ora girando mezzo mondo, mi riferisco al mondo ovest, quello che mi piacerebbe realizzare ancora è di esporre in Cina e in Giappone, due culture che mi attraggono moltissimo, purtroppo data la mia età sarà molto difficile realizzare questi obiettivi ma è anche vero che non bisogna mai dire mai.. chissà.

 

 

 

Contatti dell’artista 

🔘Pierluigi Rizzo su Facebook

🔘Pierluigi Rizzo su Instagram 

 

 
 
 
 
 
 

Intervista a cura di Giuseppina Irene Groccia 

 

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Ogni progetto promozionale diffuso sulle pagine di L’ArteCheMiPiace, compreso l’intervista, è soggetto a selezione e comprende approfondimento dei materiali forniti con consulenza, ricerca, redazione e diffusione.

 

 

Invia la tua candidatura alla seguente email: gigroart23@gmail.com

 

 

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ArtistiMy Favourites

JEAN PAUL BOURDIER – Paesaggio e corpo come tela

 

JEAN PAUL BOURDIER – Paesaggio e corpo come tela

 

di Giuseppina Irene Groccia  |01|Gennaio|2021|

 

Jean Paul Bourdier combina paesaggio e carne come tela, senza l’uso della manipolazione digitale, per creare un’unione visiva, con tutte le immagini che sono state scattate sul posto tramite la tecnica della fotografia analogica.

 

Attraverso l’uso simultaneo di performance art, pittura e fotografia analogica, mette in scena situazioni che richiamano la magia dell’essere, della natura e della Luce.

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

 

Il suo lavoro si concentra sempre sulla bellezza e la geometria del corpo umano.

 

Le immagini che produce fungono da portale per rivendicare il nostro rapporto intimo con l’infinito. 

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

Ogni immagine è una scena unica – creata, messa in scena e catturata – di paesaggi naturali uniti alla forma umana, che esprimono bellezza, verità e meraviglia sul piano fisico, così come ciò che è nella nostra immaginazione.



Attraverso il corpo nudo dipinto con i colori della luce, riporta l’umanità alla sua natura fondamentale, scavalcando i soliti strati di identità, spazio e tempo, e ricontestualizzandola in essere.

 

JEAN PAUL BOURDIER - Paesaggio e corpo come tela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jean Paul Bourdier riesce a presentare il corpo in un modo del tutto surreale su un paesaggio infinito, in un universo in continua evoluzione, facendolo interagire in vari modi con la terra. 

Questo corpus di opere è una contemplazione degli esseri umani e della loro intima interrelazione con l’ambiente.

 

Bourdier mette da parte la necessità di creare immagini in movimento per dare vita alle sue fotografie, preferisce catturare il movimento nel fantastico mondo della performance, dell’espressione e del paesaggio onirico. Le sue opere sfidano l’occhio della mente, allargando l’immaginazione per abbinare il potenziale illimitato dietro gli esseri che popolano la sua personale visione artistica.

 

Le sue pluripremiate immagini fotografiche sono state esposte negli Stati Uniti e in Francia e fanno parte della collezione permanente di diversi musei.

 

 

Jean Paul Bourdier è professore di design, disegno e fotografia nel dipartimento di architettura della UC Berkeley.

 
 
 
 
 
 
 
 

 

Scenografo di sette film e co-regista di due film diretti da Trinh T. Minh-ha, ha anche pubblicato diversi libri, tra cui Vernacular Architecture of West Africa, uscito nel 2011 e tre libri di fotografia, Bodyscapes, pubblicato nel 2007, Leap intro the Blue (2013), Body Unbound (2017) e Body Mirror il suo ultimo lavoro uscito a Novembre 2020, dove ritorna ad unire la sua arte fotografica all’editoria.

 

Body Mirror - Fine Art Photography Book by Jean Paul Bourdier

 

Fine Art Photography Book “Body Mirror” Info sul libro qui

 

Puoi trovare “Body Mirror” su Amazon clicca qui

 



 

 

 

 

 

 

 

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ArteMy Favourites

RAIN ROOM – Quando acqua, arte e tecnologia si incontrano

  • Rain Room 

Fusione tra Arte e Tecnologia

 

di Giuseppina Irene Groccia |28|Dicembre|2020|

 

 

Il momento della “fruizione” di un’opera d’arte sembra raggiungere l’apoteosi nelle installazioni artistiche.

L’opera è viva, in movimento, la si attraversa, e si lascia fruire da noi stessi con infiniti sensi, quali vista, udito, olfatto e tatto, oltre che con il cuore e con la memoria di ciò che quell’opera ci farà sentire e sperimentare.

 

Oggi vorrei parlarvi di una delle mie preferite, presentata per la prima volta nel 2012, conquistando in seguito un enorme successo nell’ambito delle opere site specific.

 

Camminare sotto la pioggia senza bagnarsi?! Qualcuno l’ha reso possibile.

 

Si tratta del progetto “Rain Room” di Random International, collettivo di design con sede a Chelsea, fondato da Stuart Wood, Florian Ortkrass e Hannes Koch al Royal College of Art.

 

Un’imponente installazione consente ai visitatori di camminare direttamente attraverso una tempesta di pioggia simulata, senza bagnarsi.

 

Il progetto utilizza strumenti altamente tecnologici capace di interagire con le persone, quali piastrelle stampate a iniezione, elettrovalvole, regolatori di pressione e telecamere di tracciamento 3D per rilevare la posizione delle persone, attivando o disattivando di conseguenza ciascuno dei suoi singoli flussi di pioggia. Coprendo un’area di oltre 100 metri quadrati, utilizza quasi 220 litri d’acqua ogni minuto, con un meccanismo rapido di filtraggio e rimessa in circolo.

 

Guarda il video del progetto “Rain Room”

 

L’esperienza ha un fascino surreale e teatrale. Entrando nello spazio espositivo ci si trova immersi nell’oscurità, con una sola luce all’estremità della stanza. Questo conferisce una qualità magica ed argentea al campo di pioggia, che si riversa su una piattaforma rialzata.. un palcoscenico per l’esperienza dello spettatore. 

 

L’interazione del pubblico diventa parte cruciale dell’installazione, poiché la pioggia risponde alle loro reazioni attraverso specchi motorizzati, e in questo modo il pubblico diventa il soggetto dell’opera d’arte.

 

 

 

 

 

 

 

Quando i visitatori si avviano sul palco, queste identiche linee verticali di pioggia battente iniziano a essere respinte, come se ogni corpo emettesse una sorta di campo magnetico invisibile. Man mano che entrono, la pioggia si chiude intorno ad essi, avvolgendo ogni figura che si staglia in un perfetto vuoto cilindrico. Il visitatore si ritrova circondato dal rumore della pioggia e dalle particelle d’acqua in sospensione ma completamente asciutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’installazione Rain Room vede la luce per la prima volta nel 2012 presso il Barbican Centre di Londra. Successivamente l’opera è stata riproposta più volte, prima al MoMA di New York nel 2013, poi al Yuz Museum di Shangai nel 2015, infine al LACMA di Los Angeles nello stesso anno. 

Attualmente è ospitata all’interno del Jackalope Pavilion a St Kilda a Melbourne, e successivamente sarà trasferito nel nuovo Jackalope Hotel a Flinders Lane.

 

Durante l’esposizione di debutto del 2012 al Barbican Centre, la compagnia di danza di Wayne McGregor si è esibita sulle note del compositore contemporaneo Max Richter, interagendo con l’installazione e con i normali spettatori. Acqua, corpo e tecnologia riescono così a creare un’installazione unica, capace di rendere possibile il paradosso di danzare sotto la pioggia rimanendo completamente asciutti.

 

Guarda il video dell’esibizione 

 

 

Il collettivo Random International tratta ogni progetto come parte di un processo continuo di ricerca, sulla relazione tra le persone e le nuove tecnologie intelligenti, ed ha lavorato inoltre con lo scienziato cognitivo Philip Barnard per analizzare il comportamento delle persone.

 

 

 

 

 

RANDOM INTERNATIONAL sono:

 

Florian Ortkrass nato nel 1975 a Rheda-Wiedenbrück, Germania. Laureato alla Brunel University nel 2002 e al Royal College of Art nel 2005.

 

Hannes Koch nato nel 1975 ad Amburgo in Germania. Laureato alla Brunel University nel 2002 e al Royal College of Art nel 2004.

 

 

 

 

 

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Lost in Translation…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LOST IN TRANSLATION 

 

 

 

 

di Giuseppina Irene Groccia 09|Dicembre|2020

 

 

 

Diciassette anni di Lost in Translation. Il film diventato un cult uscì ad ottobre del 2003, nelle sale italiane arrivò per la prima volta esattamente il 5 Dicembre 2003. 

 

Per un film, diciassette anni possono essere tanti.. tanti da rischiare la bolla del dimenticatoio oppure al contrario tanti da trasformarlo in un’immagine eterna, che rinasce sempre e ci racconta ogni volta più di una sola storia.

 

Per me rientra tra i miei film preferiti fin da allora.

 

Sofia Coppola, la figlia d’arte più importante del cinema americano contemporaneo, realizzò una pellicola minimale di grande eleganza ed ancora maggiore sensibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il film venne girato in 27 giorni tra Tokyo e Kyoto, con un budget di 4 milioni di dollari. Finì per incassare circa 120 milioni di dollari in tutto il mondo, ottenendo quattro nomination agli Oscar come Miglior Film, Migliore Attore Protagonista , Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura. 

Sofia Coppola alla fine si aggiudicò quest’ultima e fu la terza donna a essere nominata come Miglior Regista nella storia degli Academy Award.

 

 

Sofia Coppola durante le riprese del film

La regista all’epoca volle ed ottenne a tutti i costi, un attore di rilievo quale Bill Murray come protagonista, accompagnato da una giovanissima Scarlett Johansson, risultati in seguito, coppia d’eccezione per un film introspettivo e profondo.

La loro eccellente interpretazione, contribuì sicuramente ad elevare ancora di più la qualità del film.

 

Una parte ricorrente e poi diventato culto è la scena in cui il film  si apre sulla finestra di una camera del Park Hyatt, hotel in cima alla Shinjuku Tower. E’ proprio da lì che Scarlett Johansson osserva spesso Tokyo in completa solitudine. 

 

 

 

 

Ed è sempre in quella struttura, esattamente al cinquantaduesimo piano, che si trova anche il New York Bar: una delle location più romantiche della città. Il posto in cui i personaggi di Bob e Charlotte si incontrano per la prima volta.

 

 

 

 

 

Bob: “Sai mantenere un segreto? Sto organizzando un’evasione da un carcere. Mi serve, diciamo, un complice. Prima dobbiamo andarcene da questo bar, poi dall’albergo, dalla città e infine dal paese. Ci stai o non ci stai?”

Trama:

La storia si svolge nella caotica e moderna Tokyo, dove l’americano attore Bob, la cui carriera è ormai in declino, accetta di pubblicizzare una marca di whisky. Una volta arrivato nella metropoli, Bob si trova a dover far i conti con una cultura ed una lingua completamente diverse e difficili da comprendere. Tale diversità, crea nelle varie situazioni da lui affrontate diversi malintesi e incomprensioni che lo portano inevitabilmente a sentirsi sempre più isolato. Ma nell’albergo nel quale alloggia, Bob nota presto una ragazza, Charlotte, con la quale stringerà poi una particolare amicizia.

Charlotte invece, ventiquattrenne in cerca del suo destino, si è trasferita a Tokyo per seguire il neo-marito fotografo. Così come Bob, anche la ragazza si sente irrimediabilmente sola. Annoiata, Charlotte percepisce una più profonda solitudine, che va oltre l’incomunicabilità dovuta ad un paese straniero. I due protagonisti si incontrano nel bar dell’albergo e iniziano ad uscire insieme per sfuggire alla noia, dandosi conforto l’un l’altra. Tra loro nasce una relazione che apparentemente può sembrare la nascita di una storia d’amore, ma nasconde un più intimo e profondo rapporto. (www.filmpost.it)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il titolo ‘Lost in translation’ è diventato, nella versione italiana, impropriamente ‘L’amore tradotto‘, traduzione che non ha assolutamente niente a che fare con il reale significato dell’originale e del film stesso, ci ripaga il fatto che il vero significato di questo “perdersi nella traduzione” lo troviamo fortunatamente negli occhi dei protagonisti Bob e Charlotte. 

 

Sofia Coppola confeziona un film estremamente poetico, nascosto in una storia leggera ed ordinaria. Non è affatto un film semplice, non a caso additato spesso come una pellicola minimale eccessivamente lenta, poco parlata e con lunghe scene.. a tratti noioso.

La verità è che tutto si riduce a sensazioni nel suo susseguirsi di immagini ed emozioni.

Lost in Traslation è qualcosa di diverso dai soliti film, che può piacere o no ma che è comunque un’opera originale e decisamente ben fatta che riesce in pieno a trasmettere il suo messaggio. 

 

Il dato più rimarchevole del film è una dominante dolcezza mai leziosa. È la storia del rapporto solo sfiorato e del non detto, i due protagonisti sono l’emblema di due satelliti paralleli che nonostante gravitino intorno allo stesso pianeta non riescono mai a toccarsi.

È l’umanità di un sentimento tenerissimo che cresce e si evolve, un sentimento dove il sesso è assente, si ha voglia solo di sentirsi vicini, di avvertire accanto a sé la presenza dell’altro, è un viaggio la cui meta, per qualcuno forse deludente, non è un bacio appassionato o una notte d’amore che apre a un futuro insieme, ma un importante gradino nella conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie insoddisfazioni, mai completamente estinguibili.

Ciò che provano non è visibile attraverso gesti o baci. Le loro intenzioni e i loro desideri sono sempre veicolati attraverso sguardi e silenzi più potenti delle parole stesse.

 

 

È in questo lavoro cinematografico che Sofia Coppola rivela il suo grande amore per Tokio, affronta la tematica di un matrimonio in crisi e l’origine di un’amicizia speciale. 

Ma Lost in Translation, oltre ai riferimenti autobiografici veri o presunti della regista, è un racconto intimo di due persone smarrite, due solitudini che si incontrano, due anime solitarie che si attraggono e si avvicinano infine con la speranza di trovare un equilibrio stabile.

Questo penso vada a sancire in qualche modo il sottotitolo inglese al film, “Everybody wants to be found” (“Tutti vogliono essere trovati”).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un incontro, il loro, inevitabile, con in più il sapore amaro delle storie impossibili ma non per questo meno importanti.

Il confronto intimo che ne scaturisce, rappresenta per entrambi una cura.

Quella a cui assistiamo è sì una silenziosa e discreta storia d’amore, ma è anche un’operazione di salvataggio

 

Le vicende del film si svolgono per la maggior parte nei quartieri di Shinjuku e Shubuya, fra i più vivaci e colorati della megalopoli giapponese

Tutto viene mostrato tramite una stupenda fotografia fatta di campi lunghissimi.

A tratti Tokyo diventa il simbolo del mondo tecnologico, dell’odierna metropoli in cui tutto si esaurisce, tutto si perde e non c’è mai tempo o modo per godere davvero l’attimo. 

 

 

 

 

 

In altre sequenze invece, attraverso il viaggio di Charlotte, sul “bullet train” per Kyoto, vediamo anche la delicata ed eterea spiritualità dei giardini o dei luoghi di culto giapponesi.

Come la visita al tempio Joganji, dove ha la fortuna di osservare da vicino il passaggio di una affascinante geisha, come anche i templi di Nanzenji e Chion-in e il Santuario Heian Jingu con il  suo meraviglioso giardino dove Charlotte lega un o-mikuji (biglietto contenente una predizione divina), ad un albero.

 

 

 

 

Il ritmo, come avevamo detto precedentemente, è lento ma
accompagnato piacevolmente da sonorità intimiste, introspettive e profondamente
nostalgiche.

In particolare la scena appena descritta sopra, è dotata di un ottimo montaggio sonoro attraverso la traccia “Alone in Kyoto” degli Air, un pezzo etereo, dai suoni e dalle atmosfere uniche e ricercate, scritta appositamente per il film. (Vedi video sotto)

 

 

 

 

 

Per la prima inquadratura del film, Sofia Coppola si lascia ispirare da un dipinto di John Kacere, i cui quadri si vedono più avanti nel film, appesi in hotel.

Scarlett era riluttante a filmare la prima scena con le mutandine rosa semitrasparenti, fino a che Sofia non le indossò lei stessa per mostrarle come apparivano. 

 

 


    Jutta di John Kacere – Acrilico (1973)

 

 

 
 

Scarlett Johannson nella scena iniziale del film 
 
 
Con questa scelta, la regista imposta quello che sarà l’intero  tono del film,  una sensazione costante nel quale vedremo diverse scene che alludono ad eventi ma che non vengono palesemente mostrati.
 
 
 
 
Sofia Coppola ha creato un film difficile da dimenticare, grazie anche ad un finale che vale tutto l’Oscar

 

 

Finale che, commovente e per nulla deludente, nella sua ermetica semplicità, è da annali del Cinema. 

Sofia Coppola ce lo regala sulle note di un vecchio hit dei Jesus e Mary Chain, con Bob che in partenza per l’aereoporto vede Charlotte dal taxi e la rincorre per le affollatissime strade di Tokyo. La raggiunge, l’abbraccia forte e le sussurra qualcosa all’orecchio prima di salutarla definitivamente. E’ in questo piccolo gesto, di un’intimità così clamorosa, dalla quale la regista ci tiene letteralmente fuori, che sta tutta la bellezza di un film tenero e dove lascia allo spettatore la possibilità di costruire un proprio finale, che sia stato un addio o un arrivederci non è dato sapere, ma sicuramente nessuno dei due sarà più lo stesso dopo quei giorni in giro per Tokyo in mezzo a strampalati karaoke e ristoranti silenziosi. 

 

Per anni, nessuno a parte Bill Murray, Scarlett Johannson e Sofia Coppola hanno saputo cosa Bob sussurra a Charlotte nella scena finale, una frase all’apparenza banale [decifrata dopo un duro lavoro di manipolazione dell’audio da parte dei fan.. (vedi video sotto)] ma in realtà in grado di racchiudere l’intera essenza del film.

 

 

Bob: Devo andarmene.. ma non lascerò che questo si frapponga tra noi!
Charlotte: Ok

 

 

In conclusione, mi sento di dire, a chi non ha avuto modo di vederlo, che Lost in Translation è un film da recuperare perché credo sia in grado di cullarci nel nostro quotidiano inquieto, suggerendo risposte senza la necessità di essere razionali.

 

Ci lascia immagini intrisi di melanconia, un senso di evanescente tristezza.. come un racconto che è già ricordo.

 

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